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 2016  settembre 27 Martedì calendario

LA NOTTE IN CUI PAPA LUCIANI SBAGLIÒ LA SUA MEDICINA

Trentotto anni dalla morte di Papa Luciani: un fulmine e tante nuvole di dubbi e trame. Era l’estate dopo la tragedia Moro, l’elezione di Pertini e tre Papi: Paolo VI, Giovanni Paolo I e poi Giovanni Paolo II. Conoscevo Luciani da quando in San Pietro Papa Giovanni lo consacrò vescovo (1958), e in seguito insegnavo nel Seminario Romano, dove lui abitava quando era a Roma. Tre mesi interi nell’ultima sessione del Concilio: spesso per problemi di circolazione amava passeggiare a lungo e in compagnia. Toccò spesso a me: mi chiamava “il mio Gennarino”.
Quel 29 settembre, prima delle 7 mi telefona l’amico R. G., della Segreteria di Stato: “Il Papa è morto!”. Da poco grazie a Sergio Zavoli collaboravo al Gr Rai e alle 8 il vaticanista Gregorio Donato mi chiama in diretta. Per me era passata un’ora, e cito il proverbio: “Morto un Papa, se ne fa un altro!”. Scandalo e proteste! L’indomani sul Corsera, Goffredo Parise rimprovera: col cadavere ancora caldo si può essere così cinici? Seguì, sempre sul Corriere, una mia spiegazione. Morte inattesa, ma da subito notizie confuse e gran polverone: infarto, ma niente autopsia. Lo stesso amico poi mi racconta i fatti. Una premessa: alla morte di Paolo VI ero a un convegno al Passo della Mendola con don Germano Pattaro, docente di Teologia ecumenica a Venezia. Per la successione lui non sarebbe stato felice di un’elezione di Luciani, suo vescovo e Patriarca: su temi ecumenici era su posizioni tradizionali, e con parecchie riserve.
Con Luciani Papa il movimento ecumenico e la realizzazione del Concilio avrebbero sofferto. Ovviamente, eletto Luciani, pensavo don Germano un po’ deluso, e invece verso il 10 settembre mi informa che viene a Roma: lo vuole il Papa stesso! In udienza il 5 settembre tra le sue braccia, e col nome di Gesù sulle labbra, era morto di infarto Nikodim, numero due del Patriarcato di Mosca. Sorpreso e ammirato, il Papa chiamò don Pattaro a Roma, suo “consigliere ecumenico”. Però morì quasi subito, e don Germano, uomo, prete e teologo magnifico, sereno e amato rimase a Venezia fino alla morte (1988). Quei 33 giorni e il mistero Luciani. Qualche anno dopo David Yallop, per il suo In Nome di Dio, volle sentirmi a lungo a casa mia, e nella prefazione sono tra coloro che egli ringrazia, ma poi stravolse tutto: bugiardo e falsario, favorito dal fatto che la verità era stata sommersa in una catena di scelte errate da chi si trovò tra le mani quel cadavere.
Ecco, per me, l’essenziale dei fatti. La sera del 28 settembre non fu normale. Prima di cena il Papa ebbe un leggero malessere, ma non volle allarmare nessuno e si ritirò più presto del solito. Il segretario don Diego Lorenzi andò fuori, le suore si erano ritirate, ma lui non riusciva a dormire. Quel pomeriggio e la prima sera erano stati agitati. Aveva convocato Villot, Segretario di Stato prossimo alle “dimissioni” per età, comunicandogli alcuni cambiamenti: Segretario di Stato Giovanni Benelli, che Paolo VI a giugno 1977 aveva voluto a Firenze anche in vista di una sua rinuncia al Papato per settembre, che poi nei fatti gli fu impedita. Anche questa è una vicenda singolare. A Firenze inviava il cardinale Poletti, vicario per Roma il cardinale Pericle Felici e suo successore come Patriarca a Venezia padre Bartolomeo Sorge, cui Egli stesso aveva detto che in Vaticano gli pareva di essere come “nel labirinto di Cnosso”. Nel suo La traversata (Mondadori, 2010) lo stesso Sorge scrive che anni dopo ebbe la conferma dell’intenzione di Luciani da Giovanni Paolo II, che quindi ne aveva trovato traccia.
A Milano infine con le dimissioni del cardinale Colombo andava Casaroli. E Villot? Rispose a Luciani che il Papa aveva pieno diritto, ma anche che Benelli di nuovo in Vaticano dopo soli 15 mesi era inopportuno: così si smentivano evidenti volontà di Paolo VI. Luciani era rimasto male, ma in quella stessa sera – l’ultima – aveva comunicato il progetto, per telefono, anche al card. Colombo a Milano, e chi era nei pressi parlò di una conversazione “accesa”. Obbedienza, a denti stretti e con obiezioni forti, anche personali. Si fece notte, e Luciani solo si preparò a dormire.
Al mattino la fida suor Vincenza Taffarel, con Luciani già dai tempi di Venezia e di Vittorio Veneto, sorpresa nel trovare intatta davanti alla porta la consueta tazzina di caffè, bussa senza risposta, apre uno spiraglio e vede il Papa morto. Arriva mons. John Magee che chiama il Camerlengo, proprio Villot, cui per legge spetta la direzione di tutto alla morte del Papa che ora è lì, ancora seduto sul letto, lume da notte acceso, occhiali inforcati, un “foglio” tra le mani e un bicchiere sul comodino. Nessun segno di sofferenza visibile: quasi un sorriso. Lui, Villot, di fronte al cadavere del Papa che la sera prima ha contrastato secco, e il personale della Casa col peso di non essersi accorti di nulla. Che fare? Raccontare tutto? “Una donna” per prima? Non si può. Suor Vincenza Taffarel deve tacere, lo farà sempre, trasferita nel suo Veneto. Don Lorenzi non dica che non c’era, e che nulla ha sentito. Abat-jour accesa e tra le mani quel foglio con progetto di nomine? No. Niente “foglio”, ma l’Imitazione di Cristo. Spariti gli occhiali, sparito il bicchiere con tracce di acqua. Autopsia? Niente. È stato un infarto. La realtà: il Papa non riusciva a dormire e aveva chiamato al telefono il suo medico di Venezia, Da Ros, che gli consigliò un calmante, versatosi poi in eccesso. Di fatto il cuore si spense: contrario dell’infarto. Arrivò il sonno, ma l’ultimo, e al mattino Villot si trova davanti, morto, il Papa. E le leggende alla Yallop? Luciani progressista rivoluzionario eliminato dai Marcinkus e compagnia, non proprio di Gesù? Sul tema della povertà e dei poveri, Giovanni Paolo I la pensava in modo diverso, e molto vicino al modo che oggi propone Francesco. Tutto qui. Sicuro del tutto? No, ma fino a prova contraria, in 38 anni, è l’unica spiegazione credibile.