Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  settembre 28 Mercoledì calendario

JOHANNA, LA DONNA CHE RESE IMMORTALE VINCENT VAN GOGH

La verità è che furono, l’uno per l’altro, l’unico amore della propria esistenza. È il settembre del 1891 – sono trascorsi nove mesi dalla morte del marito Theo e più di un anno dal suicidio del cognato, il pittore Vincent – e Johanna van Gogh-Bonger, dopo aver letto la corrispondenza privata tra i fratelli Théodorus e Vincent van Gogh, ammette sul proprio diario: “È così. Ora posso scriverlo senza tristezza: il vero amore della vita di Theo è stato il fratello Vincent”.
Come al cospetto di un’epifania salvifica, Johanna non è furiosa o delusa, solo si sente come stranamente affrancata dalla maledizione che sembra abbattersi sui van Gogh. Il sollievo è per sé, certamente, ma soprattutto per suo figlio Vincent, un altro Vincent, il terzo a portare quel nome, su cui teme possa aleggiare il fantasma della disperazione dei primi due.
Già, perché il pittore Van Gogh, a sua volta, era stato secondo rispetto a un altro figlio, il primo Vincent, morto appena nato. Un anno dopo, lo stesso giorno, nasceva il pittore. Cosa sia significato portare i fiori sulla tomba di un fratello mai conosciuto su cui leggeva il proprio nome e la data del compleanno, questo nessuno potrà mai saperlo; mentre è noto invece che i fratelli Theo e Vincent si scrissero 651 lettere.
Quando il pittore, non ancora celebre né apprezzato, si spara un colpo di pistola per poi morire di agonia sul proprio letto, Theo stringe quei fogli al petto, mentre si consuma in un lutto suicida, che sei mesi più tardi lo condurrà alla morte. Inutili gli sforzi di salvarlo di Johanna che non può niente contro la vertigine di Theo, e in silenzio lo lascia fare per dedicarsi a salvare il piccolo Vincent appena nato che nella stanza accanto piange, vuole la poppata, si ammala, vuole giocare. Prima che muoia il marito, Johanna prende la decisione di tornare in Olanda, e scrive nel suo diario: “Me ne voglio andare da Parigi”.
Così lascia l’appartamento al n. 8 di Cité Pigalle a Montmartre e torna a Utrecht, vicino alla sua famiglia. Con sè, porta un baule con tutte le lettere e appena quattro tele di van Gogh, tra cui Autoritratto con orecchio bendato.
Prima di spirare, in un attimo di lucidità, Theo lascia tutto – 600 tele e più di 500 disegni – a Johanna: “Sei l’unica in grado di gestire tutto questo”. E non si sbagliava: Johanna van Gogh-Bonger è una donna colta oltre la media delle donne e degli uomini di fine Ottocento e intelligente, che profonderà un fondamentale impegno nel riconoscimento del valore del cognato pittore. Eppure, per quella forma di misoginia spesso imputabile alla memoria storica, i meriti di Johanna non sono, poi, così citati nelle agiografie di Van Gogh.
Si leggono i nomi di Émile Bernard, Toulouse-Lautrec, Gauguin (che pure fece marcia indietro), Octave Maus, Jan Toorop, mentre Johanna appare come una figura timorosa, grata alla sorte di averle regalato il merito casuale di essere “la cognata di”, quasi una figurante.
Oggi, a restituire alla sua figura il giusto spessore, ci pensa lo scrittore Camilo Sánchez che nel romanzo La vedova Van Gogh (Marcos y Marcos, pp. 192, euro 16, trad. di Francesca Conte) ricostruisce, a partire dal diario di Johanna e dalle lettere dei fratelli Van Gogh, la storia di questa donna.
Ritrovatasi sola a 28 anni, con un bambino e la promessa fatta al marito di portare alla luce il genio di van Gogh, con l’aiuto dei genitori apre una locanda, Villa Helma, a Bussum, un villaggio a 25 chilometri da Amsterdam. Ed è qui, nella solitudine piena del paesaggio – lo stesso così disperatamente anelato in tutti i quadri da Van Gogh – che, leggendo le lettere, Johanna comprende tutto: i sentimenti dei due fratelli, la necessità di Vincent di dipingere quadri che stupissero come allucinazioni, il bisogno del colore come racconto del dolore. Ripresa in mano la sua vita, Johanna scrive al fratello André, rimasto a Parigi, e gli chiede di selezionare insieme a Émile Bernard 300 quadri da inviarle a Villa Helma per appenderli alle pareti: è il primo gesto, svelare i quadri al mondo, pensando alle mostre che dovrà promuovere.
Così, grazie alla sua caparbietà e l’incontro con i critici giusti, riuscirà in sei mesi a organizzare dieci mostre sempre più importanti. Si inizia a Bruxelles per arrivare alla sala principale del Panorama di Amsterdam.
Inizia a farsi strada, in quegli anni, ciò che oggi ecumenicamente si legge nella sua arte: la tela è per Van Gogh l’unico mondo possibile, l’unico luogo in cui l’uomo può non perdere al bellissimo e insieme crudele gioco della vita.