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 2016  agosto 22 Lunedì calendario

L’ESTATE ETERNA DEI NOSTRI SCHIAVI

Quest’estate, per adesso, sono mancati i morti di caldo: i martiri dell’uva, del pomodoro e dei cocomeri. Per il resto nei campi del Sud lo scenario è lo stesso della passata stagione, di quella prima e di quella prima ancora: il caporalato resta una forma di schiavitù tollerata. Tra Calabria e Basilicata, tar le vigne e i campi, tra le tendopoli, i porcili e le stalle si ripete ogni giorno, in silenzio, la stessa grande vergogna italiana.
LECCE: “POCO POMODORO, UGUALE POCO LAVORO”
Abdul va e viene tra le baracche, con un bicchiere in mano: “Una moneta, mi serve per tornare a casa”. Casa è la tendopoli di Rosarno, da cui il ghetto di Nardò, nel leccese, sembra lontano una distanza infinita quando si è senza un soldo: quest’anno, per molti, l’impiego tra i filari non c’è neanche a pagarlo ai caporali. Poco pomodoro, poco lavoro. Ahmed spunta da dietro un ulivo: “Io dormo qui da nove giorni e non mi hanno chiamato una volta. Il ‘capo nero’ è arrabbiato con me, perché gli ho detto che con questi prezzi solo lui mangia”.
I costi sono quelli fissi: 5 euro al giorno per il trasporto; 3 euro per il panino; 1,50 euro la cresta su ogni cassone che al lavoratore frutta appena 3,50 euro. Ma non c’è posto qui per la ribellione. Tra gli schiavi della terra, nulla è cambiato in Puglia. Solo il sole meno severo non ha reso anche questo l’anno di Mohamed, Zaccaria e Paola, i tre braccianti schiantati dal caldo e dalla fatica la scorsa estate.
L’ordinanza che impedisce di restare sui campi dalle 12 alle 16, voluta dal sindaco di Nardò, Pippi Mellone, ha un limite intrinseco: si applica solo al territorio neretino. Un metro più in là, a Copertino come nel resto della regione, è ancora far west. È mutato solo ciò che non si vede. Le prime file della catena di comando si sono inabissate: i caporali lasciano il lavoro sporco ai capisquadra, che si confondono con i braccianti, vivono nel ghetto con loro, li reclutano tramite Whatsapp, insieme raggiungono in auto le campagne. All’apparenza, quasi un’autogestione. Nella realtà, è l’organizzazione ad essersi fatta sofisticata, liquida. Perché la controffensiva della magistratura qui è stata, paradossalmente, una lezione al contrario: dopo l’operazione Sabr, che quattro anni fa ha portato in carcere 16 persone tra imprenditori e intermediari, il cartello del caporalato ha imparato in fretta a non esporsi. E ora rischia anche di farla franca: troppo complicato far reggere in giudizio le accuse di riduzione in schiavitù e tratta di persone. “Se dovesse andare male il processo nato da quell’inchiesta – ammette il procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta – si dovrà ricominciare da capo”. Il ddl sul caporalato approvato in Senato tre settimane fa a chi è in trincea fa storcere il naso: “Per me, è una schifezza, – dice Motta – quella norma ha un errore di impostazione. Parte dalla necessità di punire l’intermediario e solo in casi particolari il datore di lavoro. Invece, la legge avrebbe dovuto colpire in primis chi utilizza i braccianti in condizioni di grave sfruttamento e poi, per concorso, gli altri”.
Trecento chilometri più a nord, nel foggiano, c’è lo stesso scenario. Una città di baracche di plastica e cartone. Un inferno esasperato: sono quasi 2mila i migranti nel “Gran ghetto di Rignano”, sotto sequestro dopo l’incendio che lo ha devastato, il 23 marzo. Lo smantellamento del campo, promesso a più riprese dal governatore Emiliano, tiene tutti in ansia: “Per me va bene – dice Amadou – perché qui siamo senza acqua né luce e le persone vengono sfruttate, ma devono darci un’alternativa vera”. Hanno proposto una tendopoli a San Severo, è lontana 30 chilometri. “Lo sgombero ora è impensabile. Avverrà in inverno, quando gli stanziali sono meno di 200”, assicura Stefano Fumarulo, dirigente della Sezione Politiche per le migrazioni della Regione Puglia. I progetti di ospitalità in un campo container adeguato sono destinati, anche quest’anno, ad essere rimandati al prossimo. Forse: i 4 milioni di euro che si attendevano dal governo, dopo la firma del protocollo di lotta al caporalato di fine maggio, non sono arrivati. Fermi anche i 500mila euro stanziati da Bari per incentivi all’ospitalità e gli altrettanti per il trasporto: le aziende non si sono fatte avanti. E degli 800mila euro impegnati tre anni fa per rafforzare i controlli, ne sono stati spesi appena 48mila. Nella lotta al caporalato, neanche i soldi, quelli pubblici, fanno la loro parte. “Il tema vero è l’avviamento al lavoro e qui va sempre peggio – spiega Giuseppe Deleonardis, segretario generale Flai Cgil Puglia –. A Lecce, a fronte di 200 iscritti nelle liste di prenotazione da cui le imprese possono attingere, lo scorso anno ci sono state 80 assunzioni, quest’anno appena 40. A Foggia, su 800 iscrizioni, zero contratti”. Meglio pescare gli schiavi nell’economia illegale.
LE STALLE DI COSENZA E LE TENDE DI GIOIA TAURO
San Ferdinando, Calabria. Siamo nell’area industriale a ridosso del porto di Gioia Tauro. “Non ho visto nessun cambiamento rispetto a quando è morto il fratello Sekine Traore. Nessuno ci ha dato una mano”. Sono passati due mesi dal giorno in cui un colpo di pistola, sparato da un carabiniere intervenuto a sedare una rissa, ha ucciso un ragazzo del Mali all’interno della baraccopoli dei braccianti. I “fantasmi neri” non hanno voglia di parlare. Qualcuno lo fa ma non vuole dire il suo nome. È un ragazzo del Ghana. Vive col figlio nell’indegna tendopoli di Rosarno. “Presto – anche lei – dovrà essere smantellata. Lì, di fronte, costruiranno quella nuova”.
Decisione della prefettura. La Regione ha stanziato 300mila euro per acquistare le tende e far vivere maniera dignitosa i migranti stagionali che in Calabria raccolgono le arance. All’epoca, il governatore Mario Oliverio aveva parlato di “ghetto”. Sono trascorsi oltre sei mesi ma quel ghetto è sempre lì.
In questi giorni la Protezione civile sta gestendo l’appalto per l’acquisto di 44 nuove tende che ospiteranno 440 migranti. Pochi: d’inverno la tendopoli di San Ferdinando esplode con oltre mille stagionali, protagonisti già nel gennaio 2010 di una violenta rivolta. I progetti di accoglienza diffusa previsti nel protocollo tra prefettura e Regione non sono mai partiti, i migranti che non troveranno posto nella tendopoli saranno costretti a costruire nuove baracche.
“Adesso siamo solo 200, – spiega uno di loro – molti sono andati a Foggia e in Campania per la raccolta dei pomodori, ma torneranno”.
Il Comune di San Ferdinando è sciolto per mafia. Un funzionario riconosce: “Nella nuova tendopoli i posti sono troppo pochi”. E come si fa? “Me lo domando pure io. – risponde – Succederà la rivoluzione. Con quale criterio assegneranno le tende? E gli altri migranti che faranno? La baraccopoli bis?”.
Altrove la situazione è ancora più tragica. Nella piana di Sibari, un’inchiesta della guardia di finanza (che ha denunciato 49 persone) ha svelato gli intrecci tra la ‘ndrangheta e un caporale pachistano, che in un anno è riuscito a guadagnare circa 250mila euro, in parte finiti nelle casse della cosca locale. Era il dominus a cui si rivolgevano gli imprenditori agricoli per recuperare manodopera illegale. Sequestrava i documenti dei lavoratori e li costringeva a vivere in condizioni oltre il limite: le loro “case” erano stalle e porcili. Dormitori sommersi dalla paglia e dall’immondizia. Esseri umani trattati letteralmente come bestie.
In Basilicata la storia non è diversa. La linea di chi amministra è una sola: smantellare le baracche. Per il resto, nessuno ha chiaro come contrastare il caporalato. A Boreano, una frazione di Venosa, in provincia di Potenza, l’accampamento dei braccianti è stato distrutto e i migranti trasferiti nei centri di accoglienza gestiti dalla Croce Rossa. “I lavoratori non vogliono andare lì perché sono zone molto scomode e senza alcun servizio. – spiega Giulia Bari, responsabile di Medu (Medici per i diritti umani) – Non hanno i letti, dormono sulle brandine da campeggio e per mangiare hanno dei fornetti elettrici appoggiati sui tavoli di plastica. Non essendoci una rete di trasporto che colleghi i centri ai campi, saranno sempre i caporali a organizzare le squadre per andare a lavorare”. E poi ci sono le “liste di prenotazione”. I migranti che vogliono accedere al centro di accoglienza devono iscriversi: “La scelta di chi lavora è tutta nelle mani del caporale. È lui che comunica i nomi dei prescelti al datore di lavoro. Il caporale, insomma, fa le squadre”.
Il vecchio campo è smantellato, avanti il prossimo. “Vedrai – spiega Vincenzo Esposito, della Flai-Cgil – da qui a 20 giorni costruiscono una nuova baraccopoli altrove. Bisogna sottrarre questi lavoratori ai caporali, il resto serve a poco”.
Tiziana Colluto e Lucio Musolino, il Fatto Quotidiano 22/8/2016