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 2016  agosto 23 Martedì calendario

PER GAWKER, CON AMORE E SQUALLORE – 

Nick Denton ha scritto un lungo e interessante articolo sulla fine di Gawker: un bell’articolo, nel senso in cui un articolo è ben scritto, appassionante, pieno di cose. Che se ne condivida o no il contenuto e le riflessioni: io non le condivido in gran parte, e per Nick Denton ho sempre avuto ammirazione e delusione. È uno bravo, intelligente, esperto di media e di internet, che ha dedicato la sua brillantezza a peggiorare il mondo invece che a migliorarlo, penso.
Faccio un breve recap: Nick Denton è stato tra le altre cose il direttore di Gawker, un popolare e famoso sito di news tra quelli che hanno rappresentato di più un modo diverso e nuovo di fare informazione e promuoverla su internet. Gawker ha chiuso ufficialmente ieri, schiantato dalla sconfitta in una causa promossa dall’ex wrestler Hulk Hogan col supporto finanziario di un grande imprenditore tecnologico, Peter Thiel, dopo la pubblicazione da parte di Gawker di un video di Hogan in un rapporto sessuale. Lo stesso Denton nel suo articolo espone e riassume bene tutta la storia.
Nel resto dell’articolo, Denton difende la storia e le scelte di Gawker, per aggiungere un’autodifesa finale al dibattito che è montato in questi mesi e che ha reso quello che è successo un passaggio storico nella storia dell’informazione online: dibattito tra chi si è rallegrato della condanna di Gawker ritenendola meritata per i suoi metodi aggressivi – “se la sono cercata” – e chi ha trovato preoccupante che una montagna di soldi a disposizione di una causa legale e l’intenzione di punire un giornale disprezzato possano ottenerne la chiusura e limitare la libertà di stampa, presente e futura.
Gli argomenti di Denton in difesa del giornalismo aggressivo, gossipparo, esagerato di Gawker sono, secondo me, tutti sbagliati. Potrei riassumerli in questo pensiero: “Il mondo fa schifo e noi lo combattiamo con le stesse armi, facendo schifo”. C’è in giro tutta una retorica diffusissima dello “sporcarsi le mani” che maschera con questa apparentemente nobile formula la rimozione di criteri, rispetto, prudenze, etica, giudizio in quello che si fa: e Denton la fa propria con una serie di altre espressioni, anche queste frequenti alibi di chi fa delle stronzate per professione. “Il sito era definito dalla quantità dei suoi nemici”, per esempio, sviluppo della tanto fiera e tanto scema formula sul giornalismo che sarebbe “scrivere qualcosa che qualcuno non vuole sia scritto”: il solito grande tema autocompiaciuto dell’essere “controcorrente” e condurre battaglie eccetera, che prelude al “ci vogliono mettere a tacere”, “mi hanno chiuso perché davo fastidio” e ai vittimismi da perseguitati immaginari (ma non immaginari nel caso di Gawker). O ancora “il maggiore complimento per Gawker era che non avessimo paura di nessuno”, “scrivere senza pensare alle conseguenze”, eccetera.
Ma subito all’inizio dell’articolo c’è la frase più esemplare sui criteri di Gawker:

«L’obiettivo rimaneva di ridurre lo scarto tra il pensiero e la pagina».

E allora, voglio dire questa cosa. Io credo che Denton abbia ragione nella descrizione di come si è sviluppato il processo, e che la condanna di Gawker sia stata viziata più da quello che era Gawker per i suoi critici che dal peculiare merito della causa con Hulk Hogan, e che la pena finanziaria sia una cifra esagerata e maramalda. E non c’è alcun dubbio che nella enorme mole di cose che Gawker ha pubblicato nella sua storia ci sono state tante cose interessanti, ottime, utili, brillanti.
Però non mi chiedete di essere contento che esistano dei giornali e dei giornalisti che rivendicano la rimozione dello scarto tra il pensiero e la pagina.
Non lo sono, e non mi dispiaccio per la chiusura di Gawker se non perché mi dispiaccio per le persone che ci lavoravano e persino per lo stesso Denton, causa del suo mal. E questo mi dà l’opportunità di dissociarmi dal canone corporativo e superficiale per cui “ogni volta che un giornale chiude è una brutta notizia”. I giornali non sono tutti uguali, non sono nobili e utili a prescindere, il pluralismo è un mito-alibi – in tempi di pluralismi sfrenati, nelle nostre società – usato per giustificare il ruolo o l’esistenza di qualunque progetto editoriale mediocre o persino spregevole e pericoloso. Esistono, i giornali spregevoli e pericolosi (ognuno naturalmente ha una sua opinione di quali siano, e qualcuno lo penserà di questo blog), di solito per scelta dei loro editori e direttori e quieto vivere o ambizione dei loro redattori. Io non vorrei che qualcuno a cui fa schifo il Post – esistono, è incredibile! – difendesse il Post “per la libertà di stampa”, ma solo se le cose che fa sono degne di essere difese. La qualità del giornalismo è un bene assai più raro e prezioso del tanto decantato pluralismo, e il mondo non sarà peggiore senza Gawker: e quando Peter Thiel – uomo per cui non ho nessuna simpatia e molta diffidenza, sia per questa storia che per le altre che si sanno di lui – parla di “terrorismo” rispetto a un tipo di giornalismo che pretende di attenuare lo strapotere dei potenti mettendoli sotto il ricatto delle rivelazioni sui fatti loro, e facendosi potere altrettanto disprezzabile, prepotente e pericoloso, beh, io credo che Thiel usi la parola giusta.
E parlo di un sito che, ripeto, aveva occasionali brillantezze e invenzioni e qualità che diverse testate italiane lette e “importanti” neanche si sognano. E mi dispiace che quelle occasionali qualità non ci siano più: ma era un lusso, non una necessità; un bambolotto, non un bambino; è stata una sua scelta di farsi buttare con l’acqua sporca pensando di passarla liscia. Quello che di buono fai con la mano sinistra non può legittimare le cose più bieche – ne legittima già parecchie di non granché, diciamo – che fai con la destra: successe già con News of the World (manca a qualcuno?) questo è il secondo avvertimento per chi spera che l’archivio dei pezzi nobili serva a proteggerlo dalle porcate di cui dovrà rendere conto.