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 2016  settembre 30 Venerdì calendario

DA UMBERTO II A RENZI-BERSANI: SE LA POLITICA NON SA PERDERE


Massimo D’Alema che soffia sul fuoco del no, mentre si attende l’endorsement referendario di Romano Prodi, nei giorni in cui Silvio Berlusconi riprende a tessere la tela per la nuova Forza Italia, intanto che Umberto Bossi lancia i suoi strali contro Matteo Salvini, tra una conferma e una smentita per Di Pietro assessore a Roma.
I nomi e cognomi contenuti in questo incipit, protagonisti della cronaca settembrina 2016 eppure inossidabilmente sulla piazza da almeno venticinque anni, spiegano da soli il senso di Bisogna saper perdere, libro di Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra (Bollati Boringhieri, pp. 162, euro 12) che attraversa settant’anni di politica con l’obiettivo di raccontare l’italianissima incapacità degli sconfitti di lasciare la scena. Il volumetto è agile e poco o nulla pecca in astrazioni interpretative; al contrario lascia che a parlare siano i fatti, a loro volta narrati con il piglio di un giornalismo letterario che non dimentica di appoggiarsi ai documenti storici. Soprattutto, coglie uno dei nodi di fondo dell’anomalia italiana, dove l’anomalia è appunto la parola sconfitta: impronunciabile, procastinata, rimossa.
Diviso per capitoli, uno per ognuno dei climax della nostra democrazia, il viaggio ci porta nelle stanze dove l’idea stessa della sconfitta viene sistematicamente privata del suo tratto definitivo, oppure anestetizzata nel vittimismo piagnone, o infine dissimulata dietro l’ambiguità di altre parole-alibi quali congiura o tradimento. Quando si perde, insomma, c’è sempre qualcuno o qualcosa d’altro da additare, che siano i brogli per il Re detronizzato dal referendum del 1946 o i comunisti per il Nenni del 1948; oppure, nella seconda Repubblica, le toghe rosse per Berlusconi, i dalemiani per Prodi e gli ulivisti per i dalemiani. E non un caso che il cerchio si chiuda con la sfavillante neolingua bersaniana della non-vittoria dopo le elezioni nel 2013.
È una storia che ci rende un unicuum nell’Occidente, nella quale le sconfitte sono manipolate piuttosto che elaborate e dove nella migliore delle ipotesi c’è piantato il seme del ritorno, della rivincita o della resurrezione. Un filo rosso che spiega bene come l’Italia sia il Paese dei Rieccoli, celebre nomignolo affibbiato a suo tempo al professore Amintore Fanfani.
Non tutti, certo. Qualche primo attore ha saputo defilarsi meglio di altri. Eppure le poche eccezioni – da De Gasperi a Veltroni – confermano la regola di una politica iper-machiavellica, nella quale perdere o vincere è indifferente perché permenentemente provvisorio. Anche a costo di trasformare in una filastrocca di intrighi quella che invece è la fisiologia della lotta per il potere, che non conosce amicizia e quindi non prevede il tradimento. Tra aneddoti e dietro le quinte, Bisogna saper perdere è anche la storia di alleanze finite in vendette, parricidi più o meno simbolici, débâcle inattese oppure sottilmente desiderate, come quella del Fronte che nel ’48 consegnò a Togliatti l’egemonia della sinistra. Ma è soprattutto la fotografia di classi dirigenti che hanno inquinato il gioco con dosi da cavallo di vittimismo, quello che a urne chiuse diventa, inevitabilmente, «gli elettori non hanno capito». Nei settantant’anni della nostra democrazia, allora, la sindrome del complotto si sposa con quella dell’«incompreso», anche perché gli incompresi di oggi, dopotutto, potranno sempre tornare ad essere compresi domani. Ma se «saper perdere conta più di saper vincere», come dicono gli autori, allora questo viaggio nei corsi e ricorsi della storia patria disegna un’Italia disinvolta e furbetta, che demonizza il «correntismo» ma poi ne fa il suo paracadute sempre aperto. Per restare disuniti su tutto, meno che sulla fuga dalle responsabilità.