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 2016  agosto 25 Giovedì calendario

1984. DONALD, PRIMA DI ESSERE TRUMP


Roy Cohn ha un problema. È la metà di novembre, un mese di piena per le prenotazioni negli alberghi di New York, e un cliente forestiero del suo studio legale – Saxe, Bacon & Bolan – non riesce a trovare una stanza per passare la notte. Un altro avvocato avrebbe potuto dire al cliente di andare all’ostello, ma Cohn ha da difendere una sua reputazione di solutore di problemi, che dev’essere continuamente alimentata da piccoli favori. Decide di rivolgersi a un altro suo cliente che, guarda caso, è il proprietario di due hotel in città: il Grand Hyatt e il Barbizon Plaza.
Nel potente triangolo newyorchese di politica, avvocati e agenti immobiliari, tra i due c’è un rapporto che può definirsi amicizia. Sono le 8.30 del mattino, ma la voce all’altro capo del telefono è piena di brio. «Ciao, Roy! Che cosa c’è? Chi? Mi spiace. Credo che il Grand Hyatt sia pieno. Può andar bene il Barbizon? Aspetta in linea. Provo a vedere». Con un grido semiattutito viene attivato un assistente nell’ufficio accanto, e poco dopo la conversazione riprende. «Okay, dovremmo aver trovato una stanza al Barbizon, ma solo perché sei tu, Roy».
Solo perché sei tu, Roy, o Hugh, o Abe e così via. Vi presentiamo Donald Trump, 38 anni. Sopracciglia folte. Capelli biondastri, un po’ lunghetti ai lati e appiattiti sulle orecchie. Alto 1 metro e 88, in forma, ma ben pasciuto. Mani piccole e ben curate. L’abito è blu ed elegante, con i pantaloni forse un po’ troppo larghi di gamba per uno che vive a est dell’Hudson. L’unica cosa che tradisce lo sgobbone di periferia è il paio di gemelli ai polsi: enormi molluschi in oro e pietra, grossi come monete da mezzo dollaro.

In questa frizzante mattinata autunnale, un uomo impegnato nella prima di una serie di visite agli uffici di Donald Trump, al ventiseiesimo piano della Trump Tower, midtown Manhattan, scende dal taxi. Parcheggiata in doppia fila davanti al grattacielo c’è una limousine Cadillac, lunga quanto un isolato e vanitosamente targata “DJT”. In ufficio, come prevedibile, Trump è al telefono. «Sì, alle undici e mezzo sarebbe meglio, Ben. Okay, riorganizzo la mia agenda. Ci si vede».
Ruota sulla sua poltrona per salutare il nuovo arrivato. «Parlavo con il capo di una grossa compagnia di assicurazioni. Sta arrivando della gente dalla California a cui vuole mostrare un po’ di immobili. Gente che rappresenta un patrimonio di 4 miliardi di dollari. L’unico posto che vogliono vedere, però, è la Trump Tower. Pazzesco».
Tale è la rinnovata fama di Donald Trump. Poco tempo fa, nell’ambiente immobiliare era considerato poco più di un furbastro sbruffone dai vestiti color malva. Trump si è sbarazzato di quei vestiti e, con uno stile considerato audace in alcune cerchie e viscido in altre, si è ritagliato un ampio spazio nelle zone più in vista di Manhattan, tappezzando con il suo cognome ogni nuova superficie edificata e, non a caso, costruendo negli ultimi cinque anni a New York più di chiunque altro. Ha ristrutturato il fallito Commodore Hotel, accanto alla Grand Central Station, trasformandolo in uno dei più spettacolari nuovi hotel di lusso della città: il Grand Hyatt, da 1.407 stanze. Per impreziosire la visuale ha ristrutturato la facciata della Grand Central Station rivolta sulla 42nd Street, ha preso in affitto e rinnovato il vecchio Vanderbilt Athletic Club, ribattezzandolo The Tennis Club. Trump ha poi opzionato una fatiscente proprietà di venticinque acri affacciata sul fiume, appartenente alla defunta Penn Central Railroad, per poi convincere il municipio a usare il sito come suo Centro Convegni. Nel 1983 ha terminato la Trump Tower e poi inaugurato il Trump Plaza, progetto di edilizia cooperativa di 40 piani a un isolato da Bloomingdale’s.
Nel grigio mondo immobiliare di New York, Trump ha infuso un tipo di disinvoltura auto promozionale che non si vedeva dai tempi del grande Bill Zeckendorf (il più potente immobiliarista degli Anni 50, ndr). «I miei progetti ormai si promuovono da soli», dice Donald. «E la mia abilità promozionale dipende dal fatto che so quel che la gente vuole. Do il meglio di me stesso nelle situazioni più impegnative. Nel campo immobiliare si ha a che fare con gente molto scaltra. Io me la sono cavata bene».
Questo mix di aggressività imprenditoriale e di spudoratezza da show business trova la sua massima espressione nella Trump Tower, lo slanciato e bronzeo complesso da 68 piani che accoglie uffici, negozi e abitazioni, inaugurato sul sito della sede di Bonwit Teller, all’incrocio tra la Fifth Avenue e la 56th Street.

Due soli tipi di persone vivono sulla Fifth Avenue a midtown: i senzatetto che dormono sulle grate da cui arriva aria calda, davanti a Saks, e gli eleganti attori che preferiscono mettere radici in un quartiere in cui i negozi essenziali sono a portata di taxi. Questi ultimi hanno deciso di stabilirsi nei 268 appartamenti della Trump Tower. Per molti nuovi inquilini, come Johnny Carson, Paul Anka, Sophia Loren e Steven Spielberg, la Trump Tower servirà da pied-à-terre. I condomini che andranno nell’appartamento di fronte a quello di Johnny hanno voluto una piscina dentro casa. «In realtà si tratta di tre appartamenti, di cui uno su due piani», dice Trump. «Due per abitare e uno per la piscina. Ci sono anche tante saune. È strano. C’è gente che soggiornerà qui sì e no una settimana all’anno».

La Trump Tower viene presuntuosamente definita “la Tiffany location” dal suo proprietario. «Nell’ambiente immobiliare, l’espressione Tiffany location indica il meglio in assoluto». I suoi vicini di Tiffany potrebbero ragionevolmente sostenere che sono loro a occupare la Tiffany location, ma Trump non sarebbe quel che è, se avesse mostrato rispetto per la concorrenza. C’è da dire, comunque, che ora la sua posizione, a livello geografico, almeno, non è tanto lontana da quella di partenza. Basta percorrere alcuni isolati a piedi fino alla linea E della metropolitana e prendere il primo treno per il capolinea: Jamaica Estates, Queens. Lì è cresciuto Trump.

Per ammorbidire la sua tendenza a sopraffare chi lo circondava, Trump fu spedito alla New York Military Academy, a Cornwall-on-Hudson. «Quando mi sono diplomato, ero praticamente il migliore sul piano militare, ma non avevo imparato ad andare d’accordo con la gente», ricorda. Le estati le passava aiutando il padre, Fred C. Trump, ex carpentiere che aveva costruito un piccolo impero di immobili middle-class a Brooklyn, nel Queens e a Staten Island.
Mentre frequenta la Wharton School della University of Pennsylvania, Donald comincia a concludere i suoi primi affari. «Cominciai a darmi da fare con gli immobili, acquistando case, risistemandole un po’ e rivendendole con un certo profitto». Nel 1968 entra a far parte dell’azienda di famiglia, la Trump Organization, proprietaria all’epoca di 40.000 appartamenti. Tutta roba di poco conto e in periferia, però, mentre Donald fremeva dalla voglia di attraversare l’East River per cominciare a lavorare a Manhattan. Aveva già sondato le acque. «Da giovanissimo ho fatto il produttore di una commedia a Broadway. Il semiproduttore, diciamo. Ho contribuito a raccogliere fondi per un piccolo spettacolo con Sam Levene e Molly Picon, intitolato Paris Is Out. Avevo 22 anni. È un ambiente pessimo».

Come nel cinema, anche nel campo immobiliare il successo dipende spesso dagli accordi che si stipulano, e Trump nella sua carriera ha dimostrato un notevole talento in questo campo. Inoltre, i solidi legami della famiglia Trump con l’apparato del partito democratico di Brooklyn, trampolino di lancio dei successi politici del governatore dello Stato di New York, Hugh Carey, e del sindaco di New York, Abe Beame, non hanno certo danneggiato la carriera di Donald. I due uomini politici erano entrambi in carica a metà degli anni Settanta quando New York rischiava la bancarotta, e Trump fece il suo primo grande e complicatissimo affare per la costruzione del Grand Hyatt Hotel. «La città era morta», dice Donald. «Finita».

Per 500.000 dollari opzionò il Commodore Hotel, allora di proprietà della Penn Central. Quando seppe che l’Hyatt stava cercando un sito per costruire un hotel a New York, stipulò un accordo: lui avrebbe costruito sul lotto appena opzionato, mentre l’Hyatt avrebbe gestito l’immobile. Con l’aiuto di George Peacock, che poi sarebbe diventato vicepresidente anziano della Equitable Life Assurance Society, Trump racimolò offerte di finanziamento per 70 milioni di dollari. «Ho sottoposto alle autorità cittadine questo impegno, che comprendeva un centinaio di accordi», ha dichiarato in un’intervista al New York Times. «Una delle condizioni che consideravo fondamentali riguardava una consistente agevolazione fiscale. Io mi sono offerto di costruire questo incredibile, stupendo e sfavillante hotel, che avrebbe creato posti di lavoro nell’edilizia e ne avrebbe salvati altri nel settore alberghiero. Inoltre, l’area della Grand Central, che all’epoca era decisamente depressa, sarebbe rinata. E le autorità hanno accettato».

Grazie a complessi accordi finanziari, Trump è ora comproprietario del Grand Hyatt senza aver investito personalmente neppure un centesimo. E poi c’è l’agevolazione fiscale, che per i prossimi 40 anni esime l’hotel dal pagamento di tasse comunali per un valore stimato di 50 milioni di dollari. «Chi l’avrebbe detto che sarebbe stato un tale successo?», dice Trump. «Io no. Credevo potesse essere un buon affare, ma adesso è l’hotel più frequentato della città. Non so se sia questione di intuito o di fortuna. Forse entrambe le cose, unite a un grande tempismo. In altri periodi non avrei ottenuto una simile agevolazione fiscale».
L’affare dell’Hyatt, però, fu solo il prologo dell’affare principale: la Trump Tower. Cominciò a emergere un metodo: di tutti i suoi progetti immobiliari, Trump era il solo proprietario, fatta eccezione, di volta in volta, per un unico altro socio di alto profilo. Nel caso della Trump Tower si trattò della Equitable. La Chase fornì i 24 milioni necessari per l’acquisto dei diritti sul terreno e suddivise il prestito da 150 milioni per le opere di costruzione tra i membri di un consorzio. Trump vendette gli appartamenti per 277 milioni e divise con la Equitable la prima tranche di profitti quando ancora il primo acquirente non si era insediato. «I 277 milioni riguardano solo la metà superiore dell’edificio. La metà inferiore ce la siamo ritrovata a disposizione a costo zero». La proprietà riscuote ora l’affitto di tredici piani adibiti a uffici (a più di 500 dollari al metro quadrato) e di sei piani a uso commerciale (per un prezzo da 3 a 9 volte superiore a quello degli uffici). «Un affare pazzesco», dice Trump.

I risultati di Trump hanno comportato un costo sia per il patrimonio architettonico della città sia per la reputazione del costruttore. A molta gente Trump sta antipatico, un fenomeno forse iniziato ai tempi dei lavori alla Grand Central, quando appese un enorme striscione con su scritto TRUMP a caratteri cubitali. E la distruzione di due bassorilievi un tempo visibili sulla facciata di Bonwit Teller, già promessi al Metropolitan Museum of Art, non servì certo a renderlo più simpatico alla cittadinanza.

Il Trump Plaza, comunque, beneficiò di un lancio promozionale imprevisto. «Stavo guardando gli U.S. Open di tennis alla tv», ricorda Donald, «quando Martina Navratilova, dopo aver vinto, davanti a centinaia di fotografi e giornalisti disse, più o meno: “Grazie per l’assegno. Adesso posso comprarmi un appartamento al Trump Plaza di New York”. In uno stadio pieno, davanti alle telecamere». Navratilova, poi, lo comprò veramente. Facciamo un giro per l’edificio e Donald si autocomplimenta di continuo. Una venditrice che ci accompagna è anche lei piena di entusiasmo. «Le cucine sono piccole perché i nostri clienti non amano stare ai fornelli. Se mangiano in casa, di solito ordinano la cena al Silver Palate. E questa è la terza camera da letto, che molti usano come studio, per via della posizione ideale. Questa stanza è stata progettata da Angelo Donghia!» (uno dei più famosi interior designer di New York: tra i suoi clienti, anche Calvin Klein e Ralph Lauren, ndr).

Tornando alla Trump Tower, passiamo accanto a Central Park South. «Il Barbizon Plaza è mio, come l’intero isolato su Central Park South e Avenue of the Americas», dice Donald, esagerando (le sue proprietà, a voler essere precisi, ammontano a meno di un sesto dell’isolato in questione). «Sto decidendo cosa farne», dice Trump, che nei prossimi giorni annuncerà possibili progetti futuri, tra cui la costruzione dell’edificio più alto del mondo e un accordo per un gigantesco stadio coperto nel Bronx. Mentre imbocchiamo la Fifth Avenue, Trump passa a parlare della limousine. «Gli interni sono fatti da un costruttore di carrozze. Pazzesco, eh? C’è il frigo-bar, e tutto quanto. La tv, la radio...». Si sporge in avanti e rivolge una domanda all’autista, ma senza aspettare la risposta guarda fuori dal finestrino e mi dice: «Sei mai passato davanti alla Trump Tower di notte? Hai visto come brilla? Sembra luccicare nel buio, perché io ho usato del vero bronzo. Se si usano le imitazioni, non fa lo stesso effetto. Non c’è paragone». Torna a mettersi comodo sul sedile. «Io sono una persona di gran classe e mi piacciono solo le cose di gran classe».