Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  ottobre 30 Domenica calendario

FRANZ DI CIOCCO: «BATTISTI, DALLA, DE ANDRE’ E PFM: GIOCAVAMO LO STESSO CAMPIONATO DEL BRASILE» – Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi: “E poi ci venivano le idee

FRANZ DI CIOCCO: «BATTISTI, DALLA, DE ANDRE’ E PFM: GIOCAVAMO LO STESSO CAMPIONATO DEL BRASILE» – Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi: “E poi ci venivano le idee. Il fruscio sul piatto prima a simulare la risacca del ritornello ‘O mare nero’ ne La canzone del sole, il cadere della neve che non fa rumore in Emozioni, il ‘na-na-na-na’ di Acqua Azzurra, Acqua chiara, il doppio colpo di batteria che segue ‘Vorrei sapere chi ha detto’ in Dieci ragazze. Come tutti i grandi creativi, Lucio Battisti riconosceva la creatività negli altri. E non la castrava. Le sue canzoni erano veri e propri capolavori e se apparivano facili, lo erano perché era lui a farle sembrare semplici. ‘Damme la zampata’ mi diceva o anche ‘damme er breakkaccione’, come in Anna, forse il pezzo che amava di più, in cui prima del colpo di batteria c’è una pausa infinita, lunghissima”. Franz Di Cioccio ha settant’anni e molti palchi divisi con una squadra eterogenea: “Giocavamo nello stesso campionato del Brasile, ma non ci sentivamo inferiori”. Dalla, De André, i Procol Harum, gli Yes, i Deep Purple. Intorno, dal 1971, tra le luci e le tournée in America, tra i King Crimson, i Led Zeppelin e le classifiche di Billboard, Classic Rock o Rolling Stone, i suoni della Premiata Forneria Marconi e la batteria di Franz l’abruzzese. “Quando si trattò di battezzarmi, il prete disse no: ‘Con questo nome il bambino resterà per sempre nell’area del peccato’, disse. Così convinse mio padre, suonatore di Oboe che mi aveva chiamato Franz in omaggio ai compositori tedeschi, ad aggiungere Renzo sulla carta d’identità senza potermi evitare però le interrogazioni a scuola. Appena vedevano Franz sul registro di classe legato a un cognome così poco tedesco, Di Cioccio, a interrogarmi i professori ci mettevano un secondo. I compagni ridevano: ‘Di Cioccio? Franz? Ma chi è questo?’. Facevo buon viso a cattivo gioco. Da abruzzese a Milano negli Anni 50, arrangiarsi e abbozzare era la regola”. Da allora sono passati 60 anni. E io ancora suono. Se penso alla stazione di partenza, Pratola Peligna, L’Aquila, mi sento strafelice. Quando non ce la farò più, mi farò da parte da solo, senza lasciare agli altri il privilegio di suggerirmelo. Con la Pfm abbiamo appena finito un tour europeo, stiamo benissimo. Trovare un nome più cervellotico di Premiata Forneria Marconi era arduo. Esauriti dagli altri gruppi tutti i nomi animaleschi, ci orientammo su un nome lungo che fosse complicato da imparare e che quindi alla lunga risultasse indimenticabile. Forse troppo per americani e inglesi che d’imperio sintetizzarono in Pfm. Più di metà della sua vita l’ha trascorsa suonando. Mio padre mi aveva promesso di iscrivermi in Conservatorio, ma invece di ritrovarmi tra gli archi, finii sui banchi delle scuole tecniche. Franz Di Cioccio, perito ottico. Non perché volessi costruire occhiali, ma perché, irrequieto, mi immaginavo sul terreno di battaglia a fare reportage di guerra. Suo padre, ci ha detto, suonava L’oboe. E comprava i dischi della Decca in un negozietto di piazza Cordusio per poi fendere la nebbia, togliere la plastica e goderseli nel tinello. I vinili giravano sul piatto e io agitavo un grissino fingendo di dirigere un’orchestra. A papà venne la pleurite e cominciò a lavorare come sarto. Voi come avete cucito una carriera che ha portato la Pfm a diventare il più famoso gruppo rock italiano? Con l’incoscienza della differenza. In Italia dominavano i cantautori e per i cantautori il testo era tutto. Per il testo sacrificavano la metrica, la musica e qualunque altra cosa. Voi eravate diversi? Noi volevamo solo suonare e divertirci. Non c’era un vero e proprio frontman e tra noi non respiravi neanche un vero protagonismo: ‘Questo pezzo mi piace e lo canto io’, ci dicevamo o anche: ‘Tu hai la voce più alta lo canti tu’. Eravamo un vero collettivo. Siete stati tra i primi a importare sonorità dall’estero. Rubavamo idee agli altri e le facevamo crescere dentro di noi per continuare a viaggiare nella musica provando a non restare fermi. Non ci fossilizzavamo su un genere, ma li mischiavamo. Se non ascolti gli altri non evolvi. Cosa ricorda della gavetta? Moltissime cover di infimo livello. A noi davano le peggiori. Non quelle dei Beatles, ma quelle della guardarobiera dei Beatles. Prima di suonare con la Pfm, lei lavorò con l’Equipe 84. L’Equipe 84 era in seno alla Ricordi e il mio gruppo, ‘I Quelli’, dalla Ricordi voleva andarsene. Facevamo dischi che non vendevano. Sandro Colombini, in procinto di passare alla Numero Uno, mi propose di andare a Sanremo con l’Equipe 84, con cui in studio suonavo da tempo, in cambio della scioglimento del vincolo dalla Ricordi. ‘Poi vi porto con me alla Numero Uno’. Lei gli diede retta? Adesso utilizzare quel termine sembra ridicolo, ma la Numero Uno, la casa discografica che avrebbe ospitato a lungo Battisti e Mogol ci pareva alternativa. Ci sembrò un buon accordo e così, vestito come un pinguino, accompagnai a Sanremo 4.3.1943 interpretata in coppia con Dalla. Come andò? Mi cambiavo vorticosamente vestiti e poi a fine esibizione, in un lampo, mi ritrovavo con gli amici al Whisky Club davanti all’Ariston. Lucio Dalla era dei nostri e si divertiva fino a tardi a improvvisare jam session inventando parole in inglese. Dovevano mandare via la gente, in quelle serate. Di Dalla che ricordi ha? Uno vitale, spiritoso, geniale. Dal punto di vista artistico lo sentivamo vicino. Lucio era prima musicista e poi cantante. Uno che non si è mai sognato di fare una scelta normale. Dopo Sanremo passaste alla Numero Uno. Senza più Colombini che litigò con Mogol e se ne andò. E noi rimanemmo con il cerino in mano. I rapporti con Battisti mutarono? Mai. Con Lucio c’era una grande intesa musicale. E tra le mani, rimanevano accordi felici, cose buone. Battisti non era il cantante che stava impettito nel suo ruolo o che diceva: ‘Ho scritto questo e quindi devi suonare questo’. Battisti. Un genio misantropo, avaro e un po’ di destra. Sulla storia di Lucio fascista sono state scritte tante cose e tutte sbagliate. Che la contestazione lo interessasse poco è vero, ma Lucio era tutto tranne che ideologico. Della politica non gli importava nulla. Allora soltanto misantropo e di manica stretta? Tutto falso. Se avaro è quello che non ti offre il caffè, cazzo, nel nostro mondo ce ne sono tanti. Sul Battisti misantropo invece bisognerebbe dire altre cose. Bisognerebbe dire che ad allontanarsi dalla scene, un po’ come Mina, per come lo consideravano i fan, fece benissimo. E come lo consideravano i fan? Come una loro appendice, un vicino di pianerottolo, un vecchio parente. Ma quando mai? Battisti era timido, riservato, simpatico e allegro nel privato magari, ma del tutto disinteressato alla celebrazione della celebrità. Non voleva fare la rockstar. Alla gente che gli portava pezzi di carta da autografare, restituiva una barchetta. Piegava l’A4 in quattro parti e invece della sua firma consegnava un piroscafo. E Mina? Mina andava alla Bussola e non riusciva neanche a farsi largo perché la gente si accalcava isterica all’ingresso. E non si accalcava solo per acclamare l’artista, ma faceva follie per vedere il volto del suo uomo. L’idolatria è pesante, difficile da sopportare. E Mina aveva già fatto scelte coraggiose, a iniziare dall’avere un figlio con Corrado Pani in un’Italia ultrabigotta. Avrebbe meritato più rispetto. Ai tempi delle successive contestazioni non ebbero grande rispetto neanche i nostri cantautori. I migliori tra loro, da De Gregori a De André vennero contestati apertamente per ragioni del tutto pretestuose. Francesco reagì duramente, Fabrizio dialogò perché De André era così. Era arrivato a giustificare e a comprendere persino i suoi rapitori. Perché secondo lei? Perché delle minoranze rumorose non gli importava nulla: ‘Se lo pensano – diceva – lascia che lo dicano’. Quelli facevano casino sulla pelle di Fabrizio, urlavano: ‘Bussola, Bussola’, rinfacciandogli incassi e serate e lui li lasciava fare. Poi magari il graffio lo restituiva in forma di canzone. In forma autoironica: ‘Io seduto in mezzo ai vostri vaffanculo’, cantava. E in quella pausa tra vostri e vaffanculo, era come se rispedisse gli insulti al mittente. Lo dice perché pensa fosse quella l’intenzione? Lo dico perché ero lì, con lui. Fabrizio aveva un’ammirevole indifferenza per le miserie del mondo. Veniva da una famiglia borghese, ma aveva sempre frequentato vicoli e puttane. Conosceva esattamente il linguaggio del popolo e non si spaventava. Stava comunque dalla parte degli ultimi. La collaborazione tra Pfm e De André è di lunghissima data. Lavorammo insieme fianco a fianco, nel 1970, durante la produzione de La buona novella. Un testo molto potente e molto bello, musicalmente un po’ stretto. Poi non ci incontrammo per anni fino a quando, molto tempo dopo, ci presentammo a Fabrizio con un’idea indecente. Quale idea? Fare di ogni suo brano un quadro a sé, proponendogli musica e arrangiamento senza alcun condizionamento della parola o del testo. Demmo vita a un tour lunghissimo e molto prezioso anche umanamente. Pieno di scenografie sonore, di sceneggiature musicali all’interno di ogni singolo brano. De André fu contento dell’esperimento? Molto. Perché a Fabrizio della musica importava. Di vendere un disco in più non gli fregava un cazzo. ‘Siate curiosi – diceva – proprio come Steve Jobs’. Anche se non gli piaceva sentirselo dire, De André era anarchico. Come musicalmente anarchica si è sempre sentita anche la Pfm. Perché anarchica? Perché nessun disco è uguale al precedente. Neanche il prossimo di inediti che uscirà a marzo. Se vuoi durare nel tempo devi essere contemporaneo. E per sentire lo spirito dei tempi, sorprenderti e sorprendere, devi essere curioso. Vi affermate negli anni in cui al rock la droga è associata quasi per contratto. Con De André bevevamo per sottrargli la bottiglia, ma non è un mistero. Una volta l’ho visto cadere dalla sedia, perché come in quella famosa foto di Guido Harari, quella ritoccata un’infinità di volte in cui la bottiglia di whisky a bordo palco riappare e scompare magicamente, se fai un certo tipo di lavoro il bicchiere ti è amico. E il resto? Mi ricordo di una serata al Paradiso di Amsterdam in cui a forza di fumo passivo nelle prime file eravamo tutti sballatissimi. Ho girato per il mondo e ho visto di tutto, se dico che non ho mai fumato una canna non ci crede nessuno. E cos’altro ha fatto? Sono stato a casa di Peggy Lee, le ho cantato Johnny Guitar e non me lo sono più scordato. Ho condiviso il palco con Santana, Beach Boys, Allman Brothers, perfino con gli ZZ Top. Ho visto cose che voi umani… ma questo è un altro film. Come consideravate i cantautori? Mi è sempre piaciuto Paolo Conte, un poeta, uno che musicalmente, proprio come Fabrizio amava il Jazz, ma ho amato anche altri esponenti di quel periodo come Guccini o De Gregori. La Donna Cannone è tra le melodie italiane più riuscite di sempre. Poi c’è Franco Battiato. Cosa possiamo dire di Battiato? Battiato ha fatto cose che nessuno avrebbe avuto il coraggio di fare. Al Castello di San Giusto, con ammirevole faccia di bronzo, mise le catene dentro il piano per alterarne il suono senza curarsi del pubblico che rumoreggiava. Uno così aveva il problema di dimostrare musicalmente qualcosa? Giocava con le parole, metteva in metrica cose incantabili come I treni di Tozeur ed essendo intelligentissimo, lo faceva e lo fa con cura, grazia e maestria. Quanto conta aver studiato? Dipende dai casi. Io sono un autodidatta. Non sono mai andato a scuola di batteria, ma emozionare non è un esame universitario. Ringo Starr è un grande non perché abbia studiato, ma perché ti fa capire con un colpo che lui con la batteria ha inventato qualcosa. Non è questione di tecnicismo, ma di volo. La musica ti deve trascinare in un’altra dimensione. Altrimenti non è musica. È un’altra cosa. Voi veniste scoperti e poi pubblicati in Inghilterra prima di ogni altro gruppo italiano. E accadde quasi per caso. Perché il nostro impresario, Franco Mamone, aveva consegnato a Greg Lake degli Emerson, Lake & Palmer una vecchia bobina registrata con un Grundig. Lake ci venne ad ascoltare al PalaEur nel dicembre del 1972 e l’esibizione gli piacque talmente tanto che salì sul palco e imbracciò il basso elettrico. Partimmo per Londra, firmammo per la Monticore e scoprimmo che la distribuzione della Atlantic ci avrebbe portato in tutto il mondo. Nel libro che accompagna il vostro cd celebrativo, Marconi-Bakery 1973-1974, ci sono foto, storie e volti, da Pete Sinfield a Peter Gabriel. Nel teatro della Manticore, i Genesis attaccavano a suonare subito dopo di noi. Con Peter ci eravamo incontrati per la prima volta a Pesaro ed eravamo rimasti amici. Era stato ospite a casa mia, in Italia e lo avevo accompagnato a comprare un flauto traverso in un grande negozio di strumenti musicali. Marconi-Bakery è come un film di carta. Pieno dei nostri incontri e delle storie di tutti quelli che hanno creduto in noi. Quanti talenti ha visto perdersi? Tutti quelli che non hanno saputo avere un vero e proprio mentore. Perdersi era facile. Mi presentarono Piero Ciampi, ad esempio. Un talento grandissimo, un incompreso. Ennio Melis cercava di imporlo, ma Ciampi avrebbe avuto bisogno di qualcuno che lo prendesse per mano. Era un neofita, uno talmente puro da apparire sempre fuori tempo e fuori contesto. Uno che era persino ovvio fosse abbrancato dai lupi. Ce ne sono tanti nella musica? Quando arrivano, li vedi. Io di solito sto con i lupi e non con i cacciatori. Ma se avessi incontrato quelli che assalivano Ciampi, a quei lupi, li avrei rincorsi con il forcone.