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 2016  agosto 21 Domenica calendario

CHE FINE HANNO FATTO I SOLDI

Nei primi giorni delle Olimpiadi di Rio c’è stata una gara che ha rappresentato l’esempio perfetto del perché l’Europa non riesca a uscire dalla stagnazione. Sabato 6 agosto, ciclismo maschile su strada. Il nostro Vincenzo Nibali si schianta su un cordolo di cemento a undici chilometri dall’arrivo, mentre è in fuga giù per una discesa umida e ripida. Il polacco Rafal Majka rimane solo, con una trentina di secondi di vantaggio sugli inseguitori. Ha però un problema: è uno scalatore, mentre gli ultimi nove chilometri si snodano piatti lungo la spiaggia di Copacabana. Majka spinge, ma sa che il suo destino è essere inghiottito. Qui, però, accade l’imprevedibile: l’inseguimento non parte. Nessuno del gruppo, dietro, vuol mettersi a tirare. Chi si sacrifica per primo, infatti, giungerà all’arrivo senza fiato e rischia di perdere la volata. Il francese, lo spagnolo e l’altro italiano Fabio Aru si scrutano, un po’ fermi sui pedali. E così si fanno sorprendere dagli unici due che decidono di fare squadra, scappando insieme e condividendo lo sforzo: il belga Greg Van Avermaet (oro), e il danese Jakob Fuglsang (argento). Tenete a mente l’immagine del gruppo in cui nessuno ha il coraggio di partire, perché aiuta a capire cosa sta accadendo in Europa.
Già: in questi ultimi mesi l’Unione europea sta vivendo la fase più difficile della sua storia. La guerra infiamma il Mediterraneo, i terroristi minacciano le città, i profughi premono fuori e dentro i confini, la Gran Bretagna si prepara a dire addio, la disoccupazione resta pesante, i partiti euroscettici si galvanizzano. Tra i tanti motivi d’inquietudine, ce n’è uno che sta emergendo in maniera sempre più chiara proprio in queste settimane e che pone a politici e cittadini interrogativi decisivi. L’unica risposta messa in campo dall’Europa per uscire dalla stagnazione, che attanaglia diversi Paesi ormai dal 2008, non sta dando i risultati sperati. Parliamo del "quantitative easing", l’enorme massa di denaro contante con cui, ormai da un anno e mezzo, la Banca centrale europea ha inondato il sistema finanziario, senza riuscire a far accelerare la crescita. Anzi: nel secondo trimestre del 2016 il Prodotto interno lordo (Pil) dell’area euro è aumentato solo dello 0,3 per cento rispetto al trimestre precedente, il risultato più magro dall’estate 2015. Impiombate l’Italia, la Francia e l’Austria, dove il Pil è rimasto fermo (sempre su base trimestrale), uno dei rari segnali positivi è arrivato dalla Grecia, in recupero dello 0,3 per cento; chissà se durerà.

banchieri intrappolati
Da quando dati come questi hanno iniziato ad affluire, da più parti si sono rafforzati gli appelli perché l’Europa adotti delle nuove misure per rivitalizzare la crescita economica. Finora le risposte sono state quasi nulle perché i governi dei vari Paesi - un po’ come il drappello di inseguitori della gara di Rio - si guardano l’un l’altro, preoccupati dalla profondità dei cambiamenti che dovrebbero affrontare e dalla necessità di superare le convenienze politiche più immediate, come spiegano Luigi Zingales e Massimo Riva negli articoli delle pagine successive. Con poteri e strumenti d’azione più circoscritti di quelli in mano ai capi di governo, lo stesso accade ai banchieri centrali, non solo in Europa. La concessione alle banche di grandi quantitativi di denaro contante attraverso il riacquisto di titoli di Stato e altri strumenti finanziari, ha rappresentato la risposta di tutti loro alla crisi, in Giappone, negli Stati Uniti, in Europa, in Cina e ora pure in Gran Bretagna. Fatte salve alcune eccezioni, però, i risultati non sono stati paragonabili allo sforzo profuso, e spesso si sono dimostrati poco duraturi, come indica il rallentamento della ripresa in Europa. Al punto che, ha scritto l’economista Donato Masciandaro sul "Sole 24 Ore", gli stessi banchieri sembrano ormai intrappolati nelle controindicazioni del "quantitative easing", un po’ come accade all’operaio Charlie Chaplin nell’immortale film "Tempi moderni", evocato dall’immagine di pagina 30 che fa da sfondo ai principali dati di una stagione mai vissuta dall’economia mondiale.

L’italia si scopre risparmiosa: anche troppo
Per capire le ragioni di questo stallo bisogna partire dal sintomo della malattia: i prezzi. Guardiamo l’Italia. In luglio i prezzi al consumo sono diminuiti dello 0,1 per cento rispetto a un anno prima, in giugno erano calati addirittura dello 0,4 per cento. È un bene, verrebbe da dire, se le merci costano meno. Non è sempre così. Per gli economisti la discesa dei prezzi - chiamata deflazione, il contrario di inflazione - è sana solo se nasce dalla competizione che spinge le aziende a cercare più efficienza e a rendere maggiormente convenienti i loro prodotti. Se invece è determinata dalla prudenza dei consumatori, che comprano il meno possibile, è un po’ come la febbre in caso d’infezione: un segnale che qualcosa non va. Oggi la situazione è mista. In parte i prezzi diminuiscono perché il petrolio costa poco. In parte però la discesa deriva dalla spirale di aspettative che si è creata nella mente dei consumatori: immaginando che i prezzi siano destinati a scendere ancora, molti tendono a rinviare gli acquisti, per di più se un’economia con il fiato grosso fa temere di perdere il posto di lavoro o di avere in prospettiva minori disponibilità economiche. Ed è questo che sembra avvenire in Italia: l’Istat calcola che nel primo trimestre 2016, stando ai dati più aggiornati, l’aumento dello 0,8 per cento del reddito disponibile dei cittadini è andato per intero in maggiori risparmi, non in consumi.
il caso giapponese
Come detto, non è un problema solo dell’Italia o di altri Paesi europei. L’esempio più citato è quello del Giappone, un Paese in deflazione ormai dagli anni Novanta. Basta un dato per descrivere la gravità della crisi: nel 2015 il Pil giapponese era allo stesso livello di vent’anni fa, mentre quello americano da allora è cresciuto complessivamente del 134 per cento. Le autorità di Tokyo hanno tentato di tutto per trasferire liquidità al sistema industriale. Il premier Shinzo Abe ne ha fatto una specie di bandiera, varando nel 2012 quella che è stata definita "Abenomics": stimoli monetari, vantaggi fiscali per chi investe, riforme strutturali. I risultati sono stati così così. Le aziende continuano ad accumulare una liquidità enorme. Si calcola che, nonostante la Banca del Giappone si sia spinta ad acquistare persino quote di fondi azionari, nei bilanci delle industrie nipponiche siano custoditi cash e altri beni liquidi per 9.500 miliardi di dollari; denari che, evidentemente, gli imprenditori ritengono più conveniente preservare piuttosto che investire nella produzione e nel business. Qualche risultato la Abenomics lo ha ottenuto: anche se i prezzi nel complesso continuano a scendere, se si guardano quelli al netto di benzina e elettricità - che risentono appunto del calo del petrolio - sono ormai 32 mesi che si può osservare una modesta ma progressiva ripresa. E ancora: nei primi mesi del 2016 il Pil è cresciuto dell’1,9 per cento rispetto a un anno prima. L’inversione di rotta che Abe sperava di imporre resta lontana ma, se si confronta la situazione con il buio degli anni passati, ha scritto il settimanale "The Economist", si può sperare che i risultati della Abenomics possano farsi nel tempo più evidenti, soprattutto se il premier giapponese avrà la forza di portare a termine le riforme avviate.
In Europa va detto che la manovra decisa dalla Banca centrale europea all’inizio del 2015 non aveva solo una logica di rilancio economico. L’area euro era reduce da un lacerante periodo di scontri su come affrontare la crisi che aveva travolto i titoli del debito pubblico dei Paesi più a rischio, seguita al fallimento della Grecia. Mario Draghi aveva opposto il primo argine al rischio di un dissolvimento della moneta unica con la famosa frase sul fatto che per salvare l’euro la Bce avrebbe fatto «whatever it takes», «tutto quel che serve», pronunciata il 26 luglio 2012 a Londra. Poi, però, dalle parole era necessario passare ai fatti e il "quantitative easing", avviato nel corso del 2015, ha avuto l’effetto di far convergere verso zero il rendimento dei titoli pubblici di tutti gli Stati, non soltanto della Germania, come si può vedere dalla figura di pagina 25.

wall street da record
Tuttavia, se Draghi ha salvato l’euro dall’implosione, i timidi segnali di ripresa in arrivo dal Giappone dopo tanti anni di vacche magre e i deboli dati della ripresa europea non cambiano la valutazione complessiva delle politiche di allentamento monetario. L’ingente liquidità immessa dalle banche centrali ha certamente infiammato le Borse, soprattutto Wall Street, che in un contesto di grande incertezza globale è riuscita comunque a strappare un record dopo l’altro. E, soprattutto, ha favorito l’accumulo di titoli di Stato o altre attività finanziarie che le banche centrali rastrellano sul mercato, come racconta Vittorio Malagutti a pagina 24. L’economia reale, però, finora non ne ha beneficiato se non in misura ridotta. Dice Andrea Terzi, professore di Economia monetaria all’Università Cattolica di Milano, che «il perdurare della stagnazione della domanda ha messo in crisi, a partire dal 2008, i modelli economici che vedono la politica monetaria come l’unico strumento utile, basati sull’idea che la sola riduzione dei tassi abbia il poter di far ripartire la domanda e quindi l’economia».

La passione Usa per il deficit
Una controprova di questa analisi arriva dagli Stati Uniti, il Paese che sembrava aver reagito meglio agli stimoli monetari, decisi prontamente dalla banca centrale - la Federal Reserve, detta anche Fed - dopo la crisi del 2008. È vero che l’economia americana ha ripreso rapidamente a crescere e che la disoccupazione è stata riassorbita in modo altrettanto veloce, passando dal 10 per cento sfiorato nel 2009 a un livello poco inferiore al 5 per cento. Tuttavia anche negli Stati Uniti l’attuale tasso di crescita del Pil (+1,2 per cento annuo nel secondo trimestre del 2016) resta uno dei più bassi dal Dopoguerra in poi, a dispetto del fatto che la Fed, sotto la gestione dell’economista Janet Yellen, continui a rinviare la lieve stretta dei tassi annunciata da tempo e a prorogare le misure di liquidità in corso.
La miglior reazione alla crisi, a giudizio di Terzi, deriva dal fatto che il presidente Barack Obama ha coniugato gli stimoli monetari a quelli fiscali, approvando già nel 2009 un pacchetto di misure con una potenza di fuoco da 800 miliardi di dollari, pur spalmati nel tempo. Ovviamente il deficit del governo federale si è impennato, passando dal 72 per cento del Pil di fine 2008 al 105 per cento, ma gli effetti della ripresa si sono dimostrati più solidi. Il professore della Cattolica ritiene che l’osservazione di questi fenomeni stia producendo un cambiamento di opinione da parte degli economisti sul deficit di bilancio da parte dei governi, una volta considerato un tabù. E segnala in proposito un report pubblicato nel 2014 da due economisti della Fed stessa, Steve Sharpe e Gustavo Suarez, nel quale si sostiene che il livello dei tassi d’interesse non sembra essere il fattore più importante nel determinare le scelte d’investimento da parte delle imprese.
Anche se non brillantissima, la ripresa americana sembra poter dare un altro insegnamento all’Europa, dove il ritmo di crescita è ancora più modesto. Lorenzo Codogno, che tra il 2006 e il 2015 ha lavorato come capo economista al ministero dell’Economia ora insegna alla London School of Economics e dirige la ricerca economica in una società di consulenza chiamata Lc Macro Advisors, ritiene che a giocare contro l’Eurozona siano state la reazione troppo lenta alla crisi del 2008 e le diverse sensibilità politiche fra i vari governi dell’area. «A un certo punto, la Bce ha addirittura iniziato un percorso di rialzo dei tassi di interesse, ovviamente in modo intempestivo», spiega Codogno, secondo il quale «varie misure messe in campo all’inizio per contrastare la crisi si sono rivelate sbagliate. Mi riferisco in particolare al Securities Market Programme, con il quale la Bce acquistava titoli di Stato di Paesi che erano sotto la pressione dei mercati finanziari ma in modo condizionato e limitato. Questa è stata la ricetta per il disastro, in quanto ha probabilmente contribuito all’amplificarsi della crisi». Anche se poi, sotto la gestione di Draghi, la Banca centrale europea ha saputo prendere decisioni più coraggiose e condurre il salvataggio dell’euro, il ritardo accumulato e le divisioni fra i diversi governi hanno comunque impedito che sui presupposti positivi del "quantitative easing" si potesse costruire una ripresa più solida. Dice ancora l’economista della London School of Economics: «L’Europa è indietro con le riforme strutturali che sono necessarie per innalzare la crescita potenziale delle diverse economie. In alcuni Paesi, poi, nei periodi più acuti della crisi la politica fiscale è stata troppo restrittiva. Purtroppo è stata la governance fiscale dell’Eurozona a dell’Ue che non ha consentito l’agilità di manovra di cui invece altre aree valutarie hanno goduto».
Uscirne con l’elicottero?
Che cosa si può fare, allora? Le soluzioni non sono numerose. Uno dei punti più dibattuti sono gli effetti negativi del "quantitative easing", in particolare la redistribuzione di reddito che provoca fra chi ha un debito e chi invece ha investito in attività finanziarie. I primi ci guadagnano perché pagano meno interessi, basti guardare i mutui a tasso fisso super-vantaggiosi che molte banche offrono oggi. I secondi ci perdono perché, con i tassi a zero o addirittura sotto, i depositi in banca o i titoli di Stato non rendono più nulla. Codogno pensa però che, nel breve, uscirne non sarà facile: «È indubbio che i tassi negativi provochino effetti collaterali indesiderati. Tuttavia, non ci sono alternative e la Bce dovrà andare anche oltre. Le prossime mosse potrebbero comportare un’ulteriore accelerazione delle misure già in campo e un utilizzo ancora più aggressivo degli strumenti già sperimentati, prima di passare a qualcosa di più innovativo ma anche molto più controverso». Che cosa? Una delle ipotesi che circolano è chiamata "helicopter money": un’azione di salvataggio con cui, invece dei viveri lanciati ai sopravvissuti in un’area colpita da un disastro naturale, viene distribuito ai cittadini denaro contanti.
In maniera un po’ più precisa, vuol dire che la liquidità in arrivo dalla Bce andrebbe direttamente ai consumatori, saltando l’intermediazione delle banche. Può sembrare stravagante ma le declinazioni di quest’idea possono essere diverse: «Forse la più semplice, e probabilmente più efficace, è finanziare un aumento consistente della spesa pubblica, dalle infrastrutture agli investimenti immateriali come la preparazione universitaria. A questa azione dovrebbero abbinarsi riforme strutturali molto ambiziose per rendere l’ambiente imprenditoriale in condizione di recepire appieno gli stimoli di breve e trasformarli in effetti di medio e lungo periodo», pensa Codogno.

un po’ più di SPESA PUBBLICA, please
Si torna dunque lì, alla spesa e agli investimenti pubblici, una ricetta antica che nel processo d’integrazione europea sembrava diventata la farina del diavolo. Osserva Andrea Terzi: «Il problema è che la politica economica degli ultimi trent’anni si è dimenticata della politica fiscale, per due diversi motivi. Primo: in questi anni la domanda non è stata un problema, almeno fino a quando è stata sostenuta dal debito privato. Secondo: nel settore pubblico abbiamo vissuto una crescente e ingiustificata ossessione per il pareggio di bilancio».
L’esempio è ancora quello degli Stati Uniti, dove il deficit del governo federale ha raggiunto un picco del 12,6 per cento e non è masi sceso sotto l’8 per cento. Nella media europea, invece, ha superato la soglia del 3 per cento per soli quattro anni, con un picco del 6,3 per cento. Più debiti, più spesa pubblica? Detto oggi sembra un’eresia: «Il problema è politico. Per uscire da questa situazione bisogna recuperare uno strumento fiscale che negli anni Ottanta è stato annichilito per paura che sfuggisse di mano alla classe politica», sostiene Terzi.
Ridurre le tasse in maniera strutturale e avviare un largo programma di investimenti pubblici, infatti, sono strategie che richiedono un altissimo tasso di consapevolezza da parte di chi le utilizza, perché di lì a cadere in pezzi come ha fatto la Grecia è un attimo.
Ma il rischio opposto è fare la fine del guppo dei ciclisti delle Olimpiadi di Rio: fermi sui pedali mentre una minoranza di loro volava verso la medaglia.