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 2016  luglio 24 Domenica calendario

«OGGI IL SESSO GIOIOSO È UN RICORDO SEPPELLITO DA FANTASIE SENZ’ANIMA» – [Intervista a Tinto Brass] – Tinto Brass ha 83 anni, ma preferisce aumentarsi l’età: “Quando me lo chiedono dico sempre che ne ho 84, dodici mesi in più o in meno, a questo punto, che differenza fanno?”

«OGGI IL SESSO GIOIOSO È UN RICORDO SEPPELLITO DA FANTASIE SENZ’ANIMA» – [Intervista a Tinto Brass] – Tinto Brass ha 83 anni, ma preferisce aumentarsi l’età: “Quando me lo chiedono dico sempre che ne ho 84, dodici mesi in più o in meno, a questo punto, che differenza fanno?”. Tinto Brass vive in campagna alle porte di Roma e ha una preoccupazione quasi testamentaria: “Ormai non si scopa più, è una certezza. La virtualità ha superato la realtà e la pornografia sul web ha appiattito ogni cosa. Il sesso gioioso, la libera chiavata e il libero incontro tra esseri umani è diventato un ricordo sepolto da fantasie di seconda mano impossibili da applicare. Dopo una vita intera dedicata all’argomento, non essere delusi è difficile”. In giardino, tra cartoni di pizza, cicale e fari appoggiati al porticato, una troupe di Cielo attende di intervistarlo per un ciclo di film che per 16 settimane da settembre, introdotto da Brass, porterà l’erotismo in prima serata. Giorni felici a Clichy di Chabrol, Il Diavolo in Corpo di Bellocchio, Le farò da padre di Lattuada e – ovviamente – i lavori di un veneziano del 1933 che partì da un desiderio e lo sparse per il mondo. Il primo istinto se lo ricorda? Vidi il pelo, nerissimo, mettendo la faccia sotto la gonna della camerierina che durante la guerra, ad Asolo, dove ci eravamo rifugiati, puliva insieme ad altre due ragazze la nostra casa. Avevo visto mio fratello toccare il seno a Emilia, si chiamava così e gli avevo chiesto cosa stesse facendo. E suo fratello cosa le rispose? Che faceva quel che si poteva fare. Mi adeguai. Grandi sbirciate, autoerotismo compulsivo e poi, finalmente, a guerra finita, i casini. Nella Venezia d’epoca c’era solo da scegliere. Ne esistevano 33, li conoscevo tutti ma alcuni, penso al Diana, mi erano interdetti. Non avevo abbastanza soldi ed ero considerato un cliente di serie B, ma al Diana c’erano le donne più belle di tutta la città e ne feci una questione d’onore. Come la risolse? Entrai, provarono a cacciarmi e cominciai a urlare che avevo i miei diritti anche io e che per farmi andare via avrebbero dovuto chiamare la forza pubblica. Agitata per lo scandalo e per le voci sulle scale arrivò di corsa la ruffiana. Aveva un tono padronale e la fece breve: “Entra, stai venti minuti e poi non ti far più vedere”. Diedi retta, feci una meravigliosa chiavata e poi uscii felice per infilarmi in un cinema. Sono sempre stato d’accordo con William Reich: “La vita ha un’unica finalità: essere vissuta”. Lei non si è fatto mancare niente. Mi sono divertito molto. Ora desidero e aspetto la morte con assoluta serenità. La desidera davvero? Sono pronto ad accoglierla. Se ci sarà ancora qualcosa da vedere la vedrò altrove. Ho pronta anche la frase per la lapide. Ai posteriori l’ardua sentenza. Non le mancherà la compagnia? Sono stato benissimo anche da solo. Senza rompicoglioni intorno si sta una meraviglia. Ne ha incontrati tanti? I critici, i bigotti, i censori. Credo di essere tra i registi più censurati del mondo. Certe critiche, certe stroncature erano una medaglia. Con Tinta, mia moglie Carla, le collezionavamo. Anche quelle rare. “Guarda – diceva – ti massacrano tutti, il film andrà benissimo”. Perché le critiche rare? Uscì un mio film, Action, proprio mentre i giornali scioperavano. L’unico ad andare in edicola fu Il Giorno dalle cui colonne Morando Morandini invitava a sopprimermi e a mettermi in condizione di non nuocere. Si divertì anche quella volta? Quella volta mi incazzai e risposi con una lettera di fuoco in cui lo accusavo di voler limitare la mia liberta di espressione. Più simpatico di Morandini, Nanni Moretti. Aveva detto del mio cinema cose tremende, ma cambiò idea e mi invitò a un dibattito torinese. Le femministe la vedevano come il diavolo. Una volta in Campania me la vidi brutta. Elvira Banotti aveva organizzato plotoni di femministe arrabbiatissime e al grido di “dàgli a Brass”, con striscioni, fischietti e tamburi. Tenevo un dibattito e l’aria si era fatta greve. A un certo punto Banotti salì sul palco e tentò di aggredirmi. Dalla platea le sue truppe tiravano ghiande e mi chiamavano maiale. Lei provocava. Dicevo soltanto che un bel culo di per sé è niente se non c’è qualcuno che te lo spinge avanti e loro si risentivano. “Offende la morale e la figura stessa della donna”, dicevano. Ma io la morale non so neanche cosa sia e per quanto ne so, le donne le ho sempre amate. E maiale si è mai sentito? Se per maiale si intende uno a cui il sesso è piaciuto, piace e piacerà per sempre, mi autodenuncio. Sono un maiale. In realtà credo che le fantasie le abbiamo tutti e che la maggioranza della gente le reprima con sforzi inumani. Bisognerebbe liberarsi. Lei lo ha fatto con il cinema? Mi sono soltanto ripromesso di portare sullo schermo la mia ossessione e la mia dipendenza perché non capivo come si potesse negare l’esistenza del piacere del sesso. Della gioia più grande dell’esistenza. Lo facevo due, tre, anche cinque volte al giorno. Raccontare con il cinema quella magia mi era indispensabile. Non tutti lo capivano. Venni convocato in tribunale da un pretore: “Brass, il suo film è indegno, lo rifaccia”. Si era ripromesso di portare sullo schermo la sua ossessione e alla fine aveva ossessionato gli altri. Ora non ci sono più le condizioni minime per pensare a un cinema erotico che arrivi al pubblico, ma per un certo tempo l’ho fatto e messo in scena senza freni. Perché non ci sono le condizioni minime? Perché il sesso sullo schermo è diventato una merce da poco. Vedo che in Rete si accoppiano come conigli, ma è tutto finto, senza emozione, freddo, lontano. Ovviamente noiosissimo. Non c’è più mediazione estetica. Lei era partito dal cinema colto. Da Rossellini e dalla Cinémathequé Francaise. E per certi strani versi, nel cinema d’autore sono ricapitato. Nel 2012 la Cinémathequé mi ha dedicato una grande rassegna. “Il più erotomane tra i cineasti, il più cineasta degli erotomani” mi definirono. E lei nella definizione si ritrovò? In pieno. Il cinema d’autore, quello che incitava alla rivoluzione e all’uomo nuovo, l’avevo rinnegato in fretta, dopo il mio primo film. Non c’è rivolgimento – avevo capito – che non porti alla sostituzione di un potere costituito con un altro potere costituito. Cambiavano solo le insegne, il sangue a terra rimaneva comunque. L’unica rivoluzione che non ho rinnegato è quella sessuale. Non ha mai avuto nessun pentimento? Mai. Sono stato un regista che curava l’immagine. Gli altri urlavano di voler cambiare il mondo, a me era sufficiente provare a renderlo un luogo più lieto. Nel 1964 girò Il Disco volante con Alberto Sordi e Monica Vitti immaginando un’invasione aliena in Veneto. Forse non sono andato poi troppo lontano dalla realtà. Il produttore del film era Dino De Laurentiis. Un uomo fondamentale per la mia formazione. Facevamo lunghe passeggiate nella sua tenuta e Dino voleva veramente che facessi il mio film senza condizionamenti. Alla fine, incassi a parte, fu soddisfatto. Il disco volante gli piacque, al pubblico un po’ meno. Con Dino conobbi anche Silvana Mangano. Meravigliosa. Veniva ad aprire con una vestaglia regale, trasparente, stupenda. Ogni tanto le telefonavo: “Silvana, sono un grande regista anch’io”. Le proposi anche di recitare per me, invano. La storia era quella di un masturbatore che non riusciva a frenare il proprio desiderio di toccarsi. E la Mangano cosa le rispose? Che non ci pensava neanche lontanamente, ma che mi avrebbe messo in contatto con Nureyev, da sempre considerato iperdotato o giù di lì. Silvana era convinta che lo dovessi assolutamente incontrare: “Devi andarlo a trovare a Parigi, dovete passare qualche ora insieme”. Quindi volo in Francia, assisto alle prove e poi vado a cena a casa di Nureyev. Una bicocca molto bohémienne, molto intima, quasi uno scannatoio. Parlammo a lungo e ci promettiamo fortunate collaborazioni: “Ci vediamo presto”. Non ci siamo visti mai più. È la precarietà del cinema? È la regola del cinema. I piani saltano, le sceneggiature cambiano in corsa, i produttori fuggono. Lei provò a convincere Sophia Loren e persino Gianni Agnelli a recitare per lei. Non sono sicuro che Sophia non avrebbe accettato, ma Carlo Ponti, suo marito, grande produttore, fu categorico: “Ma sei impazzito, Tinto? Ma che hai lo sperma nel cervello?”. E con l’Avvocato? Aveva fama di grande amatore. Inoltrai richiesta ufficiale perché partecipasse a L’uomo che guarda. In fondo era tratto da Moravia. Mi rispose la segretaria: “Il dottore è molto impegnato”. Dal set di Caligola, Maria Schneider se la diede a gambe levate. La cacciai io che l’avevo scelta e corteggiata per mesi. L’avevo incontrata per la prima volta proprio a Parigi, dove aveva girato Ultimo Tango, il film che si diceva le avesse cambiato – e non in meglio – la vita. A me Ultimo Tango a Parigi era piaciuto e mi era piaciuta anche lei. Quindi? Quindi le proposi la parte, ottenni il suo assenso entusiastico e il primo giorno di riprese – avremmo dovuto girare la scena del funerale di un senatore – la vidi arrivare con la stola che le avevo fatto preparare cucita all’altezza della caviglia. Non mostrava un solo centimetro di pelle. Non capivo. Provai sorpresa e insofferenza: “Ma che hai fatto?”. Lei cominciò una tirata assurda: “Non posso mostrare le mie forme, non mi sta bene”. Litigammo per un’ora e poi le indicai la porta. Mai più vista neanche lei. Il film si interruppe per due giorni e poi trovammo Teresa Ann Savoy. L’avevo già avuta in Salon Kitty. Si dimostrò fantastica, anche quella volta. Non sempre ha avuto rapporti sereni con le sue attrici. Non mi piacevano le furbette. Quelle che dicevano sì e poi si ritraevano per non so quale senso del pudore. Io le avrei volute tutte come Stefania Sandrelli, le mie attrici. Con lei Sandrelli come protagonista girò La Chiave. Andiamo alla prima, si accendono le luci in sala, mi giro e non la vedo più. “Le ha fatto orrore”, penso e il giorno dopo apro i giornali con un senso di inquietudine. Ci sono le dichiarazioni di Stefania: “Ho imparato a recitare anche con il culo”. Fu spiritosissima. Adorabile. Lei dal culo è ossessionato. Per l’editore Pironti anni fa scrissi un elogio del culo. A differenza della faccia il culo non mente e non inganna. È molto più etico. Per anni ho provinato più culi che facce, non sa quante volte si sono dimostrati più affidabili e veritieri dei curricula e degli sguardi. Come crede che sarà ricordato tra qualche anno? Non lo so e non me lo chiedo neanche. So però come sono stato considerato. E come è stato considerato? Un anomalo, un matto, un regista molto strano. Non mi dispiace, ci sono registi considerati molto strani che amo moltissimo. Qualche nome? Uno è Chabrol. In questo ciclo di Cielo presentano Giorni felici a Clichy, un film straordinario. Chabrol mi è sempre piaciuto perché senza rinunciare alla poesia non lavorava di ellissi. Se doveva riprendere un cazzo, non spostava la macchina da presa. Lo metteva in primo piano. Mostrava il sesso in tutta la sua grandezza. Lei era molto amico di Michelangelo Antonioni. Amico fraterno. Veniva qui ogni fine settimana. Ci sedevamo sotto gli alberi e mangiavamo la frutta. Michelangelo aveva apprezzato Chi lavora è perduto ed era stato a lungo sul set, ma al di là di qualche consiglio estemporaneo del nostro cinema non parlavamo quasi mai. La vera amicizia è quella che non ha a che fare con il lavoro. Quella non inquinata, non attraversata dall’interesse. Ha avuto molti amici nel cinema? Qualcuno, quelli giusti, anche tra i registi. Ponevo un solo limite. Quale? Ero amico di quelli che sullo schermo e nella vita vera non si autocensuravano. Erano tanti? Se devo dire due nomi dico Rossellini e Antonioni. Erano pochi, ma mi bastavano. Poi c’era Tinta, come oggi c’è Caterina. Ho sempre avuto donne importanti al mio fianco nella vita. Sono state un regalo. Una benedizione. Caterina Varzi, la sua attuale compagna e Tinta, Carla Cipriani, sorella di Arrigo, il fondatore dell’Harry’s Bar. La conobbi proprio lì e la invitai al cinema a vedere Chaplin. Lei si aspettava un bacio, io avevo gli occhi fissi sullo schermo. Ci rifacemmo. La sposai a Venezia nel 1957. Con lei sono stati decenni molto felici. La vera trasgressiva tra noi due, era lei. La più allegra tra noi due, era lei. di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 24/7/2016