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 2016  agosto 04 Giovedì calendario

MALA RAI

Viale Mazzini, la celebre statua equestre, la portineria, il lungo corridoio con le vetrate affacciate sul giardino, gli ascensori lucidissimi. Per capire le mille contraddizioni di una Rai investita dall’ennesima «stipendiopoli» si può partire da qui. Non dal settimo piano, però, quello occupato dalla dirigenza e dove si annidano molte delle buste paga superiori a 200 mila euro che hanno fatto indignare gli italiani. Bensì da qualche rampa di scale più in basso, al sesto. Qui ha sede l’Ufficio canone, diretto da Marco Zuppi, con i suoi 242 mila euro annui uno dei manager più pagati della tv di Stato. In Rai dal 2002, Zuppi è uomo di conti ed esperienza: ha lavorato a RaiTrade e all’audit interno e oggi coordina 130 persone, una cinquantina distribuite fra le sedi di Roma e Torino e altre 80 incaricate dei controlli sul territorio. La riscossione è invece affidata a Equitalia. In ogni caso è difficile parlare di successo se un ufficio creato e lautamente retribuito per scovare i morosi del canone viaggi da sempre a tassi di evasione intorno al 30 per cento, tanto da costringere il governo a inserirne il pagamento nella bolletta elettrica.
«Sono poco più di otto euro al mese, meno di un caffè al giorno, il servizio pubblico vale questo sforzo» ha ripetuto in più sedi l’amministratore delegato Rai, Antonio Campo Dall’Orto, specificando che le risorse in più raggranellate grazie alla certezza del gettito saranno investite sul prodotto. Ma la coincidenza fra la prima tranche della gabella e la pubblicazione online di emolumenti e curricula ha scatenato la furia dell’abbonato contro la casa di vetro voluta dall’esecutivo. Lo stesso esecutivo che prima si è fatto scudo del provvedimento che fissava a 240 mila euro il tetto retributivo e poi ha fatto spallucce di fronte ai vari escamotage con la quale la legge veniva aggirata. Risultato: gli stipendi fuori fascia sono ormai oltre una trentina, mentre quelli al di sopra dei 200 mila euro sfiorano il centinaio. Si va dai 652 mila euro dello stesso Campo Dall’Orto ai 270 mila della presidente Monica Maggioni, cui vanno aggiunti gettoni per altri 66 mila. E poi il direttore del Tg1 Mario Orfeo (320 mila euro), gli ex direttori di Tg2 e Tg3, Marcello Masi e Bianca Berlinguer (280 mila euro a testa), il presidente di Rai Pubblicità Antonio Marano (390 mila euro) e via a seguire.
Le toppe cucite dall’amministratore delegato si sono rivelate peggiori del buco. Prima ha dichiarato che il compenso è pari a quello del suo predecessore, dimenticandosi che proprio Luigi Gubitosi fu il primo a tagliarsi l’emolumento da 652 a 240 mila. Poi ha risposto picche alla richiesta di pubblicare anche i cachet di star e artisti paventando rischi legati alla competizione con le tv private, e dunque ammettendo implicitamente che le buste paga di giornalisti e manager sono invece fuori mercato. Infine ha omesso di ricordare che a quasi tutte quelle buste paga andranno aggiunti, il prossimo anno, corposi bonus legati al raggiungimento di obiettivi non ancora resi noti. Secondo quanto risulta a Panorama, le cifre potrebbero lievitare fra il 13 e il 22 per cento.
Su questi punti vuole vederci chiaro anche l’Antitrust, che lo scorso febbraio ha sollevato dubbi (alcuni dei quali girati alla Corte dei Conti) sulla correttezza di una gestione ibrida e dunque potenzialmente distorsiva della concorrenza, perché persegue anche obiettivi commerciali pur essendo finanziata al 54 per cento da un’imposta. Il canone, appunto. Mentre l’Anac, l’autorità anticorruzione di Raffaele Cantone, pretende di sapere se la recente infornata di manager, giornalisti e collaboratori abbia seguito le disposizioni in materia: sono stati rispettati i tetti fissati per gli ingaggi dall’esterno?
È stata vagliata prima la disponibilità di risorse interne? I sindacati sostengono di no, e i profili di alcuni nuovi arrivati sembrano dare loro ragione. Un esempio? Il nuovo capo staff della direzione generale Guido Rossi, già in Mtv con Campo Dall’Orto e in precedenza dipendente del Pd a Bologna, indica tra le referenze lo stesso a.d., insieme al sottosegretario di Palazzo Chigi Luca Lotti, al sindaco di Rimini Andrea Gnassi e al deputato e membro della Vigilanza Rai Vinicio Peluffo, tutti Pd. Non male per una dirigenza che doveva incarnare la nuova Rai apartitica.
Dall’inizio dell’era Campo Dall’Orto, gli ingressi sono già stati 24. C’è il responsabile dell’informazione Carlo Verdelli (320 mila euro annui), che ha chiesto di essere affiancato, per le «strategie di offerta informativa», dalla firma di Repubblica (in pensione) Francesco Merlo, che ha una consulenza da 240 mila euro. Ci sono le nuove direttrici di Rai 2 e Rai 3 Ilaria Dallatana e Daria Bignardi (300 mila euro a testa). C’è Paolo Galletti, responsabile risorse umane, preso da Accenture a 360 mila euro l’anno. C’è il direttore dello sport, l’ex Vanity Fair Gabriele Romagnoli (230 mila), che può godersi cinque vice e l’arrivo imminente dell’opinionista Mario Sconcerti, ex Sky. Sempre dal satellite arriva Gianluca Semprini, assunto per condurre Ballarò come caporedattore a tempo indeterminato a RaiNews24. Lo shopping di viale Mazzini, come rivela a Panorama una fonte, stava per proseguire con l’ingaggio della conduttrice Gaia Tortora da La7 e almeno due dirigenti di Discovery, ma le polemiche hanno indotto Campo Dall’Orto a soprassedere.
Del resto, 11.800 dipendenti sembrano già una cifra ragguardevole, più di Mediaset, La7 e Sky messe assieme. Confronto impietoso anche per i giornalisti: 1.700 in Rai, 337 a Cologno, 352 nella pay tv di Rupert Murdoch, un centinaio alla corte di Urbano Cairo. Eppure, secondo un report di Mediobanca, il costo del lavoro per unità di prodotto nel 2014 è stato pari al 67,6 per cento per Mediaset, al 74,6 per Sky e al 111,6 per la Rai: quindi chi lavora a Viale Mazzini costa più di quanto produce. Episodi come la copertura tardiva del disastro ferroviario in Puglia del 12 luglio o gli Europei di calcio, dove Sky ha giganteggiato nonostante una pattuglia di inviati più ridotta, sono la spia di una macchina informativa che non funziona a dovere. E che andrebbe snellita, modernizzata, efficientata.
Peccato che uno dei problemi della Rai sia il ricorso monstre ai tribunali del lavoro (è in causa quasi un dipendente su 9), che oltre a costare a viale Mazzini quasi 12 milioni di euro l’anno rende impossibile non solo licenziare, ma anche solo spostare i dipendenti ad altre funzioni. Tanti i casi celebri, fra risarcimenti d’oro e dirigenti «a disposizione» senza incarico. Ma ci sono anche episodi meno noti, come quello dell’ex corrispondente sorpreso a prelevare con il bancomat aziendale di cui aveva denunciato il furto: invece di licenziarlo, la Rai l’ha richiamato in patria cercando una transazione. Lui l’ha rifiutata, e adesso si gode i due anni che gli mancano alla pensione in un ufficio defilato. A pochi passi dai segugi del canone.