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 2016  settembre 30 Venerdì calendario

RESTA IL NODO ARABIA-IRAN

Troppo poco, troppo tardi. Ed anche troppo confusa.
Al di là del balzo del prezzo del barile, scattato mercoledì, e proseguito ieri, l’intesa annunciata mercoledì dall’Opec – un vago taglio produttivo da finalizzare a fine novembre - non convince gli analisti. Soprattutto chi, forte di valide ragioni, è portato ad osservare le mosse dell’Opec con la lente dello scetticismo.
In questa intesa preliminare tutta da definire i problemi no tanti. Innanzitutto occorre prendere atto che l’Opec non è più un’organizzazione esclusivamente economica, come insistono i ministri del Petrolio dei suoi Paesi membri. Da alcuni anni la geopolitica sta dettando l’agenda di alcuni dei suoi più importanti Paesi. Le rivalità tra sauditi ed iraniani, da tre anni coinvolti in Siria in una guerra per procura e ai ferri corti su altri dossier, sono ancora irrisolte.
L’Opec ha poi perso quote di mercato. Non è più la banca mondiale del greggio. Tant’è che quattro dei primi cinque produttori mondiali non ne fanno parte. Il commento rilasciato dal ministro russo dell’Energia, Alexandre Novak, la dice lunga sulla reale volontà della Russia di adeguarsi alle politiche dell’Opec. Dopo aver definito l’accordo «una decisione molto positiva» Novak ha precisato che la Russia cercherà di «mantenere il livello di produzione ai livelli attuali». Non potrebbe fare altrimenti. In questo mese la sua produzione è arrivata a 11,1 milioni di barili al giorno (mbg). Un picco produttivo che non si vedeva dal 1987, ai tempi dell’Urss. Anche se volesse di più non riuscirebbe ad estrarre nel medio termine.
Altro punto dolente. La disciplina nell’adeguarsi ai tetti produttivi concordati non è certo il punto di forza dei membri dell’Opec. I precedenti sono davvero numerosi. Se si studiano i dettagli dell’intesa le perplessità superano le speranze. L’accordo prevede che i paesi membri taglino dai 300mila ai 700mila barili al giorno (bg) - rispetto ai livelli di agosto - per riequilibrare il mercato e cercare di dare slancio ai prezzi, da tempo ingabbiati tra i 40 e i 50 dollari al barile. Tagliare di 300mila bg equivarrebbe a non ottenere quasi nulla. L’eccesso di offerta è ancora stimato tra 700mila bg e il milione di barili. Se non di più. Arrivare a 700mila bg, nel migliore dei casi, avrebbe un qualche impatto. Ma si torna allo stesso punto: chi sarà disposto a stringere i rubinetti?
Altro problema. Il fattore tempo gioca a sfavore dell’Opec. Se anche l’intesa venisse ratificata al vertice di fine novembre, il taglio entrerebbe in vigore solo all’inizio del 2017. E in questi due mesi è plausibile che chi può farlo produca il più possibile.
Non solo. Se il punto di riferimento è agosto, emergono altri problemi. Agosto è il mese in cui la produzione della Libia è sprofondata a 200mila bg. Da quando il generale Haftar ha ripreso il controllo dei maggiori terminal della Cirenaica, la produzione è risalita a 450mila bg. Sull’onda dell’entusiasmo la compagnia petrolifera di Stato punta ora a estrarre 950mila bg entro fine anno. Se ce la facesse vanificherebbe l’accordo. A ciò occorre aggiungere che la Nigeria e l’Iran, a cui l’Opec vuole applicare delle non meglio precisate condizioni speciali – sono più che decise a raggiungere i livelli produttivi di un tempo. Ciò significa altro greggio sui mercati. Infine i delicati rapporti tra Arabia e Iran. Strozzata da anni di sanzioni, Teheran vuole a tornare ad almeno 4 mbg prima di unirsi a un taglio produttivo. Riad, la cui produzione si aggira sui 10,7 mbg, chiede che Teheran si fermi a 3,7. Solo allora sarebbe disponibile a portare la sua produzione a 10,2 mbg.
Come se non bastasse, in questo già caotico scenario è entrato un terzo incomodo: l’Iraq. Negli ultimi anni la produzione petrolifera irachena ha registrato una crescita impressionante arrivando fino a 4,7 mbg. Baghdad è ora il secondo produttore del Cartello. Ma ha un disperato bisogno di entrate petrolifere per finanziare la guerra contro l’Isis. Questa volta il ministro del petrolio iracheno, Jabar Ali al-Luabi, ha fatto sentire la sua voce. Obiettando che il nuovo tetto produttivo non è corretto perché l’Opec ha sottostimato la produzione irachena.
Dello shale oil si è già parlato molto. La guerra dichiarata dall’Opec per far crollare la produzione nordamericana è stata persa. È vero. I suoi costi di estrazione sono più alti. Ma se il prezzo del barile dovesse tornare sui 60 dollari è prevedibile che arriverà molto altro greggio “non convenzionale” dagli Usa. Insomma di ragioni per essere scettici ce ne sono molte.