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 2016  settembre 30 Venerdì calendario

IL CALCIATORE PERFETTO


Che cosa sia Claudio Marchisio per il calcio italiano lo dice il labiale di Gianluigi Buffon il giorno dell’infortunio. «Porca puttana», dice. Poi serra la bocca, scuote la testa come fanno tutti quando c’è qualcosa che non va. Crociato anteriore sinistro rotto, con quell’immagine che è l’ossessione di ogni calciatore: il ginocchio che ruota strano, il dolore immediato come se s’incendiasse tutto, e la sensazione di non sentirlo più tuo, quel ginocchio. Il braccio alzato che chiede aiuto è un gesto automatico e condiviso. Le urla anche. L’altra mano sul volto pure. A Buffon non è servito altro per capire e ancora meno per sfogarsi. Perché se sei il capitano della Juventus e della Nazionale alla fine di un campionato che ti porta lo scudetto consecutivo numero cinque e alla vigilia di un Europeo in cui tutti ti dicono che rischi la figura peggiore della storia del calcio italiano, l’infortunio di Marchisio non è solo una questione di amicizia, né solo di dispiacere umano per il dolore di un collega.
È una maledizione. Perché Marchisio è il centrocampista perfetto, che spesso significa il calciatore perfetto. Non è una questione di estetica, ma di funzionalità. Ha anticipato l’era dei calciatori multiruolo: è una mezzala, che qualcuno chiama interno, qualcun altro incursore. Però ha giocato ovunque. Ha fatto il trequartista e negli anni di alcune improvvisazioni tattiche della Juventus pre-Conte l’avevano addirittura messo a fare l’esterno, l’ala insomma. L’anno scorso, invece, s’è costruito come regista post-Pirlo. Già è complesso che una mezzala si trasformi in centrale puro: una questione di tempi di gioco, di ritmi, persino di tipo di corsa. Se devi sostituire il miglior regista della storia del calcio italiano quantomeno degli ultimi 30 anni la difficoltà aumenta. All’inizio della preparazione, Marchisio avrebbe dovuto essere il sostituito momentaneo, invece era diventato il regista titolare. Perché la duttilità è prima un atteggiamento mentale che una capacità tecnica. Marchisio è semplicemente moderno. Adesso che corre con gli altri compagni in allenamento significa che il suo rientro si sta avvicinando. I più pessimisti avevano previsto un recupero per dicembre. Oggi le previsioni parlano di un ritorno in campo entro la fine di ottobre. Quel giorno sarà come una finestra di calciomercato individuale. Perché Marchisio che torna è probabilmente il più importante acquisto della Juventus 2016-2017, così come è il più importante acquisto dell’intero calcio italiano.
In un’era in cui è sembrato che l’Italia non fosse in grado di produrre talenti di livello internazionale, abbiamo trovato lui, esploso calcisticamente nel post Calciopoli, quindi anche nel post Mondiale 2006. Ha sempre detto: «Calciopoli è stato il mio colpo di fortuna». Non era un giudizio morale, ma tecnico. Perché senza il mezzo smantellamento della squadra dopo la retrocessione in Serie B, lui verosimilmente non avrebbe trovato spazio. Classico scenario: un giovane della Primavera, sia pure bravo, non ha possibilità di essere lanciato in A in una squadra che voglia vincere scudetto e Champions. Venticinque presenze in B a 20 anni, poi l’anno dopo a Empoli in A. Ma che cosa è valso di più? L’esperienza in provincia in A, o quella alla Juventus in B? Forse la verità è quella successiva: nella Juventus post B, quella che faticava con Ferrara, Zaccheroni e Delneri lui rappresentava un gioiello tecnico e una certezza emotiva. L’essere di Torino, l’essere cresciuto nella Juventus e avere la possibilità di giocare titolare nella sua squadra è diventato il corollario di una storia che, in realtà, è una grande storia di campo. Cioè di gioco. Un calciatore forte, un calciatore utile, un calciatore pronto. Ecco dove sta la modernità di Marchisio: nell’essere un talento che serve a tutti, perché è gamba, è tocco, è intelligenza, è la ricerca dello spazio, quindi di un luogo in cui concretizza meglio una giocata, che nell’equazione starebbe – e sta – alla voce “tempo”. Perché qui c’è la chiave di tutto: Marchisio è fondamentale perché ha i giusti tempi di gioco, quelli dell’inserimento, quelli del contenimento, anche quelli del passaggio di prima di due metri.
Si ritorna alla smorfia di Buffon il giorno dell’infortunio di aprile scorso. Cinque mesi senza Marchisio sono stati un sacrificio collettivo. Perché non abbiamo trovato un altro così. Per trasversalità qualche analogia c’è in Florenzi della Roma. Anche lui può fare più ruoli, però ormai ha ridotto le opzioni alle due possibilità da esterno. Marchisio sta quindici metri più in mezzo, almeno. Oppure trenta, dipende appunto dal ruolo e dal momento. Sta dentro, quindi. Ovvero dove si decide il gioco, dove si sviluppa la partita, dove si decide tutto. Un altro italiano così non c’è. E per questo è come se il countdown per il suo rientro sia cominciato nell’esatto momento in cui l’hanno portato via in barella. Applausi, «dai Claudio», spinte morali e qualche imprecazioni al destino. Lo aspettava la Juve, lo aspettava l’Italia. Perché con lui c’è qualcosa in più: c’è una soluzione che altrimenti non esiste. È l’eccezionalità della normalità, Marchisio. Essenziale, sobrio, pulito. Diverso. Se resti sul campo e resti sul concetto di multiruolo, lui non è soltanto in grado di giocare in più posizioni a ogni partita, ma anche in più posizioni nella stessa partita. Lo sposti dove c’è bisogno, dove ti spinge la soluzione di gioco e la sua evoluzione durante il match. In qualunque ruolo giochi è un casello attraverso il quale passano le direttrici della partita. Non è un caso che la definitiva esplosione sia stata con Antonio Conte: l’allenatore aveva dato un gioco, una struttura, un’idea alla Juventus e quel gioco, quella struttura, quell’idea passavano attraverso i piedi e la testa di Marchisio. Gli inserimenti erano la chiave. Perché Marchisio gioca con la palla e gioca soprattutto senza palla. Ed è questo che lo rende speciale. Ed è questo che lo rende importante per gli allenatori. Conte, appunto. E poi Allegri. E di nuovo Conte in Nazionale, se non si fosse infortunato. Così sarà con Ventura, a cui nelle prime uscite è mancato esattamente un giocatore così. E poi segna: da quando è tornato alla Juve in A ha fatto 8 stagioni consecutive con almeno tre gol. L’anno del record è stato il primo con Conte: 10 gol tra campionato e Coppa Italia. Poi otto nel 2012-2013, quattro nel 2013-2014, tre nel 2014-2015. L’unica stagione in cui non ha segnato è stata quella scorsa, dove ha giocato 25 metri più indietro delle precedenti e dove poi s’è infortunato. I gol non sono mai un dettaglio, soprattutto quando li segnano i centrocampisti. I suoi, quelli di Marchisio, hanno un valore particolare. Per bellezza e perché spesso, molto spesso, li ha segnati nelle partite fondamentali: la doppietta del 2011 contro il Milan che la Juventus batterà nella corsa per lo scudetto di quella stagione, il 2-1 contro l’Inter di quello stesso periodo, l’1-0 nel derby contro il Torino nel 2012. Le sfide col Toro sono per lui una questione particolare. Lo sono perché la juventinità e la torinesità restano due valori fondamentali del suo percorso. E sono anche ciò che rende Marchisio rispettato anche da chi odia la sua squadra.
Pulcini, esordienti, giovanissimi, allievi, Primavera, prima squadra. Sempre a casa e sempre con la stessa maglia. Ora, anche a non amare il concetto di bandiera e a non dare troppo peso all’emotività, si fa fatica a rimanere distaccati. Poi c’è quella storia di Juventus Channel – ora diventata Jtv – e di YouTube che hanno reso simbolico un gol del 31 maggio 1998: Juventus-Inter, lui prende la palla nella sua metà campo, salta due avversari, corre, corre, corre, scambia con un compagno, uno-due, altra corsa, altro dribbling, tiro dal limite dell’area. Sinistro. Gol. Aveva dodici anni. Se qualcuno vuole la storia del talento nato e cresciuto con l’identità, ecco Marchisio. Come Xavi, Iniesta, Fabregas, Messi, Puyol per il Barcellona; come Gerrard per il Liverpool; come Totti e De Rossi per la Roma. Come Maldini per il Milan. Alla Juventus è una cosa rara. In parte è valso per Del Piero, che però ha cominciato dalla Primavera. La carriera Marchisio è diversa: parte da Chieri, cintura torinese, dove c’erano gli uffici della Ferrero e poco più in là si riusciva a vedere la grande fabbrica di Mirafiori. Poi un po’ più in giù, lo stadio Comunale, non ancora Olimpico. Torino, Fiat, Juventus, calcio. Ha fatto in tempo a essere uno della generazione di Vinovo, la nuova cittadella bianconera dove si allenano tutte le giovanili e la prima squadra. Ha giocato – e segnato – nella prima partita di campionato mai giocata dalla Juve nel suo Stadium, ha firmato l’anno scorso un contratto che lo lega a vita con il suo club. Resta una appendice, un contorno, un accessorio della sostanza vera, cioè del suo modo di giocare, però c’è anche questo.
Ha trovato una maniera sua di vivere questa dimensione, esattamente come ha fatto con la dimensione puramente calcistica. In questi anni hanno cercato molti paragoni. Quelli più frequenti sono stati Tardelli e Gerrard. Lui non si riconosce, quantomeno non completamente. E infatti ne condivide il ruolo principale, ma non il modo di interpretarlo. Il soprannome che si porta dietro da anni è Principino e dipende dal suo aspetto gentile, dal modo di vestire e però anche dal suo modo leggero di giocare. Eppure quando una volta gli hanno chiesto di autodefinirsi ha detto: «Mi sento metà principe e metà fabbro». Un giudizio più articolato, ma simile fu quello con cui il Times nel 2009 lo fece entrare al decimo posto tra i talenti emergenti del calcio europeo. Pavel Nedvěd, qualche anno più tardi, s’è spinto molto oltre: «Claudio è impressionante. Ha ancora margini di miglioramento, può diventare uno dei centrocampisti più forti del mondo». Cinque mesi e mezzo dopo ricomincerà a giocare. L’obiettivo, però, probabilmente non è quello immaginato da Nedvěd. Non è mai stato quello.