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 2016  agosto 24 Mercoledì calendario

LE FOGLIE DEL MALE

«Dove sono i soldi? Dove li hai nascosti?».
In una casetta all’interno del parco ecoturistico Boquemonte, a due ore da Bogotá, un ladro urla contro una donna.
Lui è un narcotrafficante, lei una mamma. Stringe tra le braccia la sua bambina, si avvicina alla culla, fa per adagiarla ma il delinquente la spinge, solleva il materasso e trova le banconote. Poi le spara.
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L’assassino e la vittima erano due attori della serie Tv Narcos, che racconta la storia dell’ascesa dei cartelli della cocaina e degli sforzi per contrastarla. La prima stagione ha avuto un successo planetario e la seconda, in dieci puntate, sarà visibile su Netflix dal 2 settembre.
Ho visto quella donna morire diverse volte mentre attendevo Pablo Escobar. Ovviamente non quello vero, l’uomo che negli anni ’80 dominava il traffico di coca dalla Colombia verso gli Stati Uniti e l’Europa, tentò di diventare presidente della Repubblica e fu poi ucciso il 2 dicembre 1993 dagli agenti che gli davano la caccia. Il Pablo che ho intervistato era l’attore brasiliano Wagner Moura, protagonista della serie insieme a Pedro Pascal e Boyd Holbrook, che interpretano gli agenti alle sue costole.
«Ci siamo incontrati in un hotel», racconto al mio vicino di viaggio sul lizador, la barca, che è anche l’unico mezzo per raggiungere i villaggi nella foresta. I soldati controllano bagagli e biglietti, che costano 40 euro, troppo per la povera gente del posto.
«Somiglia davvero a Escobar?», mi chiede.
Maglietta e pantaloni neri, Moura mi aveva colpito proprio per la somiglianza con il re della cocaina. «Per interpretarlo ho imparato lo spagnolo e preso venti chili», mi aveva raccontato. «La serie è girata qui in Colombia, e sul set ho scoperto che tanta gente nutre ancora un profondo odio per Escobar, però c’è anche chi invece lo ama. Perché era un criminale ma si atteggiava a Robin Hood, aveva persino fatto costruire un quartiere per i poveri. Ma ammazzò tante persone, e di altre ordinò l’uccisione. Corrompeva politici, giudici, poliziotti. Come abbiamo raccontato nella prima stagione, convinse il governo a fargli scontare il carcere alla Catedral, una fortezza che si costruì da solo, e dove visse nel lusso fin quando evase. Nella nuova stagione ricostruiamo la latitanza, un periodo sul quale si hanno poche informazioni, ma i produttori hanno scoperto cose interessanti. A volte mi chiedo cosa sarebbe accaduto se fosse diventato presidente. Avrebbe aiutato i poveri o pensato solo ai fatti suoi?».
L
Si riferisce agli accordi siglati il 23 giugno a Cuba tra il governo colombiano e i rivoluzionari delle Farc per porre fine alla guerra che, in 52 anni, ha causato 220 mila morti, 45 mila persone scomparse e 7 milioni di sfollati. Entro ottobre, i colombiani voteranno se accettarli o no. Ma il mio compagno di viaggio è scettico sulla possibilità che le cose cambino: «I guerriglieri non faranno davvero più affari con la coca?». Le Farc controllano il 70 per cento delle aree coltivate, con un giro d’affari che, a seconda delle stime, vale tra i 200 milioni e i 3,5 miliardi di dollari l’anno.
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Sulle pareti della caserma ci sono foto di guerriglieri ricercati ed elenchi di sostanze per le quali è ammesso solo un piccolo quantitativo a bordo: benzina e prodotti chimici che potrebbero essere adoperati per ricavare la cocaina, proibita dal governo ma prodotta e trafficata dai guerriglieri, che così si finanziano. Da queste parti, mi dicono, sono ovunque. E anche i soldati: soprattutto a Remolino del Caguán.
Se questo nome non vi dice niente, è perché è difficile trovarlo sulle mappe. Ma è da qui che fino a pochi anni fa passava molta della coca destinata alle piazze di tutto il mondo. Il prete del posto, padre Emilio, mi racconta che a Remolino vivono 300 persone, «ma vent’anni fa ce n’erano più di duemila, arrivate da tutto il Paese in cerca di fortuna. Piccoli aerei atterravano in piazza e ripartivano pieni di coca prodotta in diciotto laboratori nascosti nella giungla. Il giorno del mercato i dollari giravano a sacchi, e gli uomini festeggiavano ubriacandosi».
Un giorno arrivarono i guerriglieri, poi i soldati. «Molte persone furono uccise, altre sparirono. In mezzo a tutto quel dolore, due missionari italiani convinsero parecchi contadini a sostituire le piante di coca con il cacao. Dall’Italia arrivarono soldi per costruire una fabbrica di cioccolato». Che c’è ancora. Ma ci lavorano solo tre uomini e due donne, e solo di notte: di giorno non c’è elettricità. «Il progetto non ha avuto la fortuna che speravano», continua padre Emilio, «perché Remolino è isolata, e perché i contadini sperano ancora di arricchirsi con la coca».

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«Con mio marito allevavamo mucche vicino a Florencia. Sono arrivati degli uomini e ci hanno cacciato dalla nostra terra. Uno ha detto: andate nella foresta a coltivare la coca. Ci ha spiegato che le foglie maturano ogni 45 giorni, e che avremmo guadagnato tanto da mandare i nostri figli all’università. Così ci siamo trasferiti qui a Remolino, e abbiamo occupato questo pezzo di terra. Ma i narcos non vogliono le foglie: prima dobbiamo trasformarle in pasta madre. I soldi che ci danno li spendiamo quasi tutti per comprare la benzina e i prodotti per la lavorazione. Fare soldi con la coca è un’illusione».
La giungla è fittissima. In lontananza qualcuno taglia gli alberi. Un piccolo aereo ci sorvola, Paloma si incupisce. Il governo, spiega, fa spargere dal cielo diserbanti che uccidono le piante di coca, ma anche tutto il resto.
Nella piantagione troviamo i suoi tre nipotini che lavorano la terra. «Le nostre figlie non sono andate all’università, i loro bambini non vanno a scuola. Tre mesi fa i soldati sono venuti, hanno trovato la coca e ci hanno bruciato la casa. Mio marito e i suoi amici stanno tagliando alberi per costruirne una nuova».
Le chiedo perché non passano al cacao. «Per far crescere le piante ci vuole troppo tempo, e noi siamo bravi a fare la coca». Parla stringendo in mano delle foglie, poi mi porge un sacchetto. Mi aspettavo una polvere bianca, invece è color cioccolato: «È questa la pasta madre. Noi la vendiamo così, loro la trasformano».
Le domando se ha mai visto la cocaina. «Mai». Chissà se è sincera. Chissà se mente quando le chiedo se sa che di cocaina si può morire, e in Europa si muore. «Non è possibile, il mio prodotto è buono».
Si è fatto tardi, tornia al Rio Caguan. Salta fuori il nome di Pablo Escobar. «Dov’era Escobar», sbotta Paloma, «quando quegli uomini ci hanno rubato la terra?». Mentre salgo sulla barca, mi stringe forte la mano: «Di’ a quei ragazzi in Europa che siamo due facce della stessa medaglia. Noi non saremmo poveri, se non esistesse la cocaina». È l’ora dei saluti. «Il problema è la Colombia». Infine, abbracciandomi: «Il problema è il mondo».