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 2016  ottobre 28 Venerdì calendario

SCHWASER– [SONO STATO FATTO A PEZZI DAI POTERI FORTI DEL DOPING. VI SPIEGO PERCHÉ]– E se un giorno gli verrà voglia di marciare? «Io non glielo vieterò mai

SCHWASER– [SONO STATO FATTO A PEZZI DAI POTERI FORTI DEL DOPING. VI SPIEGO PERCHÉ]– E se un giorno gli verrà voglia di marciare? «Io non glielo vieterò mai. Che cosa potrei dirgli, del resto?».
 Magari, raccontargli che cos’è capitato a papà... 
«Ma è presto per pensarci! Deve ancora nascere, camminare, parlare! Chissà poi se gl’interesserà. Sarò contento se lui sarà contento di quel che farà. E starò attento, questo sì, che non gli succedano le cose che sono successe a me. I miei genitori non sapevano niente di quanto può essere disgustoso il mondo dello sport. Io so tutto». Alex Schwazer sta preparando la stanza del figlio che nascerà a marzo. Una cosa molto più semplice che arredare la sua terza vita: da campione a dopato, da ex dopato a ex atleta. «Ieri a Innsbruck abbiamo fatto l’esame dal ginecologo, le cose vanno bene. E intanto faccio molte cose, ma sì, le giornate sono abbastanza piene e la sera arrivo stanco. Di sport, il minimo: piccoli carichi quotidiani, non è che possa fermarmi di colpo. La mia salvezza sono Kathrin e la paternità: tutti i miei problemi, la mia rabbia passano in secondo piano. Devo darmi da fare, non posso cadere nella tristezza più totale». I riflettori si sono spenti. Due mesi dopo
la batosta, come ci si ricostruisce? 
«Bella domanda. Stando con la mia ragazza. Col mio bambino. Nel 2012 era più facile. Avevo sbagliato io, ma in fondo avevo
28 anni e la squalifica era di quattro, non
di otto. Allora ero vuoto, avevo una de-
pressione profonda, comunque ritrovavo
la forza di fare le piccole cose più norma-
li, vedi la spesa, di guardare tutto in modo
più equilibrato. Poi, siccome un atleta è
un combattente, m’ero messo a combatte-
re: m’allenavo quando tutti dicevano no, che fai, sei pazzo, non hai certezze d’andare all’ Olimpiade di Rio. Io ci speravo. Credevo che bastasse fare le cose per bene, che m’avrebbero riaccettato. Invece no: stavolta so che non sarò mai più un atleta...». Gli abeti rossi dell’autunno in Val Ridanna aiutano a cancellare gli umori neri, ma in certi momenti gli occhi di Alex fissano un punto e fra questi monti è come stare nella Promessa di Dürrenmatt e col suo protagonista, il commissario Matthäi, pensionato dopo un fallimento, seduto lungo una strada dell’Engadina ad aspettare paziente l’assassino che gli ha rovinato la vita. E che forse non passerà mai: «Io voglio che sia stabilita giustizia, anche se ho smesso di marciare. Certo, devo stare attento a non farne un’ossessione, lo scopo della mia nuova esistenza. Altrimenti lo so, io muoio, muoio...». Riassunto delle puntate precedenti. La morte sportiva del marciatore Schwazer ha la data del 10 agosto 2016. Scontata la prima squalifica e vinti i Mondiali di Roma, lui andò a sue spese a Rio. E loro, i signori dell’atletica mondiale, lo ripagarono radiandolo. Colpa d’un controllo antidoping del 1° gennaio, ore 7 del mattino, e di risultati comunicati quasi sei mesi più tardi. Con quella foto di Alex impietrito, seduto da solo in un bar, che fece il giro del mondo mentre a lui, il mondo, crollava addosso. Sempre convinto che sia stato un complotto? «Ancora di più. Questa storia è stata una vergogna. La Procura di Bolzano ha sequestrato le urine. Si farà un’analisi del Dna e non solo, per vedere se ci sono i segni d’una manomissione. Se ci sono dentro cose non mie. Urine mischiate». Quali cose non tornano? «Un bel po’. Vuoi che ne citi qualcuna? Primo: il test su di me che viene ordinato con insolito e largo anticipo, il 16 dicembre, guarda caso il giorno in cui denuncio i medici federali. Secondo: il test che va bene, l’unico valore un po’ sballato ma non irregolare che deriva dall’alcol, una cosa ovvia all’alba del Capodanno. Terzo: in vent’anni non s’è mai visto un test positivo a Natale o il 1° gennaio e infatti gli ispettori, essendo i laboratori chiusi, finiscono per tenersi le provette 24 ore, lasciandole incustodite e alla mercé di chiunque, perfino in macchina. Quarto: l’urina che viene consegnata violando ogni regola d’anonimato, tanto che io sono assolutamente identificabile perché sull’etichetta scrivono “Racines”, questo paesino di 4 mila abitanti dove tutti sanno che abito. Quinto: dalle analisi non risulta nulla, ma misteriosamente viene chiesta la ripetizione poche ore prima della distruzione delle provette e, toh, salta fuori che io sono positivo. Sesto: per le mie controanalisi fingono che si debba aspettare fino a un venerdì di luglio, col weekend in mezzo, quando il lunedì successivo stanno per chiudersi le iscrizioni a Rio... Devo continuare? Io vorrei capire perché, se faccio un controllo antidoping, prima della pipì mi devo perfino lavare le mani. E se rifiuto, mi squalificano. Questi invece fanno quel che vogliono. A lasciarmi senza parole, però, è la quantità di menzogne. E che il procedimento sportivo per i medici che ho denunciato sia già stato archiviato. Non hanno aspettato neanche il penale!... Un medico della Iaaf, la federazione internazionale, in un’intercettazione dice “questo crucco ha da morì...”: quando io l’ho accusato, lui è stato addirittura messo a capo dei controlli sulla mia gara di rientro. Gli hanno trovato pure un bel database d’atleti russi, cinesi, turchi... Un altro dottore non è mai stato sospeso e un atleta che aveva valori ematici molto alti, e rischiava di saltare Rio, l’ha pubblicamente ringraziato... Capito come funziona?». Un complotto prevede più complici. «Io penso a due possibilità. O la Iaaf, che anche dalle registrazioni telefoniche risulta preoccupata per quello che sta uscendo. Oppure i russi, che a parte il mio oro di Pechino vincevano sempre tutto per anni ed erano pieni di “roba”. Io li ho accusati dopo il 2012, loro sono stati squalificati nel 2014. Trenta dopati in dieci anni, tutti beccati. Il loro allenatore, i loro dirigenti, tutti puniti a vita». La denuncia d’un ex dopato, però, non risulta molto credibile...
 «Chiaro. La mia storia è facile: avevo già provato con questa sostanza dopante, ed è l’unica credibile che loro mi possono mettere nella provetta. Quel che s’è scoperto sull’ Olimpiade di Sochi ha aperto gli occhi: è facile aprire una boccetta e manipolare. In più, qui si voleva colpire il mio nuovo allenatore Sandro Donati, uno che trent’anni fa aveva già denunciato tutto. Per fermare me, bastava squalificarmi in gara ai Mondiali di Roma. Invece dovevano colpire la storia di Donati, punirlo per le sue parole contro il sistema». Ma se è vero che ve l’han fatta pagare, non era meglio aspettare a parlare? E togliersi i sassolini dopo aver vinto a Rio? 
«A dicembre, io ero obbligato a deporre. Non potevo oppormi alla magistratura. E comunque non ho mai calcolato le conseguenze di quella denuncia: per me era l’ultima possibilità di rientrare come volevo io, mi sentivo a posto solo passando per quelle dichiarazioni. Avevo accettato i controlli 24h, perché volevo essere trasparente nel mio programma antidoping. Da ignorante, pensavo che l’atleta collaborante sarebbe stato rispettato un po’ di più, non criticato e accusato di fare solo un’operazione di marketing. Quel che pesa in questo ambiente non è il doping: è la corruzione che lo copre». Quanti amici dell’atletica ti sono rimasti? «Nessuno. È impossibile la solidarietà, c’è molta invidia e omertà. Tu sosterresti le istituzioni sportive o un atleta con la carriera finita? Non è un mondo che mi manca. I colleghi sono contenti di quel che m’è successo, possono dire che vincevo perché ero dopato, anche se non è vero: a Pechino ho preso l’oro con un valore dell’ematocrito, 37, che non s’è mai visto nella storia di questo sport. C’è qualcuno che parla ancora bene di me Josefa Idem, Antonio Rossi, Isolde Kostner... -, però sono persone ormai fuori dalle competizioni. L’unica eccezione è Tania Cagnotto». E il Coni? «Zero. Il presidente della Federazione atletica è sparito da luglio, ancor prima che si facesse la controanalisi. Quand’ero a Rio ad aspettare il verdetto, non m’aveva dato nemmeno la divisa e l’accredito. Malagò l’ho incontrato una volta, tanto tempo fa. Ed è ovvio: se uno deve candidarsi all’ Olimpiade di Roma, è impossibile aspettarsi che si metta contro le istituzioni mondiali dello sport». C’era anche stata la protesta degli atleti italiani per la tua presenza a Rio... «Quella è stata una manovra. Prendi Tamberi, il saltatore in alto. È facile influenzare un ragazzo di 23 anni che non ha ancora un suo completo equilibrio. Io alla sua età avevo vinto le Olimpiadi, mai mi sarei permesso d’accusare una persona che comunque ha dato tanto, più grande di me, che non ho mai conosciuto. Quando avevo la sua età dividevo la camera con atleti anziani come Vizzoni, il martellista, e sapevo portare rispetto. Tamberi, non l’ho mai visto né sentito in vita mia. Ma ormai va così: si spara a zero su Facebook, poi magari si cancella...». Che cosa spinse uno con un talento come il tuo, nel 2012, a buttarsi via? 
«Io ero stufo che i russi facessero quel che volevano: loro col doping esageravano proprio. Chi non lo faceva, non vinceva più. È gente a cui interessa svoltare, passare dalla vita di merda che fa ad avere dei privilegi. A tanti di loro non gliene frega niente d’essere scoperti e di rinunciare alla medaglia: basta aver preso i soldi, che peraltro non daranno mai indietro. Ad alto livello, è dura non essere tentati dalle scorciatoie: esistono l’anoressia, la magrezza, il doping tecnologico, gli integratori, gli antidolorifici... Hai mai visto tutte le esenzioni terapeutiche che hanno gli atleti? Ma non è normale! Io non ne ho mai avuta una in tutta la mia carriera! Quando uno è malato, non gareggia. Tanto meno ad alto livello. C’è chi prende 20-30 pasticche di medicinali in un giorno. E tanto per essere chiari: uno che ha l’asma per davvero, non vince l’oro olimpico nel ciclismo. L’atleta è invitato a cercare il limite in ogni cosa. Anch’io avevo un allenatore che prima dello scandalo del 2012 mi diceva: Alex, riempiti come un drago...». Come fai a mantenerti? «Alle Olimpiadi ero sicuro d’andare bene, ci contavo. Però ai soldi non ho mai pensato: ho uno stile di vita tranquillo, non ho vizi, me ne frego della macchina che guido. Ho la fortuna che gli avvocati, gli psicologi, la mia manager Giulia Mancini al mio fianco fin dal 2008, m’aiutino tutti gratis. Ho sostenuto i costi vivi, stare a Rio è stato un sacrificio. Ho fatto il barman a Innsbruck, frequentato una specie di Isef a Salisburgo, l’università d’economia non l’ho finita... È inutile, a scuola ho sempre faticato. L’opposto di mio fratello, bravissimo, che fa il dottorato di latino a Londra. A me piace lo sport: camminavo appena e mio padre m’aveva già messo sugli sci, a 5 anni giocavo a hockey, poi calcio, atletica, ciclismo...Che so, vorrei anche scrivere un libro: ci provo da tre anni, per raccontare la mia vita, il complotto, i medici, i russi, fare tutti i nomi. Però intanto ho bisogno di guadagnare qualche soldo per la mia famiglia. Sto lavorando a un sito che parte fra qualche settimana. Il mio progetto è d’allenare un po’ d’amatori, gente che non ha grandi supporti e vuole raggiungere un personale, piccolo traguardo. I dilettanti hanno poche possibilità d’allenarsi bene, cosa che non vuol dire massacrarsi: vuol dire imparare i giusti carichi. Un professionista va a letto alle nove, dorme dieci ore, non ha pensieri. Invece c’è gente che lavora dieci ore in ufficio, ha tre figli a casa e poi si spara 200 km in bici. Uno stress. Una cosa che distrugge. Nessuno poi pensa ai disabili: vorrei fare qualcosa per la riabilitazione motoria di persone che non hanno mai fatto sport». E Carolina Kostner? «Sono passati due anni, perché me lo chiedete ancora? Non ho più contatti con lei. A me spiace che sia stata squalificata per colpa mia. È l’unica cosa che mi rimprovero: io sono sempre stato molto buono e le sono stato vicino, anche in momenti per lei difficilissimi, quando pochi lo facevano. Lei, questo, non l’ha sempre fatto». Col senno di poi: ammettere una colpa e piangere in pubblico, paga?
 «Se uno ha il pelo sullo stomaco, non lo fa. Ammettere, non paga mai. E in Italia, se d’una cosa non parli, finisce là. Alla famosa conferenza stampa in lacrime, arrivai che non ce la facevo più: avevo bisogno di svuotarmi, non ho ragionato sulle conseguenze. Ripensandoci, non so se la rifarei. Perché poi sei solo un dopato, per tutti, e tutti te le danno di santa ragione». Si dice che nella vita c’è sempre una seconda possibilità. Tu sei già alla terza... 
«Sarei anche al terzo oro olimpico, se me l’avessero consentito. Io negli ultimi anni non potevo più frequentare stadi, piste, m’allenavo per strada, correvo tra gli anziani e i cani a passeggio, mi cambiavo in macchina. La gente mi vedeva sotto l’acqua, nel caldo torrido, nella neve. Ma lo facevo. Non era più come prima del 2012, quando avevo la nausea di tutto, andavo al bar a prendere un caffè e invidiavo il barista perché pensavo non avesse la mia vita dura d’allenamenti: stavolta, lo facevo perché ero consapevole dell’obbiettivo». Ne valeva la pena? «Mi hanno tolto ogni ottimismo possibile. Ho fatto le cose per bene e sono stato punito. Ho io una domanda da farti, allora: era meglio sbagliare?». Francesco Battistini