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 2016  ottobre 28 Venerdì calendario

EVITA– [COM’È INGOMBRANTE! ANCHE OGGI]


Per i contemporanei, Evita Perón “è” la donna bionda, magra, inseguita dalla morte che canta la straordinaria melodia di Andrew Lloyd Webber su testi di Tim Rice (la stessa accoppiata autrice di Jesus Christ Superstar). È una morente che implora «Don’t Cry for Me, Argentina», non piangere per me Argentina, «la verità è che non ti ho mai abbandonato/ nemmeno nei momenti più pazzi/ della mia folle esistenza....la celebrità e la ricchezza/ non le ho mai cercate/ anche se è sembrato che non desiderassi altro/ sono illusioni/ non le soluzioni che promettono di essere». Il musical Evita risale al 1975 e ha rinnovato, nell’immaginario collettivo della seconda metà del Novecento, un mito contemporaneo. Andrew Lloyd Webber ha regalato a Evita Perón un brano che risente esplicitamente della grande tradizione del melodramma, c’è un sapore pucciniano. E non potrebbe essere diversamente perché la breve esistenza di Maria Eva Duarte de Perón, nata a Los Toldos il 7 maggio 1919 e morta a Buenos Aires il 26 luglio 1952, è degna di un’eroina da grande palcoscenico. Evita è l’ultima di cinque figli, la sua famiglia è di origini modestissime, e per di più in una condizione di illegittimità, suo padre ha una famiglia “ufficiale”. Da bambina conosce l’abbandono paterno e la povertà della madre che tira su cinque figli mettendosi alla macchina da cucire e confezionando pantaloni. Da lì parte l’istintiva avversione per l’ingiustizia e l’emarginazione. Ma il palcoscenico, prima dello spettacolo e poi della politica, appare subito nel destino di Evita che a 16 anni debutta in teatro proprio come avviene nelle leggende, nella parte della cameriera per dire solo: «La signora è servita». Poi altri spettacoli teatrali, la radio, alcuni film, finalmente un po’ di tranquillità economica. L’incontro-chiave risale al 22 gennaio 1944 quando conosce l’allora sottosegretario al lavoro Juan Domingo Perón, già molto potente. Lui ha 49 anni, lei appena 25: un mese dopo convivono. Con Evita accanto, la carriera di Perón decolla: diventa vicepresidente dell’Argentina ma ha molti nemici, deve affrontare un internamento in un ospedale militare, di fatto da prigioniero. Qui nasce il popolo dei “descamisados”, degli “scamiciati”, che chiedono e ottengono, manifestando in piazza, la liberazione di Perón, l’unico uomo politico che in quel periodo avesse provveduto ad aumentare salari e a creare i tribunali del lavoro. Dopo la liberazione a furor di popolo, il 22 ottobre 1945 Perón sposa Evita.

Omaggio spagnolo. Lì comincia una storia irripetibile, d’amore e di politica. Il 24 febbraio 1946 Juan Domingo diventa presidente della Repubblica e fonda il Partito unico della rivoluzione, cioè il partito peronista. Evita si ritaglia un ruolo fondamentale, fa da intermediaria tra le richieste dei lavoratori e il marito, lo rappresenta in uno spettacolare viaggio in Europa: la Spagna proclama un giorno di festa nazionale per accoglierla, l’udienza con Pio XII è un clamoroso successo mediatico (papa Pacelli le regala un rosario che Evita avrà tra le mani quando morirà), il ritorno a Buenos Aires è un trionfo. È nata Evita “madre” della nuova Argentina. Eccolo, il palcoscenico che sognava da ragazza. Eccolo, il successo sperato mentre sua madre cuciva pantaloni per sbarcare il lunario. L’8 luglio 1948 nasce la Fondazione Eva Perón. Lo scopo è migliorare le condizioni dei bambini, degli anziani, delle ragazze madri: si occupa di ospedali, scuole, case popolari, mense.
Ma la tragedia (lo abbiamo detto: siamo un vero melodramma) è in agguato. Evita sviene in pubblico il 9 gennaio 1950, la diagnosi infausta è di cancro all’utero, ma la politica ha i suoi tempi e lei va avanti. Sfiora la nomina (a furor di “descamisados”) a vicepresidente dell’Argentina nell’agosto 1951 ma rinuncia, i militari e i conservatori appaiono preoccupati. Dopo un’estenuante sofferenza fisica (alla fine pesa 37 chili e solo gli antidolorifici le permettono di affrontare l’ultima apparizione in pubblico il 7 maggio 1952) Evita muore il 26 luglio di quell’anno. Solo 33 anni ma una vita densissima, clamorosa, indelebile nel cuore dell’Argentina ancora oggi. Ecco perché Evita è diventata la star del grande musical, Elain Page le regala a Londra un’indimenticata interpretazione grazie a una eccellente voce da mezzosoprano, corposa e avvolgente. Ed ecco perché Madonna non ha saputo resistere nel 1996 alla tentazione di farne un film con Alan Parker (e Antonio Banderas nel ruolo di Che Guevara), incassando 140 milioni di dollari ma non convincendo larga parte della critica e dello stesso pubblico: “troppa” Madonna in quella Evita. Nel 1981 Faye Dunaway aveva già sostenuto quel ruolo in una miniserie televisiva in onda su Nbc (e tre anni dopo su Rete 4): meno enfasi rispetto a Madonna, impressionante la somiglianza fisica con la vera Evita. Ma la versione più credibile, storicamente attenta anche alle ricostruzioni d’ambiente è certo quella girata proprio nel 1996 dal regista argentino Juan Carlos Desanzo con Evita affidata alla magrezza e alla duttilità della diva argentina Esther Goris. In alcune sequenze, la gestualità dell’attrice non propone più una semplice interpretazione ma, riguardando i filmati d’epoca, appare come un’autentica clonazione. L’essere argentini, non è un dettaglio.

L’ultimo viaggio. Evita muore, come abbiamo visto, nel 1952 ma nemmeno da morta abbandona il palcoscenico. Il suo corpo mummificato viene esposto alla Segreteria del Lavoro. Poi la bara viene trasportata alla Confederazione generale del Lavoro, dove rimane per anni. Nel settembre 1955 scoppia la “Revolución libertadora” e Perón viene deposto. Quella bara diventa ingombrante, i militari protagonisti del golpe temono che possa diventare un oggetto di culto peronista. Nel 1957 (riecco il melodramma) la bara viene spedita in Italia e seppellita nel cimitero Maggiore di Milano sotto il falso nome di Maria Maggi de Magistris. La salma torna in patria solo nel 1974, l’anno della morte di Perón, tornato alla presidenza e morto alla Casa Rosada. Un clamoroso, tristissimo finale. Come in un melodramma che si rispetti.