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 2016  ottobre 30 Domenica calendario

ANGELO GAJA

«Fare. Saper fare. Saper far fare. Far sapere. Me l’ha insegnato mia nonna francese quando avevo 11 anni; ci ho messo tutta la vita a impararlo — dice Angelo Gaja —. Noi italiani dovremmo ritrovare il gusto del pensare diverso e l’orgoglio del lavoro ben fatto. Anche del lavoro fatto con le mani. O con i piedi nel vigneto».
Nel cortile del produttore di vino più famoso e più discreto al mondo stanno arrivando le ultime uve della vendemmia. È arrivato pure Hernanes, il calciatore della Juve, con i suoi quattro figli, a chiedere suggerimenti per la vineria che aprirà a Torino. C’è una comitiva giapponese che ha prenotato la visita alla cantina da otto mesi. Gaja, è vero che lei fa pagare 250 euro a persona? «Non è vero. Si pagano 300 euro. Vanno tutti in beneficenza».

La nonna francese
«Clotilde Rey veniva dalla Valle della Maurenne, in Savoia. Aveva fatto il collegio a Chambéry. La sua famiglia commerciava ovini e caprini al mercato di Susa, dove mio nonno Angelo Gaja, di origini catalane, vendeva il vino. Si sposarono nel 1905. Nonna Clotilde era come Jorge del Nome della Rosa : non rideva mai. Fu lei a insegnarmi, in francese, la massima che ha guidato la mia vita: faire, savoir faire, savoir faire faire, faire savoir . Il lavoro. L’arte del lavoro. La capacità di trasmettere il senso di un progetto comune: tutti i miei collaboratori diventano anche loro artigiani; non ho stagionali, sono tutti fissi. Infine, il marketing. Qui ci ho messo più tempo».
«Ho fatto la scuola enologica, poi economia e commercio a Torino, ma mi sono laureato tardi. Più che all’università ho imparato nella vigna. Il nostro capo-uomo, Gino Cavallo, mi ha insegnato a zappare, concimare, innestare, dare il verderame. Per spronarmi mi diceva: “Se il pane avesse due dita di gambe, moriresti di fame”. Mio padre Giovanni mi ha insegnato a pensare diverso: ad esempio a produrre meno per alzare la qualità. Concetto un tempo impensabile: perché porre limiti alla natura e al Padreterno? Invece papà fu il primo a trasformare i mezzadri in salariati, in modo che non temessero pioggia e grandine, non affrettassero il raccolto, non imbottigliassero come barbaresco le annate inferiori».
«Il mio modo di pensare diverso è aprirmi alla scienza, senza perdere la tradizione. Ho uno staff con due entomologi, due botanici, un geologo e altri ricercatori: studiano come salvare i lombrichi che sono gli architetti della terra, trovare un equilibrio tra vecchie e nuove foglie, contrastare l’erosione. Ho piantato nelle vigne 270 cipressi che accoglieranno migliaia di piccoli uccelli». A cosa servono? «Non lo so. Mi piaceva l’idea». Non è che poi le beccano l’uva? «Vorrà dire che ce ne sarà anche per loro». Ma il suo vino non è troppo caro? «Nessuno è obbligato a berlo. Ci sono ottimi vini che costano molto meno».

La madre Langa
«Qui non ci sono aristocratici, come in Toscana. Siamo tutti contadini. Il mitico Bartolo Mascarello diceva che i vigneti sarebbero finiti tutti ai ricchi: si sbagliava. A Barbaresco ci sono 650 abitanti, 70 viticoltori, 35 produttori, più la cantina sociale, che lavora benissimo. Abbiamo un’antica cultura liberale, che ci viene da Cavour, che è stato anche l’inventore del barolo, e da Luigi Einaudi: l’idea che il denaro pubblico è più importante del tuo, che si può fare impresa senza aspettare lo Stato. Ogni mattina, all’uscita dalla messa, Einaudi si fermava a parlare in dialetto con i contadini, dava consigli sulle colture e sulla contabilità, ascoltava i loro sistemi; fino a quando donna Ida non lo trascinava via».
«Certo, siamo anche un po’ matti. Il mio insegnante di erboristeria all’enologica era Pinot Gallizio, l’inventore dell’Internazionale situazionista e della pittura a metro. Un giorno andò da Miroglio a chiedere soldi per dipingere l’autostrada Torino-Savona, e l’industriale gli fece dipingere le sue stoffe. Michele Ferrero si è inventato il cioccolato fatto con le nocciole e ha salvato la Langa dallo spopolamento, portando i contadini in fabbrica d’inverno e lasciandoli nei campi d’estate. All’hotel Savona veniva a giocare a biliardo Beppe Fenoglio: alto, magro, con i segni dell’acne e un gran naso; lavorava alla Marengo vini, teneva i rapporti con il mercato anglosassone, lui che aveva imparato l’inglese traducendo Shakespeare».
Oscar Farinetti?
«È stato il primo a cogliere nell’agroalimentare la simpatia che l’Italia riscuote nel mondo. Lo stimo, soprattutto ora che ha smesso di andare per talk-show a fare sempre l’elogio di Renzi». Carlin Petrini? «Un uomo straordinario. Ha anticipato la protezione della biodiversità e l’ha esportata in tutto il mondo, compresa l’Africa». Non è anche un furbacchione? «E le pare poco? Se è per questo, è anche un bravo oratore». Pure Briatore è di queste parti. «Per i miei gusti è un po’ troppo sopra le righe».

La patria italiana
«Mio bisnonno Giovanni Gaja fondò l’azienda nel 1859: l’anno della battaglia di San Martino, dove i piemontesi persero duemila uomini in un giorno. Io sono uno di quei fessi che quando sentono l’inno di Mameli gli vengono i brividi. L’Italia non ha le gomme sgonfie, ma si trascina dietro un fardello: il debito pubblico. Chi come me ha una responsabilità economica pagherebbe volentieri una patrimoniale, se servisse a dimezzarlo; ma chi ci garantisce che il giorno dopo la casta non ricomincerebbe a dissipare? Il Senato io l’avrei abolito».
«Al referendum voterò sì, rispettando chi non la pensa come me; anche se vedere Zagrebelsky con Brunetta mi fa una certa impressione». E i Cinque Stelle? «Fanno bene a insistere sui costi della politica; ma al loro interno hanno sia la destra sia la sinistra, e questo li rende inadatti a governare; come a Roma». Dicono di lei che legga tutti i quotidiani. «Ne compro nove ogni mattina: Corriere , Gazzetta, Repubblica , Stampa , Libero , Il Fatto , Il Foglio , Il Giornale , La Verità . La domenica anche Il Sole 24Ore ». Dove trova il tempo di leggerli? «Non ho la tv, non vado su Internet; viaggio con 24 ore di ritardo. E poi cerco soprattutto le mie firme preferite: Massimo Franco, Francesco Merlo, Vittorio Feltri, Marco Travaglio, Giuliano Ferrara, Giampaolo Pansa. Mi piace anche scovare firme meno conosciute: Michele Masneri è interessante, il vostro Marco Gasperetti è un bravo cronista».

L’America
Negli Usa Gaja vende più che in Italia. «Non sono portato per le lingue, avevo il complesso di parlare male l’inglese: sentivo come una sottomissione psicologica. Fino a quando non ho visto Benigni tenere una conferenza a New York, parlando con le mani, la faccia, i piedi, gli occhi; mi ha dato un coraggio straordinario. I miei figli invece parlano l’inglese come l’italiano: Gaia, Rossana e Giovanni, tutti e tre in azienda. Sono amico di Francis Ford Coppola, che ha aperto una bellissima cantina in Napa Valley; meno di Sylvester Stallone, che una sera a Manhattan per far colpo su una ragazza mandò indietro tre bottiglie del mio barbaresco, sostenendo che sapevano di tappo. Ma l’americano per eccellenza per me è Robert Mondavi: figlio di immigrati marchigiani, che durante il proibizionismo ebbero il permesso di fare il vino in casa, con le uve che arrivavano dalla California dopo 15 giorni di treno; lui ha studiato business administration a Stanford, è stato un grande manager e un grande contadino».

La madre Terra
«È impressionante quanto il clima sia cambiato. Ormai si vendemmia venti giorni prima. Ogni anno le gemme, i germogli, i fiori anticipano. Non mi ricordo un settembre e un ottobre più caldi di questo. Per il nebbiolo è un vantaggio; per le uve a maturazione precoce è un problema; per la terra è uno choc. Ma vedo tra i giovani un sentimento nuovo».
«I giovani sono migliori di come li pensiamo; le ragazze poi sono formidabili. Avvertono un dovere verso il pianeta. Anche l’agricoltura deve fare la sua parte: abbattendo i veleni, lottando contro i parassiti in modo integrato tra il biologico e il convenzionale. Non basta custodire; dobbiamo migliorare. Essere più attenti, più responsabili. Se ci riusciremo, noi italiani possiamo prenderci ancora moltissime soddisfazioni».