Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  agosto 23 Martedì calendario

LA STRAGE DEGLI INNOCENTI

Le testimonianze dicono che gli aguzzini trattavano con dolcezza i bambini che stavano portando a morire. Li prendevano in braccio, li consolavano: non volevano spaventarli più di quanto già non fossero.
Insieme alle loro madri – non sempre, a volte completamente soli – venivano fatti spogliare perché per motivi igienici era necessario fare la doccia. Poi le Ss sigillavano le porte delle camere a gas e aprivano le valvole del Zyclon B. Due ore dopo il loro arrivo al campo, erano già morti.
«Si potevano sentire le grida e il pianto delle vittime, ed era chiaro che stavano lottando per sopravvivere», avrebbe raccontato un medico di Auschwitz. In questo e altri modi fra il 1942 e il ‘45 sono stati uccisi un milione e mezzo di bambini europei, di religione ebraica. Ai piccoli gemelli pensava direttamente il dottor Mengele con i suoi esperimenti genetici. Al Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, lo Yad Vashem, nel buio dell’edificio che li ricorda, la luce di poche candele è moltiplicata dagli specchi. Lentamente, una voce sempre uguale ripete il nome, l’età e il luogo di nascita di ogni vittima.
Non c’è dunque niente di nuovo sotto il sole che l’Isis o Boko Haram siano stati capaci d’inventarsi per stupire e spaventare. La strage degli innocenti è un’antica attività umana, un annesso delle guerre, dei conflitti civili e soprattutto religiosi di ogni epoca. È l’atto di sfregio, l’odio più profondo verso il nemico: lo si colpisce nella speranza, ne si sradicano le radici affinché l’oblio incominci subito. Era probabilmente anche per questo che l’altra sera a Gaziantep l’Isis ha voluto colpire la festa di un matrimonio dove i bambini ci sono sempre. Non è ancora chiaro se poi anche il kamikaze fosse un bambino o un uomo. Il secondo caso diventa psicologicamente quasi più accettabile: come se nel massacro fosse stato compiuto un omicidio in meno, quello di un inconsapevole piccolo kamikaze.
Fosse invece avvalorata la prima eventualità, le autorità turche vogliono capire se l’eventuale bambino assassino fosse consapevole o no: se cioè la cintura esplosiva fosse stata innescata a distanza o sia stato proprio lui a farlo. Ha importanza? Le agenzie di stampa spiegano che anche nel tentativo fallito di un dodicenne, ieri a Kirkuk in Iraq, «non è chiaro se» il bambino che nascondeva l’esplosivo sotto la maglia del Barcellona di Messi «volesse commettere l’attacco o sia stato costretto dal gruppo jihadista». È irrilevante. Il bambino è comunque innocente: lo scagiona il pianto di terrore quando ha rischiato di essere linciato dagli uomini che era arrivato a un passo dall’uccidere, comunque inconsapevolmente.
In casi come questi si finisce invischiati nella retorica con estrema facilità. I giornalisti non sono adeguati a cogliere lo spirito e la tragedia umana fino a queste profondità: servono i grandi scrittori. E pochi fra loro ci riescono. Tuttavia non è retorico riservare la nostra pietà anche al bambino di Kirkuk, sopravvissuto ai demoni instillati nella sua testa dagli adulti. L’anno scorso fece il giro del mondo l’immagine del bambino di un villaggio afghano che si era disegnato addosso la maglia di Messi, in quel caso dell’Argentina. Il campione commosso gliene inviò una originale. Sarebbe bello se ora ne mandasse una del Barça al presunto assassino di Kirkuk. Le vie della redenzione infantile non sono complesse come quelle degli adulti.