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 2016  luglio 23 Sabato calendario

APPUNTI APERTURA – Siamo davanti a gesti di folli, matti Hanno solo giacche diverse, tutto il resto è uguale l’islamismo radicale in questi casi è marginale: fare la fila degli ultimi attentatori/lupi solitari: non uno era un musulmano osservante Ai matti è stata data una nuova narrazione: il matto adesso spara Bisogna rassegnarsi a convivere con la morte Non sono attacchi o gesti prevedibili in nessun modo: possiamo anche nuovi apparati di sicurezza e mantenere il massimo allarme, ma è inutile, non lo fermeremo mai E la ripetitività di questi gesti può portare solo alla loro insignificanza, a perdere senso mediatico (come i decapitati dall’isis) L’occidente non rinuncerà alla democrazia per colpa degli attentati

APPUNTI APERTURA – Siamo davanti a gesti di folli, matti Hanno solo giacche diverse, tutto il resto è uguale l’islamismo radicale in questi casi è marginale: fare la fila degli ultimi attentatori/lupi solitari: non uno era un musulmano osservante Ai matti è stata data una nuova narrazione: il matto adesso spara Bisogna rassegnarsi a convivere con la morte Non sono attacchi o gesti prevedibili in nessun modo: possiamo anche nuovi apparati di sicurezza e mantenere il massimo allarme, ma è inutile, non lo fermeremo mai E la ripetitività di questi gesti può portare solo alla loro insignificanza, a perdere senso mediatico (come i decapitati dall’isis) L’occidente non rinuncerà alla democrazia per colpa degli attentati. E un isolamento dei musulmani in europa è impossibile perché sono milioni, fanno parte del tessuto moderno di una società irrivesibilmente multiculturale Gli attentati non portano all’Isis nulla di concreto nella costruzione di una dittatura di un califfato. L’isis è perdente per definizione (ridicolo poter credere che la bandiera dell’isis possa sventolare su san pietro) *** Non esiste nessuna possibilità di prevenire i lupi solitari. D’altra parte negli Stati Uniti i lupi solitari (Columbine ecc.) esistono da un pezzo. I mean: l’Islam è solo un pretesto. Quindi: abituiamoci a convivere con la possibilità di essere ammazzati in una qualunque sera in un qualunque ristorante, esattamente come ci siamo abituati all’idea che ogni anno, nell’indifferenza generale, muoiano in macchina 3-4.000 persone. Fidiamo nel fatto che la ripetitività del massacro gli tolga forza mediatica, quindi significato. Come tutti i fenomeni di moda, verrà a sbiadire anche questo. Io non m’affannerei neanche troppo nelle misure di sicurezza *** ILPOST.IT 23/7 – Nel pomeriggio di venerdì 22 luglio un ragazzo di 18 anni ha sparato contro la gente che si trovava nel centro commerciale Olympia-Einkaufszentrum a Monaco di Baviera, in Germania. Nove persone sono morte e 21 sono state ferite: fra queste, 16 si trovano ancora in ospedale, e tre sono ferite gravemente. Lo sparatore, un ragazzo tedesco di origine iraniana residente a Monaco, si è suicidato dopo l’attacco e la polizia ha trovato il suo corpo a circa un chilometro dal luogo dei primi spari, avvenuti davanti a un McDonald’s vicino al centro commerciale. Dopo la sparatoria sono intervenuti circa 2.300 poliziotti, tra cui membri dell’unità speciale tedesca GSG9. Monaco di Baviera è la terza città più popolosa della Germania, dopo Berlino e Amburgo. *** FRANCO VENTURINI, CORRIERE DELLA SERA 17/7 – La strage della Promenade ci invita peraltro a riflettere meglio sulla natura dei cosiddetti lupi solitari. Ha veramente importanza la rivendicazione compiuta ieri dall’Isis? Forse no, perché a Nizza sussistono troppi dubbi e la vera sfida diventa allora quella di riuscire a identificare il nemico. Il lupo, certo, può essere un terrorista dormiente addestrato in Siria. Ma può anche essere, ed è questa la minaccia più grave, un qualsiasi musulmano con problemi psichici, oppure depresso da un matrimonio finito male, oppure propenso all’assunzione di droghe, oppure perfettamente normale ma pieno di rabbia per le sue condizioni di vita, che trova nella ideologia apocalittica dell’Isis e nella sua propaganda multimediale un punto di riferimento e una apparente via d’uscita. Senza ricevere ordini da Raqqa, che ha poi comunque interesse ad etichettarlo. *** SARA GANFOLFI, CORRIERE DELLA SERA 23/7 –  È una linea labile quella tra la pazzia e il fanatismo. Un confine che l’assassino di Nizza e gli altri attentatori hanno attraversato più volte. «Non sono pazzi in base ai canoni della psicanalisi classica, altrimenti si potrebbero curare. Soffrono di una follia collettiva: è ciò che io definisco il discorso fanatico». Gérard Haddad, tunisino di fede ebraica, è uno psichiatra che vive a Parigi e ha studiato a fondo il fenomeno, cui ha dedicato Dans la main droite de Dieu, psychanalyse du fanatisme , saggio presto tradotto in arabo. In che senso follia collettiva? «Il fanatismo è l’incontro fra un’ideologia e individui con personalità definite. In quel discorso trovano ragioni per vivere e morire». Chi sono i soggetti più inclini oggi? «Il fanatismo attira personalità deboli, vittime di un narcisismo esagerato, malato. Uomini lasciati dalle mogli, come l’uomo di Nizza, o cresciuti senza genitori, come i fratelli Kouachi dell’attacco a Charlie Hebdo». Malati di narcisismo? «Anche la psicosi è una malattia narcisista. Sono persone spesso ferite e chiuse che incontrano l’ideologia e lì trovano il riscatto». La chiamano radicalizzazione… «Io preferisco il termine conversione. Freud per primo parlò di “conversione isterica”». Esiste una cura? È possibile prevenire? «È difficile. L’unico momento in cui si può tentare un intervento è nella fase di conversione, che non è fulminea». Perché l’Islam? «La religione non c’entra. Anche l’ideologia nazista era una pazzia di massa. Oggi colpisce l’Islam perché l’Islam non riesce ad adattarsi alla modernità». Sara Gandolfi *** STEFANO MONTEFIORI, CORRIERE DELLA SERA 17/7 – Mohamed Bouhlel non andava mai in moschea. L’uomo che si è lanciato con un Tir sulla folla del 14 luglio beveva alcol, era depresso e picchiava la moglie, il padre in Tunisia dice che era pazzo. Ma le autorità francesi parlano di attentato islamista, e l’Isis ieri lo ha rivendicato. Quindi gli 84 morti di Nizza sono l’opera di un folle, un attacco dello Stato islamico, o entrambe le cose? Il grande orientalista francese Olivier Roy da tempo sostiene la tesi di una «islamizzazione del radicalismo»: secondo lui persone disadattate, nichiliste o squilibrate finiscono per abbracciare la causa jihadista perché «è oggi l’unica davvero radicale sul mercato», quella che garantisce il maggiore grado di rifiuto del mondo. Professor Roy, il ministro Cazeneuve dice che l’assassino «si è radicalizzato molto rapidamente». Questo conferma la sua tesi? «Mi pare di sì. Bouhlel è un musulmano non praticante, non politicizzato, con una personalità disturbata, condannato per atti di violenza. Poi, bruscamente, commette un attentato legato all’Isis, sceglie di inscrivere la sua violenza nella narrativa dello Stato islamico. Sono convinto che la sera del 14 luglio pensasse di andare in paradiso, come appunto un martire islamista. Ma non è alla fine di una traiettoria religiosa che è passato al terrorismo. Chi commette questi attentati non ha alle spalle una vita di stretta osservanza religiosa». È questo il tratto che accomuna l’attentatore di Nizza a quelli di Parigi e Bruxelles? «Sì, queste persone di solito passano alla violenza terroristica molto rapidamente e senza che il loro entourage se ne renda conto. Conducono una vita più o meno normale fino a poco prima dell’attentato. A gennaio 2015 i fratelli Abdeslam vanno in discoteca, nell’agosto 2015 uno dei due si fa vedere armato su Facebook, a novembre fanno l’attentato di Parigi. I motivi possono essere vari, nel caso di Nizza c’è la componente psichiatrica, ma il punto comune è questo: non sono diventati terroristi in seguito a una radicalizzazione della loro pratica religiosa. Semmai accade il contrario: l’improvvisa islamizzazione del loro disastro personale». La sua tesi viene sospettata di sminuire il ruolo della religione. Pensa che l’Islam non c’entri con gli attentati? «Niente affatto, non ho mai detto che la religione non ha niente a che vedere con gli attentati. Dico che non è il salafismo, l’integralismo islamico, che porta al terrorismo jihadista. Provoca altri problemi: per esempio rende complicato il vivere insieme, e i salafiti sbagliano a non esprimersi chiaramente quando ci sono attentati. Ma di solito non è tra le loro file che troviamo i terroristi». Se il terrorismo deriva da una islamizzazione di problemi vari, la minaccia è più grave? «Proprio così, perché diventa davvero complicato individuare i possibili terroristi. Non tutti i terroristi sono pazzi, ovviamente, ma qualsiasi pazzo oggi può ispirarsi all’Isis e improvvisarsi suo soldato. Una volta i matti pensavano di essere Napoleone, oggi pensano di essere l’Isis. Lo Stato islamico fornisce loro la copertura ideologica e l’incitamento ad agire. L’Isis è in grado di organizzare attentati complessi, ma è capace anche di accontentare chi vuole suicidarsi finendo in prima pagina». Perché il bersaglio in Europa continua a essere la Francia? «Perché in Francia c’è la riserva di radicalizzazione più elevata. Per ragioni complesse. Alcuni esperti americani (William McCants e Christopher Meserole nell’articolo “The French Connection”, ndr ) ipotizzano una correlazione tra terrorismo e francofonia. In effetti, anche nei Paesi dove l’immigrazione musulmana è in maggioranza turca, come per esempio Germania o Olanda, sono soprattutto i maghrebini a darsi al terrorismo. L’Isis colpisce più di frequente la Francia perché qui è più facile, ha più “personale” a disposizione». Perché gli immigrati di origine maghrebina sarebbero più esposti al rischio di cadere nel terrorismo? «La mia teoria è che il passaggio alla violenza sia favorito dalla crescente divaricazione tra religione e cultura. E l’impoverimento culturale della religione è massimo nei maghrebini, divisi tra un’élite che padroneggia arabo e francese e gli altri che magari parlano francese, ma in quel caso sono tagliati fuori dalla trasmissione religiosa. I figli dei maghrebini arrivati in Europa negli anni Cinquanta non riescono a parlare ai loro nonni, non conoscono l’islam tradizionale, perché non usano più la stessa lingua. Credo che questo sia un fattore di violenza». L’accento posto dalla Francia sulla laicità, il divieto del velo nelle scuole, secondo lei gioca un ruolo? «Quelli che commettono attentati non hanno rivendicazioni precise contro la Francia, non si preoccupano del velo, della parità uomo-donna. A mio parere non è questo il punto». *** GUIDO OLIMPIO, CORRIERE DELLA SERA 23/7 – È la lunga estate dell’odio. In poche settimane, dagli Stati Uniti all’Europa, abbiamo assistito ad una serie di attacchi. L’ultimo a Monaco di Baviera. Alcuni attentati erano legati ai jihadisti, altri alle tensioni razziali. A volte le motivazioni politiche si sono mescolate a quelle personali. Lo sparatore di massa imita il guerrigliero, spesso si confondono. La sintesi è brutale: troppe minacce contro la nostra società. L’Isis, il neonazista, il folle, il veterano in lotta con la polizia, il disturbato che prende in prestito una causa politica o neppure quella. [...] Omar Mateen ha colpito un night club gay di Orlando, in Florida. Ha agito in nome dell’Isis, ha rivelato una personalità complessa, ha dimostrato una grande determinazione nel condurre il suo piano. Il punto d’unione tra il terrorista islamista e lo stragista americano. Dagli Usa al Bangladesh, Dacca. Un gruppo di militanti ha preso in ostaggio i clienti — tra cui molti italiani — di un ristorante. Ecco il modus operandi visto a Parigi, con i locali pubblici devastati e i prigionieri nelle mani dei terroristi. [...] Mohammed Bouhlel, tunisino, ha fatto strage sulla Promenade des Anglais a Nizza, il 14 luglio. Ha impiegato un’arma «semplice»: un camion da 19 tonnellate. Tattica consigliata dai leader dell’Isis ai simpatizzanti quando non sono in grado di avere mitra o esplosivi. Un’operazione condotta in modo individuale ma sostenuta da una rete di complici sulla quale si indaga. Lo Stato Islamico ha apposto il suo marchio. *** PAOLO VALENTINO, CORRIERE DELLA SERA 23/7 – La Francia di fronte all’offensiva del terrorismo ha proclamato lo stato di emergenza nazionale e indurito le sue leggi sulla sicurezza. In Germania, in ragione della sua storia, questo sarebbe più problematico? «Non credo. Le ricordo che nella seconda metà degli Anni Settanta, di fronte all’attacco criminale contro lo Stato della Rote Armee Fraktion, un cancelliere socialdemocratico, Helmut Schmidt, combatté con pugno di ferro e leggi eccezionali il terrorismo brigatista. E in nome della ragion di Stato non esitò a sacrificare la vita del capo degli imprenditori tedeschi, rifiutando di trattare. Il governo tedesco saprà reagire, mi auguro soltanto che lo faccia in modo più trasparente ed efficace di quello francese» (Giovanni di Lorenzo, direttore del settimanale Die Zeit). *** ANDREA RICCARDI, CORRIERE DELLA SERA 23/7 – Ci sono due problematiche distinte, anche se connesse. C’è il totalitarismo di Daesh con insediamenti territoriali, ramificazioni e la sua propaganda, che si sviluppa in un mondo islamico carico di contraddizioni e divisioni (e con tanti morti musulmani per il terrorismo). D’altra parte, si profilano in Europa i radicali, i folli, gli antisistema, pronti a fare tanto male, che vivono tra di noi. Colpendo Daesh si fa una guerra in Medio Oriente. [...] Si deve tener conto della fragilità delle nostre società, con aree periferiche fuori controllo, sconnesse dalla vita sociale e comunitaria. Oltre al lavoro d’intelligence e polizia, ci sono vasti spazi sociali da «riconquistare» a un senso condiviso di destino nazionale e da strappare a derive nichilistiche. Si pensi alla banlieu francese, a Molenbeek, il quartiere di Bruxelles dove nascono i terroristi, o a tante periferie «umane» a rischio anche in Italia. Va tenuto conto — il Corriere l’ha mostrato — che il nichilismo di gente antisistema si radicalizza attraverso internet e i social, costituendo ghetti mentali pericolosi. [...] Il rapporto di Europol sul terrorismo per il 2015 afferma che non c’è prova che i rifugiati siano un veicolo di terroristi: una tematica sbandierata dai populisti. Registra invece l’esistenza di circa 5.000 foreign fighter europei. Soprattutto osserva come il 35% dei «lupi solitari» (tra il 2010 e il 2015) abbia sofferto di disturbi mentali. Si spiegano anche così le rapide o solitarie conversioni alla violenza, ma anche le azioni folli di esibizione del terrore senza logica politica. Il problema è nelle nostre società, specie tra i giovani e chi ha un’ascendenza musulmana, dove l’islamismo agisce come spiegazione onnicomprensiva e ideologia dell’odio. È inutile vedere tutto provocato da oltremare. Il nichilismo serpeggia tra di noi. Lo si nota tra gli ultrà o negli attentati alle chiese a Fermo. *** GIAN ANTONIO STELLA, CORRIERE DELLA SERA 23/7 – «Chiunque può superare una crisi:è il quotidiano che ti logora», scriveva un secolo fa Anton Cechov. Ed è lì che il ripetersi e poi il ripetersi e poi il ripetersi ancora di attentati infetta le nostre vite iniettando insicurezza, affanno, paura. E più le armi sono diverse, il coltello, la pistola, il kalashnikov, il camion lanciato a tutta velocità a travolgere coppiette di pensionati e famigliole coi figlioletti sui passeggini, più monta l’inquietudine. La profanazione della nostra quotidianità. Ecco ciò che stiamo vivendo, noi europei. [...] È meno duro assorbire nel tempo un trauma spaventoso ma in qualche modo raro (un terremoto, lo schianto di un aereo contro la montagna, perfino l’apocalisse irripetibile delle Torri Gemelle) che non lo sgocciolio quotidiano di eventi che ci tolgono il fiato e finiscono per ricordarci la nostra fragilità. Torna in mente il famosissimo sermone del pastore Martin Niemöller poi attribuito anche a Bertold Brecht: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare». [...] Neanche il tempo di capire cosa fosse davvero successo sul lungomare nizzardo ed ecco, a distanza di una manciata di ore, il giovanissimo profugo afghano o forse pachistano che irrompe con un’ascia su un treno regionale tra Ochsenfurt e Würzburg, in Baviera, e si avventa sui pendolari ferendone gravemente cinque al grido di «Allah Akbar!» prima di essere abbattuto dalla polizia ed essere incensato da Amaq News, la sedicente agenzia di stampa del Califfato. [...] Cosa fare? Se ne è parlato moltissimo, in questi giorni. Più vigilanza, più poliziotti nei quartieri, più attenzione ai siti internet che arruolano i disperati e offrono un infame «riscatto» ai criminali, più telecamere, più sermoni in italiano nelle moschee, più controlli sui barconi eccetera eccetera. Tutto vero. Tutto giusto. Ma più ancora è importante avere la consapevolezza, vigile ma non isterica, che può accadere anche da noi. Ed essere, tutti noi, più presenti. Fare finta che possa capitare solo agli altri o peggio ancora sfiorare il cornetto di corallo in tasca, antica tentazione nostrana, non è solo inutile. È autolesionista. *** PAOLO LEVI, LA STAMPA 23/7 – Intanto il presidente francese François Hollande ha fatto sapere che saranno schierati entro fine luglio 15mila riservisti. Per placare l’angoscia di francesi e turisti in vacanza verrà inoltre portato a diecimila il numero di militari schierati a presidio di manifestazioni e rassegne estive. Nel Paese sull’orlo della crisi di nervi in seguito alla terza strage di massa in 18 mesi, si moltiplicano le denunce di atti islamofobi. *** GIANLUCA DI FEO, LA REPUBBLICA 23/7 – Non serve il terrorismo per gettare nel panico un continente che da anni si trova a convivere con una catena inesauribile di attentati. Ormai la paura è dentro di noi, testimoniando come la campagna di morte globale lanciata dal Califfo di Mosul sia entrata in profondità nella nostra quotidianità. Il verbo jihadista si è diffuso ovunque, amalgamando fondamentalismo e rancore per costruire gruppi organizzati come quelli che hanno colpito a Parigi e a Bruxelles, oppure indirizzando l’instabilità o la fragilità psichica di singoli verso i propri obiettivi, come è accaduto sulla promenade di Nizza e sul treno di Wurzburg. Ci siamo rassegnati alla minaccia che può colpire ovunque e chiunque, dallo stadio di calcio al supermarket, dall’aeroporto alla fermata della metropolitana, dallo spettacolo della festa al concerto, dal museo alla spiaggia. Una paura antica, che è esplosa con i vagoni di Madrid nel 2003, è proseguita due anni dopo con le bombe di Londra e si è intensificata con un ritmo esponenziale dopo la creazione dello Stato islamico. Neppure i soldati in assetto di guerra schierati nelle città riescono a trasmettere sicurezza. E ieri a Monaco questo sentimento che ci accompagna sempre si è trasformato in un panico mai visto prima in Europa. [...] Mai come questi giorni l’intelligence internazionale è sotto scacco. Perché le indagini sulla strage di Nizza hanno svelato che il piano del massacro veniva preparato da mesi, senza che le autorità francesi ne sapessero nulla. E persino il ragazzino immigrato che lunedì si è lanciato sui viaggiatori di un treno bavarese con un’accetta è riuscito a mandare prima il suo video alle centrali del Califfato. Insomma, ci sono reti jihadiste attive ovun- que che riescono a trasformare la pazzia in terrorismo. E la reazione delle autorità bavaresi invece di isolare il pericolo ha allargato le dimensioni del panico, trasmettendo allarmi crescenti e infondati, invitando una metropoli e una regione a barricarsi in casa. E’ stata una pessima prova. Gli esperti hanno spesso sottolineato come il sistema tedesco sia inadatto a fronteggiare gli attacchi. Il coordinamento tra corpi specializzati federali e polizie dei land è difettoso. Ieri mentre il pistolero si aggirava sul tetto del centro commerciale, gli elicotteri lo hanno sorvolato senza intervenire, perché impegnati “in un’esercitazione di routine”. «Paura è il nome che diamo alla nostra incertezza, alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare», ha scritto Zygmunt Bauman. *** Dovremmo imparare a vivere come se fossimo a Tel Aviv? *** ALBERTO NEGRI, IL SOLE 24 ORE 23/7 – L’Europa è in stato di emergenza in Francia, e forse ora lo diventerà in buona parte del continente. Gli Stati europei sono percorsi da una sorta di follia diffusa che non esclude niente perché si sono insinuati nelle vene delle nazioni molteplici veleni, quelli importati dal Medio Oriente e quelli sedimentati in società che si sentono aggredite e frustrate nelle loro aspirazioni: il pericolo maggiore è un clima di paura difficile da dominare perché colpisce i luoghi della vita quotidiana. Pezzi di queste società e alcuni individui si sentono in guerra, forse prima di tutto contro se stessi. [...] Certo, la guerra che è stata per anni alle porte dell’Europa è entrata qui da un pezzo: da quel 7 gennaio del 2015, quando ci fu l’attentato a Charlie Hebdo, è anche cominciata una nuova fase, l’escalation del terrorismo non solo non si è fermata ma si è propagata dalla Francia, al Belgio alla Germania, con cellule organizzate in ospitali quartieri islamizzati o con i lupi solitari che sanno di potere ambire al marchio della bandiera nera dell’Isis. Non è accaduto però in Gran Bretagna, che in passato fu bersaglio anche di un terrorismo diffuso, dove sono stati investiti oltre due miliardi di sterline per l’intelligence e la prevenzione: in pratica per pagare centinaia di infiltrati e attirare nella rete i candidati al jihadismo. Chiaro che questa non è una garanzia assoluta di successo ma limita la possibilità di attentati. Bisogna però dirlo con franchezza: il terrorismo è una tecnica di combattimento prima ancora che un’ideologia mortale che non può essere sconfitto in maniera definitiva. Non ci sono realistiche possibilità di cancellare il pericolo di subire attentati come la quello di Nizza o di ieri a Monaco di Baviera o del giovane immigrato che attaccato all’arma bianca i passeggeri di un treno in Baviera. Si possono però ridurre i rischi; coprire le falle della sicurezza, attuare una maggiore collaborazione tre le intelligence europee. Anche se ogni volta sembra di ripetere dei mantra che si perdono nel vento alla ripetizione di ogni strage. Muhammad Riad, un afghano di soli 17 anni, ucciso nella fuga, è stata l’avanguardia dell’Isis in Germania che ha messo il suo marchio anche su questa azione disperata che del resto obbedisce alla direttive che aveva diramato nell’aprile scorso proprio il portavoce del Califfato Abu Mohamed al-Adnani, il “ministro degli attentati”. *** UGO TRAMBALLI, IL SOLE 24 ORE 23/7 – D’improvviso- forse – questa volta il terrore viene dalla nostra parte, da una reazione malata a tutto quello che ci accade intorno. Anche questa è una dimensione inattesa del cancro diffuso da Daesh. Forse era quello che il califfato voleva. Il califfo, i suoi successori o un grande fratello che sta governando le strategia dell’Isis, non è una produzione teocratica del XII secolo. È un cervello che lavora a Raqqa, Mosul o in qualsiasi altra parte usando bene il potere del web, e che sembra conoscere molto bene il mondo che gli sta attorno. Un “semplice” attentato compiuto l’altro giorno dal minorenne afghano attorno a Monaco di Baviera, salito su un treno per accoltellare i primi passeggeri che gli capitavano, sembra un episodio minore nella crisi di sicurezza continentale. Invece ha avuto un effetto devastante. Quel ragazzo era stato accolto dalla Germania – dalla politica di accoglienza di Angela Merkel – adottato da una famiglia tedesca per agevolare la sua integrazione. Invece, senza alcun segnale d’allarme, quel giovane sul quale il paese aveva investito, è diventato un mostro. È stato forse questo episodio, minore nella statistica sanguinosa del terrorismo islamico in Europa, ad avere innescato la vendetta del terrorismo latente europeo, se così è stato: figlio della storia perversa del nostro continente ma anche del sottile lavoro di propaganda e di lavaggio del cervello di Daesh. *** MARCO LUDOVICO, IL SOLE 24 ORE 23/7 – Mai come in questi giorni c’è una mobilitazione di forze dell’ordine e militari sulle strade italiane. Una stima approssimata può calcolare circa 30mila tra carabinieri, poliziotti, finanzieri e soldati dell’esercito impiegati nei controlli e la vigilanza antiterrorismo. Il ministero dell’Interno dopo Nizza ha confermato il permanere del livello di allerta 2, il più alto prima di quello che scatta con un attacco in atto *** CATERINA SOFFICI, IL FATTO QUOTIDIANO 23/7 – Voce “Terrorismo” (dal dizionario Treccani): “L’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata”. [...] rispetto ad altri terrorismi, per esempio quello delle Brigate Rosse negli anni di piombo, a rischiare erano gli apparati dello Stato, i giornalisti, i magistrati. Qui si colpisce con l’unica logica di creare terrore. E più le vittime sono innocenti, più l’attacco avrà avuto successo. *** GIAMPIERO GRAMAGLIA, IL FATTO QUOTIDIANO 23/7 – È un problema europeo più che americano, nonostante Trump ne faccia un tema della sua campagna, impegnandosi a chiudere le frontiere a chiunque venga da un Paese “coinvolto nel terrorismo” – cioè, anche a francesi e tedeschi –; ma è un problema comune a tutte le società aperte, democratiche, occidentali. Perché, come diceva il ministro dell’Interno tedesco De Maiziere, commentando l’aggressione d’un rifugiato afghano di 17 anni ai passeggeri di un treno, prima che arrivassero le notizie da Monaco, in una società libera e democratica non c’è sicurezza assoluta [...] È un prezzo che l’Europa e l’Occidente non vogliono oggi pagare. Il che, però, non deve diventare un alibi: siamo liberi, quindi siamo esposti. Sono passati 18 mesi dal massacro di Charlie Hebdo, che ci colse impreparati – colpevolmente, perché quello era un obiettivo: la notte di fuoco a Parigi il 13 novembre, il marzo di sangue a Bruxelles, il tir del 14 luglio a Nizza, ora gli episodi tedeschi sono pure effetto di ritardi e lentezze nella risposta europea, a livello d’intelligence e di prevenzione, soprattutto su cooperazione e scambio d’informazioni. Un conto è rifiutare fermi il baratto tra libertà e sicurezza; un altro è consegnarci inermi ed esposti, per inefficienza, non per democrazia, a chi ci vuole colpire. *** ANTONIO PADELLARO, IL FATTO QUOTIDIANO 23/7 – Senza contare che gli impulsi che guidano i giovani assassini dei tir, o che brandiscono l’ascia in un vagone, o forse anche i killer che sparano e uccidono nel centro commerciale di Monaco di Baviera, più che “da una cospirazione politico-militare, “sembrano piuttosto scaturire dai fantasmi più oscuri di una mente piscotica” (Massimo Recalcati, su Repubblica). Degli squilibrati mentali, insomma, che blaterano di Allah senza alcuna cognizione di causa. *** ALESSANDRA COPPOLA E GUIDO OLIMPIO, CORRIERE DELLA SERA 17/7 – Tra la follia e il jihadismo a volte un legame c’è. Non è solo storia tragica di questi giorni, ma si rintraccia nelle analisi che gli investigatori di Parigi già da qualche mese hanno elaborato, soprattutto sulla base delle copiose indagini sui «foreign fighters» francesi: il 10 per cento di chi è partito per la Siria o per l’Iraq è schizofrenico. Uno su dieci. La diagnosi si associa spesso a quella degli assassini di massa americani, e infatti gli studi degli inquirenti europei (sostenuti dalle valutazioni di molti psicologi) si stanno indirizzando apertamente in quella direzione. Profili criminali che si incrociano. Si tratta di individui isolati sul piano psicologico, «perdenti» nel contesto sociale, con una vita familiare spesso turbolenta o precaria, segnata da fratture profonde (un divorzio doloroso, un licenziamento inatteso, il rifiuto di un prestito o ancora una questione burocratica inceppata). La valvola di sfogo può essere l’Islam radicale. Alle prese con problemi personali ed economici, questi individui sublimano i propri guai nella causa fondamentalista, trovando nell’Isis un’organizzazione che non si pone problemi ad accettarli. Non tutti diventano combattenti al fronte, però. Chi non riesce a partire per il Medio Oriente può essere facilmente «riciclato»: sono i «lupi solitari» incoraggiati all’azione nei Paesi in cui si trovano. Non sono in grado di raggiungere il Medio Oriente, ma sono capaci di aprire il fuoco in una discoteca o di salire su un camion per fare una carneficina. Gli attentatori – vale per Bouhlel a Nizza o per Omar Mateen che ha fatto strage a Orlando, per esempio – si considerano «vittime di ingiustizie», vere, presunte o inesistenti. Ciò che conta è la loro percezione. Si sentono minacciati, in guerra con il prossimo, per cui pensano che il gesto estremo possa gratificarli. E anche redimerli. Se fossero laici, si toglierebbero la vita. Cresciuti da islamici, invece, benché spesso ignoranti della propria religione, attratti dalle promesse di «gloria» dei predicatori radicali (in carne e ossa o più spesso sul web) cercano un’uscita di scena da «martire» e imitano – il punto è qui – gli attentatori suicidi. In questo modo, il proprio nome non sarà associato a un solitario atto di follia, destinato a essere presto dimenticato, bensì all’attacco di un’organizzazione famosa come lo Stato Islamico o Al Qaeda. In questo modo, inoltre, la vita precedente di peccati e fallimenti viene «purificata» e riabilitata. Mohamed Lahouaiej Bouhlel, in realtà, solo dopo il massacro sulla Promenade è diventato «un soldato del Califfato». Fino al giorno prima, era un autista introverso e solitario, allontanato dalla moglie, evitato dai vicini. Il suo percorso ricorda di nuovo quello dei «mass shooter» statunitensi che per lungo tempo macerano nei propri tormenti, simulano una vita anonima e innocua. Poi all’improvviso una scintilla, una situazione contingente che accende la miccia e li trasforma in bombe. C’è un’evidente sovrapposizione tra le due realtà: la prima appartiene al privato, la seconda arriva quando scoprono l’impegno politico. In questa ultima veloce fase, il killer sceglie il movente che preferisce per giustificare la sua follia. L’analisi degli investigatori francesi si è allargata anche ai jihadisti che restano all’interno dei confini, soprattutto dopo tre episodi. Il primo a Digione, nel dicembre 2014: un uomo, allora definito «squilibrato», al grido di Allah Akbar investì con la sua auto 11 persone, ferendole. Storia minore, ma che andrebbe rivista sotto una lente diversa. Il secondo, più conosciuto, nel giugno 2015: Yassin Salih decapitò il suo datore di lavoro nell’Isère, si scattò un selfie con la testa mozzata e inviò l’immagine a un militante jihadista. Un uomo disturbato che scimmiotta gli orrori dello Stato Islamico e fornisce spiegazioni confuse. L’ultimo a gennaio di quest’anno, protagonista Tarek Belgacem, ucciso dalla polizia a Parigi dopo aver cercato di aggredire gli agenti con un coltello: indossava una finta fascia da kamikaze e portava un messaggio di rivendicazione per conto dello Stato Islamico, che s’era scritto da solo. *** GIORGIO DELL’ARTI, GDS 20/7 – Tra i molti incubi del momento c’è quello dei lupi solitari. «Lupo solitario» è la nuova espressione per indicare il militante dell’Isis che si autoproclama combattente islamico e compie un’azione delittuosa vicino a casa sua, restando in genere ucciso ma ricevendo le lodi in rete del Califfo. Esatto. L’ultimo caso è avvenuto in Germania l’altro giorno. *** GIORGIO DELL’ARTI, GDS 16/7 – Lo ha detto anche il ministro degli Interni tedesco, Thomas De Maizière, in una conferenza stampa convocata ieri mattina: «Benché le autorità preposte alla sicurezza in Germania facciano tutto il possibile per assicurare tranquillità ai cittadini, non c’è garanzia che questa azione possa essere efficace. Continuare a vivere con i nostri valori è la miglior risposta da dare al terrorismo in tutto il mondo». • Sì? Oppure c’è il sistema israeliano. Un’enorme attività di intelligence e un popolo perennemente in armi, dal primo all’ultimo cittadino, donne comprese. Servizio militare obbligatorio di tre anni (un anno per le donne), con richiamo per tutti ogni anno, fino a che non si sono compiuti 50 anni. In altri termini: una mobilitazione generale continua. Non si azzera il rischio, ma lo si contiene. Loro accettano in pieno questo jsistema militarizzato perché si sentono assediati da un pezzo e sanno che c’è almeno un paese, l’Iran, che dichiara ufficialmente di volerli annientare. Noi non abbiamo questa consapevolezza e nonostante tutto ci sentiamo sicuri, parendoci impossibile che casi come quelli di Nizza capitino proprio a noi. Sensazione destinata a durare chi sa ancora per quanto tempo. *** DAVIDE FRATTINI, CORRIERE DELLA SERA 18/7 – Il treno leggero attraversa Gerusalemme da nord a sud, da est a ovest, le sue rotaie corrono sulla Linea Verde che fino al 1967 separava la città che i parlamentari israeliani hanno votato indivisibile. Per il sindaco e il governo — che l’hanno voluto — il tram moderno è il simbolo dell’unità, per i palestinesi, l’impronta mobile della sopraffazione. Di certo rappresenta la quotidianità per tutti, gli ebrei e gli arabi, una quotidianità fatta anche di paura e sospetti. Quelli che ieri hanno spinto un paio di guardie a controllare l’uomo che si muoveva in modo strano, gli hanno impedito di salire sui vagoni, lui ha confessato sul posto «ho la borsa piena di bombe». Esplosivi artigianali ma anche coltelli da cucina, ancora una volta oggetti quotidiani, perché gli attacchi degli estremisti — in Israele come in Europa — possono nascere in casa e con le armi che in casa si trovano. «Abbiamo sventato un attentato su larga scala», commenta il sindaco Nir Barkat. «Invitiamo i cittadini a restare vigili e a continuare la vita normale». La normalità della vigilanza che gli israeliani hanno sviluppato durante i sei anni della seconda intifada, dei kamikaze con la camicia a coprire l’imbottitura di tritolo, quando la guerra con i palestinesi era arrivata nei ristoranti delle città. I servizi segreti interni faticano quanto quelli occidentali a fermare i cosiddetti «lupi solitari», l’ondata di violenza che va avanti dall’ottobre dell’anno scorso è soprattutto opera loro. Così i passanti sanno che la responsabilità è anche individuale, che la polizia non basta: non è un appello a girare armati e a farsi giustizia da soli, anche se i ministri della destra oltranzista si sono lasciati andare a incitamenti da Far West. Sul lungomare di Tel Aviv, qualche mese fa, l’accoltellatore è stato fermato da un ragazzo. A colpi di chitarra. Davide Frattini *** MASSIMO RECALCATI, LA REPUBBLICA 22/7– Gli ultimi atti terroristici ci obbligano a guardare in un nuovo abisso. Siamo franchi: la crudeltà dell’assassino del Tir o del ragazzo diciassettenne con l’ascia poco hanno a che fare con l’identificazione fanatica alla Causa che ispira l’adesione al radicalismo islamico. L’abisso dentro il quale dobbiamo guardare è quello della violenza come manifestazione dell’odio puro verso la vita che indubbiamente il terrorismo islamico ha contribuito decisamente a diffondere. Si tratta di una violenza che non conosce più argini etici e che, di conseguenza, è al servizio della morte. Sono soprattutto i giovani, i giovanissimi che si armano per colpire non i loro nemici ma altri esseri umani senza differenza di razza, sesso, età, ceto sociale, religione. Perché? [...] La violenza feroce di soggetti isolati non può essere fatta rientrare nello schema del fanatismo paranoico della Causa che si rivolta contro la concezione immorale e pagana della vita dell’Occidente. Il passaggio all’atto dei giovani del Tir e dell’ascia non credo siano ispirati da nessuna vocazione martirizzante, né tantomeno da una volontà, seppur delirante, di redenzione. Né credo possano essere considerati il risultato di una cospirazione politico-militare come invece è avvenuto chiaramente a Parigi lo scorso novembre. Sembrano piuttosto scaturire dai fantasmi più oscuri della mente psicotica. [...] Lo schema, di natura ancora paranoica, del gesto terrorista dove è l’Ideale a nutrire la mano di chi spara contro il nemico — , deve essere corretto: l’ideologia non è la Causa ma solo una giustificazione a posteriori dello scatenamento della violenza come puro odio verso l’insensatezza della vita. Il fatto che i suoi protagonisti siano giovani o giovanissimi mette ancora una volta al centro il grande problema del rapporto tra le generazioni e quello dell’eredità. Non si diventa assassini perché Dio lo vuole, ma perché la vita, questa vita, la nostra vita, la vita che lasciamo ai nostri figli, è fatta di nulla, è senza valore, non vale niente. *** CHRISTIAN RAIMO, INTERNAZIONALE.IT 15/7 – François Hollande ha dovuto ovviamente dichiarare che le misure di sicurezza straordinarie, inaugurate novembre scorso e che sarebbero restate in vigore fino al 26 luglio, saranno prolungate di altri tre mesi. Nelle destre nazionaliste c’è chi fa ancora la voce più grossa, invocando pugni di ferro; “ora servono maniere forti” twittava stamattina Matteo Salvini. Quali sarebbero queste maniere forti? Vietare il noleggio dei camion? Espellere i milioni di cittadini di origine nordafricana dalla Francia? Distribuire armi di stato? Chiudere le frontiere a ogni ingresso in ogni città? Aumentare la sicurezza è un’espressione autocontradditoria: quello che possiamo forgiare è solo un feticcio di sicurezza di fronte a azioni del genere. Il meglio che ci possa succedere in questa escalation emergenziale è di ritrovarci come i cittadini di Israele che difendono le nuove colonie autoreclusi in uno stato sempre più militarizzato; non saremmo comunque immuni da attentati come quello di ieri. La paura non passerà. [...] Non c’è un esercito di liberazione, guerriglieri che si organizzano, qui c’è un patologico culto di morte – qualcosa che scava dentro lo scheletro fragile della condizione umana. La follia di Mohamed Lahouiaej Bouhlel, quello che pare essere l’attentatore di ieri, non è così diversa, almeno dal punto di vista fenomenologico, da quella di Andreas Lubitz, il pilota tedesco che si schianta sui Pirenei con un aereo pieno di passeggeri, o anche da quella di Anders Breivik che spara coi suoi fucili automatici nel corso di una festa politica, o da quella di Omar Mateen che irrompe armato in un locale di Orlando e fa fuoco all’impazzata. La cupio dissolvi omicida e suicida, l’eliminazione del minimo senso di empatia, la mancanza dell’istinto di conservazione, è un morbo che affetta in modo trasversale uomini mentalmente disturbati ad ogni latitudine, trasformatisi in assassini di massa in carcere o in un internet point dove hanno passato mesi a leggere deliri di qualche sedicente guru politico o religioso; l’Isis ha gioco facile a intestarsi questa ferocia disumana che da chi uccide viene rubricata come odio nei confronti dei valori occidentali. In questo senso ha ragione Bruno Ballardini quando, nel suo libro sullo stato islamico, ne parla come di un organismo culturalmente modificato, riconoscendone i caratteri di una politica ridotta a oscena campagna di marketing dell’apocalisse; oppure Franco “Bifo”, Berardi quando cerca nel suo libro sui suicidi e gli omicidi di massa in questo impulso di annientamento la forma scenica di una crisi globale. *** RENZO GUOLO, LA REPUBBLICA 20/7 – Per l’attentatore di Nizza o il protagonista dell’attacco con l’ascia contro i passeggeri del treno in Baviera, i ministri degli Interni francese e tedesco parlano di «radicalizzazione istantanea». Formula consueta, ormai, per indicare quanti, sfuggiti agli occhiuti sguardi di servizi o polizie, non erano ritenuti potenziali jihadisti. Definizione, quella della instant radicalitazion, che evoca l’inevitabile fallimento della prevenzione in un ambiente che si dilata e restringe senza troppa razionalità e la possibilità, per individui sino al momento del loro eclatante gesto lontani da ogni forma di militanza politica o religioso, di rifarsi a un’ideologia prêt-à-porter. Spesso sono solitari che diventano lupi; altre volte individui votati all’eccesso che nella stragista azione suicidaria cercano un impossibile riscatto. *** CARLO BONINI, LA REPUBBLICA 20/7 – Mohamed Lahouaiej Bouhlel, “Momo” il porco, il depravato macellaio di Nizza. Muhammad Riad, il ragazzino afgano di Wurzburg con l’ascia e il pugnale. Omar Mateen, il sociopatico di Orlando, vendicatore della sua omosessualità repressa. Larossi Abballa, l’assassino narcisista di Magnanville. Hanno età simili. Tra i venti e i trenta. Pregano un Dio di cui poco o nulla sanno, ma al cui culto mortifero dal vessillo nero si sono consegnati in lunghe sessioni di onanismo online. Un “auto radicalizzazione” che non ha bisogno né di tempo, né di moschee. Che non contempla domande o risposte. [...] È una domanda semplice. Come si fermano? È la stessa domanda che l’America si pose dopo l’11 Settembre del 2001 e che sciolse con il “Patriot Act” e Guantanamo. Cui l’Inghilterra rispose dopo le stragi di Londra con il “Prevention of Terrorism Act” (con il riconoscimento di un potere assolutamente invasivo nelle comunicazioni e la significativa restrizione del diritto di difesa dei fermati o sospettati) e su cui la Francia torna oggi a dividersi *** FRANCESCO CANCELLATO, LINKIESTA.IT 23/7 – Ha urlato «Sono tedesco!» dal tetto del centro commerciale di Monaco in cui aveva appena ammazzato otto persone. Anzi no, ha urlato «Allahu Akbar!», dice una donna musulmana testimone oculare della sparatoria al Mc Donald’s. Ce l’aveva con gli «stranieri di merda», anzi no, con gli infedeli, o ancora, con le politiche sociali del governo tedesco. E le dietrologie sull’uso dei media, poi, che dicono nazista e non dicono musulmano, o che fanno il contrario. O che parlano di un terrorista solo se con la pelle scura e di un pazzo se invece è biondo e con gli occhi azzurri. Come Nizza, la scorsa settimana. No, come Breivik, cinque anni dopo Oslo e Utoya. E poi giù a pesare i contraccolpi sulla Cancelleria - meglio sia nazista che fondamentalista islamico, chissà che succede se è un profugo. Non sappiamo nulla, su quel che è successo a Monaco, ma abbiamo già detto tutto e il contrario di tutto. E non importa, in fondo, che qualunque sia la matrice è semplicemente senza senso entrare in un McDonald’s e puntare la pistola contro dei bambini. Non ha senso ed è ingiustificabile. Ma a noi, che ormai abbiamo assimilato - forse per esorcizzare quanto sta accadendo - l’idea che in fondo sia tutto un gigantesco videogame, un brutto film, una finzione. E allora ci dividiamo e facciamo il gioco del cui prodest, e usiamo gli ennesimi otto morti come uno strumento per affermare le nostre idee, come stessimo parlando di calcio, delle olgettine, della legge elettorale: come se un pazzo dissociato che spara ad alzo zero potesse offrici la prova definitiva - in spregio a ogni logica - che aprire le porte ai profughi, o agli stranieri sia stata una pessima idea. O che l’austerità è cattiva. O che bisogna bombardare la Siria. O che tornerà Hitler. La realtà è molto più semplice: non sappiamo nulla e anche quando sappiamo non ci stiamo capendo nulla. Forse è vero, un manipolo di pazzi ci ha preso per mano e ci sta trascinando con sé nell’abisso. Ma noi, purtroppo, non stiamo facendo alcuna resistenza. *** MARCO BRESOLIN, LA STAMPA 21/7 – La strategia preferita dall’Isis per colpire nei Paesi Occidentali è quella delle azioni compiute dai lupi solitari: più difficili da intercettare e quindi da fermare. Ma secondo l’Europol nessuno degli ultimi quattro attentati con questa tattica sembra esser stato «pianificato, supportato logisticamente e gestito direttamente dallo Stato islamico». Dunque non ci sarebbe alcun coinvolgimento diretto, solo l’esultanza finale. L’osservazione è contenuta nella nota che integra e aggiorna il rapporto annuale sul terrorismo in Europa, diffuso ieri sui dati del 2015. La nota prende in considerazione i fatti avvenuti nel corso del 2016 a Orlando (Usa), Magnaville, Nizza (entrambe in Francia) e Wurzburg (Germania). Reclutamento rapido C’è poi l’aspetto individuale, che non va messo in secondo piano. Europol pone l’accento sulla «salute mentale» di alcuni attentatori, rilevando che il 35% dei lupi solitari in azione dal 2010 al 2015 soffriva di disturbi mentali. E che anche «un numero significativo» di foreign fighter ha manifestato problemi psichici prima di partire. Ogni comportamento sospetto nelle città europee, perciò, rischia di rivelarsi fattore d’allarme. Ieri il centro di Bruxelles è rimasto blindato per cinque ore perché i passanti avevano segnalato un individuo che all’ora di pranzo camminava con un cappotto da cui pendevano dei fili. Essendo che ieri nella capitale belga c’erano più di trenta gradi e che la giornata di festa nazionale prevista per oggi aveva fatto salire i livelli d’allarme, subito è scattata l’operazione con gli artificieri. Falso allarme: era uno studente che stava analizzando «le radiazioni e le onde magnetiche». È stato arrestato. La fotografia del rapporto parla di 151 vittime del terrore nel solo 2015, 360 feriti, in 211 attacchi compiuti in sei Paesi europei. Dati in crescita rispetto agli ultimi anni. Altro aspetto interessante, è il cambiamento nell’«adesione alla causa». Se in passato il processo di radicalizzazione era molto più lungo, ora si registrano forme di «reclutamento rapido» tra gli aspiranti jihadisti. Ci sono poi alcuni miti da sfatare. «Non ci sono prove concrete che i terroristi usino sistematicamente le rotte dell’immigrazione» per entrare in Europa, ci sono stati solo rari casi. Xenofobi e anarchici Il rapporto accende un faro anche sulle altre forme di terrorismo, in particolare segnala una certa preoccupazione per l’aumento degli attacchi di matrice nazi-fascista e per la crescente xenofobia. Diminuiscono le azioni di matrice etno-nazionalista e anarco-comunista (ma per quest’ultime c’è un’impennata negli arresti). C’è poi un paragrafo dedicato ai gruppi che agiscono per una singola causa e qui vengono citati i No Tav: nel 2015, dice il rapporto, «il numero di attacchi è diminuito» grazie «alla marginalizzazione degli estremisti». *** GAVRIEL LEVI, LA STAMPA 20/7 – Le proposte di intervento politico nelle diverse aree e dimensioni conservano la loro necessaria validità. Ma debbono essere inserite in una strategia culturale adeguata ed innovativa. Dobbiamo iniziare prendendo atto che da quasi un quarto di secolo stiamo assistendo a due fenomeni: l’aumento degli omicidi/suicidi nel privato; l’esplosione di un nuovo spettacolare suicidio/omicidio ideologico. Ambedue i fenomeni hanno una nuovissima capacità di contagio reciproco, che dobbiamo considerare con maggiore attenzione *** MATTEO PERSIVALE, CORRIERE DELLA SERA 18/7 – Michael Kazin, storico della Georgetown University, autore di uno dei testi di riferimento sul populismo americano («The Populist Persuasion: an American History») è anche condirettore della rivista Dissent sulla quale di recente ha scritto che «il sadismo è tornato prepotentemente sulla scena» in America. Professor Kazin, vedendo le immagini degli afroamericani uccisi dalla polizia, e degli agguati di Dallas e Baton Rouge ai poliziotti, è difficile non sostenere che lei abbia visto giusto. «Il filosofo Richard Rorty aveva correttamente attribuito ai movimenti di protesta degli anni 60 e 70 il merito di aver abbassato il livello di sadismo accettabile nella società. Ma la crudeltà verso certi gruppi è tornata a manifestarsi, basta pensare al recente picco di crimini razziali». Nonostante otto anni di presidenza democratica di Barack Obama? «Era ridicolo immaginare, come ha fatto qualcuno sull’onda dell’entusiasmo, che l’arrivo di Obama avrebbe segnato l’inizio di una nuova era. Per due motivi. Il primo è che, al di là della persona, ci sono problemi che nel loro sviluppo sono indipendenti da chi in quel momento è stato eletto presidente. Voi, in Italia, lo sapete bene: con tanti governi diversi che si sono avvicendati nella vostra storia è complicato attribuire meriti o colpe a questo o a quel presidente del Consiglio. Gli americani invece tendono a immaginare che il presidente abbia un’influenza ben superiore a quella reale». Il secondo motivo? «È che l’America si trascina dietro una questione razziale irrisolta. Obama ha suscitato delle reazioni spesso molto complicate tra gli americani. Dire che nel corso dei due mandati di Obama la situazione sia peggiorata — anche se non sottoscrivo i punti di vista catastrofisti, il 2016 non è il 1968 — è un fatto. Per motivi come dicevo al di là del suo controllo». Lei definisce la campagna di Donald Trump «crudele». «Sì, ha legittimato l’animosità che decine di milioni di americani già sentivano dentro di sé verso altri gruppi etnici o religiosi, in questo ha riportato l’America indietro nel tempo e non è un bello spettacolo». Se otto anni sotto il primo presidente afroamericano hanno inasprito le tensioni razziali cosa potrebbe succedere sotto una presidenza Trump? «Gli storici sono i peggiori profeti, però se vogliamo fare un’ipotesi direi che, se Trump vincesse, sarebbe per un margine molto ridotto, con la possibilità concreta di avere il Senato contro. Con un margine di manovra così stretto dovrebbe concentrarsi sul tema che l’ha fatto diventare protagonista, il Muro (al confine con il Messico, ndr ). Dovrà costruirlo, fisico o virtuale che sia. Tutto il resto passerà in secondo piano. Di sicuro gli Stati Uniti sono oggi disuniti». La polizia che finisce letteralmente nel mirino di un killer è il segnale di un odio insanabile, dopo tanti abusi non puniti? «Quello che gli attivisti non dicono è che la maggior parte dei neri — che spesso vive ancora in quartieri che di fatto sono segregati, a causa della povertà, anche se la segregazione razziale ufficialmente è illegale da cinquant’anni — non vuole una polizia debole. Una polizia senza potere lascerebbe i quartieri dove vivono gli afroamericani ancora più in balia dei criminali. Il problema è la tolleranza zero, che è nata per ovviare a una questione reale, cioè i moltissimi crimini commessi negli anni 70 e 80 nelle strade, specie dei quartieri più poveri. E che poi ha finito per far addestrare la polizia a metodi troppo aggressivi». Matteo Persivale *** GUIDO OLIMPIO, CORRIERE DELLA SERA 19/7 – Le autorità tedesche sono da tempo in allarme, l ’intelligence ha più volte messo in guardia sul pericolo di attentati. Il flusso di profughi è stato visto da molti come lo schermo dietro il quale si nasconde una minaccia seria quanto sfuggente. Paure condivise anche da altri Paesi europei, ma rese più forti da alcuni precedenti. Il 21 agosto del 2015, un estremista d’origine marocchina, reduce dalla guerra di Siria, ha cercato di sparare con un kalashnikov a bordo del treno Thalys in servizio da Amsterdam a Parigi. Solo la coraggiosa reazione di quattro passeggeri ha permesso di neutralizzarlo prima che potesse fare danni. Aveva oltre 270 proiettili. In gennaio ben due stazioni di Monaco di Baviera sono state evacuate, la polizia ha adottato massicce misure di sicurezza. Una reazione dopo una segnalazione — ritenuta fondata — su una possibile azione eversiva di un commando legato all’Isis, elementi che avrebbero dovuto colpire i treni. Sempre in Baviera, in maggio, uno squilibrato ha assassinato una persona e ne ha ferite altre tre a Grafing, a circa 25 chilometri da Monaco. Come arma ha usato un coltello. Anche in questa occasione, inizialmente, si è pensato al gesto di un lupo solitario legato a qualche formazione radicale. In realtà aveva seri problemi di mente e di droga. *** STEFANO MONTEFIORI, CORRIERE DELLA SERA 20/7 – In coda all’aeroporto o seduti in metropolitana, per gioco macabro o vera ansia, molti si saranno chiesti almeno una volta: chi ha il volto dell’attentatore? Chi potrebbe farsi esplodere, o tirare fuori un coltello? Il pregiudizio indurrebbe a fissare lo sguardo sul devoto in djellaba e barba sul mento, segni visibili di lunga e convinta appartenenza religiosa islamica. Ma sul treno in Germania a colpire è un 17enne autoradicalizzato di recente, e a Nizza il tir lo ha guidato «il George Clooney del quartiere», come i vicini chiamavano l’assassino: sorriso da attore, fisico scolpito in palestra, dedito all’alcol, al sesso con uomini e donne, mai andato in moschea. Sull’orlo della follia, ma reclutato in extremis da uno jihadista algerino dell’Isis. Terrorista islamico, quindi, anche lui. Gli orrori di questi giorni mostrano che esiste il terrorismo dell’Isis, ma non un unico profilo religioso, etnico, culturale, e poi operativo dei suoi adepti. La minaccia quindi è ancora più grave. Per affrontarla, due posizioni — ugualmente ideologiche — si sono ormai cristallizzate da anni: un campo tende a sminuire il ruolo dell’Islam, connotato in modo sbrigativo come «religione di pace»; l’altro individua nel Corano i germi di una inevitabile violenza, e accusa di cecità e sottomissione chiunque provi a distinguere tra musulmani e fondamentalisti predestinati al terrorismo. «Benpensanti» contro «islamofobi», secondo il lessico delle accuse reciproche. Gli eventi sembrano dimostrare che entrambe le griglie non funzionano. La storia personale di Mohamed Bouhlel, l’attentatore di Nizza, è importante e va raccontata non perché qualcuno potrebbe usarla per assolvere l’Islam incolpando la malattia mentale (poveri malati mentali, tra l’altro), ma perché mostra chi sono i nemici che abbiamo di fronte. Attribuire al terrorismo islamico gli attentati compiuti da individui con scarsi legami organici con l’Isis non significa essere «islamofobi». Segnalare il rapporto spesso conflittuale tra religione islamica e radicalismo islamista non è una tesi da «benpensanti» che non vogliono aprire gli occhi. Le due realtà convivono. *** IL FOGLIO 22/7 – Sono le religioni che prevalgono sulle altre religioni; se non abbiamo paura della morte, la polizia ci interessa poco”. Con queste parole, sei mesi dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo, lo scrittore Michel Houellebecq si rivolse alla Revue des Deux Mondes. Dovrebbero rileggerselo dopo ogni strage i nostri pigri giornali che ieri, ancora una volta, hanno riempito pagine sulle “falle dell’intelligence” francese a Nizza scoperte da Libération. Come se una camionetta della gendarmeria in più avrebbe potuto fermare lo sterminatore di ottanta “infedeli” fra adulti e bambini. Forse. Ma non è questo il punto. Ritualmente, dopo ogni massacro, media e politici si riuniscono al cospetto dei morti ripetendo come c’è stato un buco dell’intelligence. Purtroppo, il jihad non è come lo scontro di treni in Puglia. Qui non c’è un capostazione che poteva fermare i kamikaze di Allah. I treni dei martiri continuano ad arrivare con costanza sempre crescente. La tesi del “buco dell’intelligence” è allora una foglia di fico per non parlare di islam radicale e del suo progetto di terrore e di conquista. Peggio, quando l’intelligence è stata esercitata davvero, come nella rendition di Abu Omar a Milano, stampa e politica hanno per anni orchestrato un copione di complotti e di indignazione. E quando gli indichi Israele come modello di vera intelligence, cui però sfugge sempre un islamista che si immola con un coltello contro gli ebrei, quei giornali si girano indignati dall’altra parte. Le Torri gemelle che fondono a 815 gradi? Fallimento dell’intelligence. I barili di plutonio che non si trovano in Iraq? Fallimento dell’intelligence. I morti ebrei di Tolosa? Fallimento dell’intelligence. E’ la frase chiave e il codice convenzionale delle reazioni all’attacco islamista. La usano tutti. Poi aggiungono: le “ritorsioni” creano una spirale negativa, bisogna cibarsi di politica e pace ovvero diplomazia e buone intenzioni, e alla fine ecco arrivare in due o tre settimane il “se la sono cercata” trionfante, estetizzante. Quelli del buco dell’intelligence sono gli stessi che volevano mandare un vigile urbano da Osama bin Laden, anziché i Navy Seal. Si odono sempre le stesse voci, con lo stesso timbro, in questo grande gioco di dissimulazione e di spaesamento consapevole e collettivo delle verità fattuali che non sa più che cosa sia un nemico da battere. Ma, in fondo, è così confortante parlare del buco dell’intelligence anziché dell’islam radicale che sottomette, col terrore e la sharia, noi poveri europei smarriti. Ci consoliamo con le pippe, appunto, e continuiamo a portare il basto della nostra bell’anima. Intanto, a noi che giochiamo col buco dell’intelligence, gli islamisti scavano una fossa. Ben più profonda. *** LUCA RICOLFI, IL SOLE 24 ORE 27/3 – Questo qualcosa non divide solo il terrorista islamico dal comune cittadino europeo, ma spesso divide l’immigrato dal nativo, e talora i nativi stessi fra di loro. Ed è cruciale nel contrasto all’illegalità, alla criminalità e al terrorismo, di qualsiasi fede o non fede essi siano. Di che cosa si tratta? Si tratta di una differenza di cui si occupano pochi, almeno nel dibattito pubblico (fra le eccezioni gli psicologi sociali, e lo scrittore Antonio Scurati). E’ la differenza fra chi ha una bassa e chi un’elevata propensione al rischio. O, se preferite, fra chi è profondamente avverso al rischio e chi lo accetta, o addirittura lo cerca. Noi, normali cittadini europei, abbiamo una elevatissima avversione al rischio. L’immigrato medio ha un retroterra di esperienze e di sofferenze che lo rende enormemente più disponibile ad assumere rischi, nel bene come nel male. Se una ragazza subisce un’aggressione in un tram, o un bambino rischia di annegare fra i gorghi di un fiume, è più facile che siano soccorsi da un immigrato che da un civilissimo cittadino europeo. Simmetricamente, nella manovalanza criminale gli stranieri sono sistematicamente sovrarappresentati rispetto ai nativi, presumibilmente anche per la loro minore avversione al rischio. Queste differenze diventano ovviamente abissali nel caso dei terroristi islamici autentici, ossia realmente convinti che l’unica cosa che li separa dal paradiso di Allah è la cordicella del detonatore che li farà esplodere. Ebbene, a me pare che nella lotta al terrorismo, ma più in generale alla criminalità (organizzata e comune), sia proprio questo, il diverso atteggiamento verso il rischio, l’elemento costantemente dimenticato. I nostri sistemi legislativi, giudiziari e penali hanno qualche efficacia finché a dover essere governati sono solo gli educati ed impauriti cittadini occidentali, ma diventano drammaticamente inadeguati, per non dire patetici, non appena ci si pone il problema di combattere individui e gruppi la cui propensione al rischio è incomparabilmente maggiore di quella del cittadino comune, sia esso nativo o immigrato, di prima, seconda o terza generazione. [...] Certo, possiamo anche trastullarci con le solite parole d’ordine: ci vuole “più coordinamento”, “più intelligence”, più “unità d’azione”, “più investimenti”, “più risorse”, “più cultura”, “più Europa”. Possiamo anche raccontarci che un intervento militare massiccio e determinato sarebbe in grado di estirpare il terrorismo islamico alla radice. Ma temo che, per lo meno nel breve periodo, l’unico gesto incisivo, non tanto contro il terrorismo islamico quanto contro la criminalità in generale, sarebbe di prendere atto che, quando una frazione non trascurabile della popolazione ha una bassa avversione al rischio di incorrere nei rigori della legge, l’unico rimedio efficace è di aumentare le probabilità che chi delinque subisca effettivamente delle sanzioni, ivi compresa l’incarcerazione per un tempo non irrisorio. Poche cose sono più criminogene che le norme proclamate e non fatte rispettare, come sa chiunque provi a educare dei figli o a mantenere la disciplina in una classe. *** MASSIMILIANO PANARARI, LA STAMPA 20/7 – Islamofascismo. È davvero giunto il momento di impiegare questa parola. Senza reticenze, e a ragion veduta perché, alla luce dell’azione e della visione dell’Isis, non si tratta più di un’intuizione o di un’etichetta impressionistica, ma di una categoria dotata di validità «gnoseologica» e in linea con la metodologia delle scienze sociali che si pongono l’obiettivo di precisare la natura dei fenomeni, cogliendone analogie e differenze. E, giustappunto, nel caso dell’ideologia dell’Isis (e, più in generale, dell’arcipelago in franchising che si richiama al suo «marchio») le similarità con i dispositivi simbolici del nazifascismo si rivelano estremamente numerose. A partire dal rigetto totale della modernità in termini di valori (l’avversione per i principi dell’Illuminismo e per l’Occidente tollerante e pluralistico), mentre se ne utilizzano i risultati tecnologici (dai media per la propaganda al dark web per i traffici criminali). Precisamente quel mix di tecnica e dottrina che si richiamava all’eternità della Tradizione praticato dal «modernismo reazionario», brodo di coltura, nella Germania di inizio Novecento, del nazionalsocialismo. Molti degli elementi del jihadismo dell’Isis paiono provenire direttamente dal cuore di tenebra del Secolo breve, nero come il cromatismo politico di cui si fregiavano allora i nazifascisti e ora gli islamisti (e, del resto, sono storia le relazioni tra vari settori dell’Islam radicale e il regime hitleriano cementati dall’antisemitismo e dal nazionalismo). Il Califfato che cerca di espandere i propri confini mobili applica di fatto la dottrina geopolitica – sviluppata dalla destra estrema tedesca, e presente anche nel fascismo italiano – del Lebensraum (lo «spazio vitale»). L’islamofascismo (che si fa islamo-totalitarismo rispetto alle condizioni di vita imposte nei territori soggiogati) si fonda in ultima istanza sull’ideologia della morte (al centro dei discorsi di Al Baghdadi) e sul nichilismo, ed esalta il martirio con parole in cui si avvertono gli echi dell’apologia della «bella morte» e di quell’estetizzazione della violenza che erano state elaborate dalla cultura fiancheggiatrice del fascismo. La glorificazione del gesto individuale che semina la morte tra gli occidentali è intrisa di quel vitalismo irrazionalistico che costituiva uno dei pilastri della Weltanschauung nazifascista, dove la comunità organicista si ricomponeva nell’odio per il diverso, da sterminare. Innanzitutto, in nome di una concezione biopolitica nella quale l’adesione a un’interpretazione oscurantista e disumana della religione musulmana prende il posto dell’unità della «razza», contemplando, come nel nazifascismo, il controllo totale del corpo (ovvero il potere di vita o di morte) di chi viene sottomesso. E il medesimo disprezzo nei riguardi della cosiddetta «arte degenerata» portava ieri le camicie nere a fare i roghi di quadri e libri, e oggi i jihadisti a trapanare statue e a far saltare per aria vestigia archeologiche. Tutto questo è, esattamente, islamofascismo. Massimiliano Panarari, La Stampa 20/7/2016 *** PANORAMA.IT 12/6 – Le stragi di massa sono una vera e propria piaga dell’America, profondamente legata all’enorme diffusione di armi da fuoco: una ogni tre famiglie. Non a caso gli americani - in un Paese dove il diritto ad avere un’arma è sancito dalla Costituzione - rappresentano quasi la metà dei possessori di armi nel mondo. I numeri sono impressionanti. Le armi in circolazione sono dai 270 ai 310 milioni (il doppio rispetto al 1968), detenute legalmente o illegalmente. E fanno un mare di vittime. Nel 2013, secondo le ultime statistiche, ammontano a oltre 33 mila. Ma negli ultimi anni il trend è stato in aumento. La frequenza Per quel che riguarda la casistica degli omicidi di massa (più di due vittime), gli ultimi dati ufficiali dicono che dal 1982 al maggio del 2014 negli Usa se ne sono verificati almeno 61 in ben 30 Stati diversi. Secondo un calcolo più recente condotto dalla School of Public Health dell’università di Harvard e dalla Northeastern University si verifica in media una strage ogni 64 giorni, mentre fino ai primi anni 2000 la media era di una strage ogni 200 giorni. Le vittime Oltre ad accadere con maggiore frequenza, le stragi di massa fanno sempre più vittime: fra il 2003 e il 2013 - secondo i dati ufficiali - hanno perso la vita in stragi di massa 285 persone. Un numero che rende ancora più impressionante il bilancio di almeno 50 morti del locale gay di Orlando. E secondo Mass Shooting Tracker, fra il primo gennaio 2014 e il 26 maggio 2015 si sono verificate altre 43 sparatorie in cui sono morte 195 persone. Si tratta di numeri tragici, che impallidiscono tuttavia rispetto alla somma delle persone uccise in attacchi che hanno causato solo una o due vittime e che sono in gran parte sfuggiti all’opinione pubblica. Secondo il Centers for Disease Control and Prevention, sono circa 11mila le persone uccise in omicidi con colpi di armi da fuoco negli Stati Uniti nel solo 2013. I killer delle stragi di massa sono per il 97-98% uomini, di cui solo il 22% ha problemi mentali seri.(ANSA). *** IL POST 3/12/2015 – Dopo la strage di mercoledì in California, a San Bernardino – dove sono morte 14 persone e 17 sono rimaste ferite – e dopo la sparatoria del 27 novembre a Colorado Springs – in cui sono morte 3 persone e 9 sono rimaste ferite – negli Stati Uniti si è tornati a parlare dell’eccessiva frequenza con cui avvengono cose di questo tipo da quelle parti. La sparatoria di San Bernardino è stata la peggiore negli Stati Uniti dopo quella di tre anni fa alla scuola elementare Sandy Hook di Newtown, in Connecticut, in cui morirono 28 persone: ha quindi attirato un’attenzione maggiore rispetto al solito. Nelle ultime ore molti tra i principali siti d’informazione statunitensi hanno analizzato la frequenza con cui negli Stati Uniti avvengono stragi di questo tipo. Sia New York Times che Washington Post partono da una premessa: le “stragi di questo tipo” sono quelle in cui uno o più uomini armati sparano ad altre persone e in cui i morti e i feriti (compresi quelli che hanno sparato) sono almeno quattro. Quando si verificano queste condizioni si parla, negli Stati Uniti, di “mass shooting”. In italiano non c’è una traduzione comunemente accettata per la parola: semplificando si può parlare di sparatoria, anche se il termine è generale e molto meno preciso di “mass shooting”. Il New York Times scrive – basandosi sui dati raccolti dal sito shootingtracker.com (che usa come fonti gli articoli di giornale e quindi non è da considerarsi ufficiale) che quest’anno negli Stati Uniti ci sono stati 354 “mass shooting”: più di uno al giorno. Considerando anche la strage di San Bernardino nel 2015 negli Stati Uniti sono morte, a causa di “mass shootings”, 462 persone. 1.314 sono rimaste ferite. Non è possibile avere dati chiari che permettano di capire se negli Stati Uniti le stragi sono aumentate negli anni perché fino ad alcuni fa si utilizzava uno “standard” diverso: si considerava “mass shooting” solo una sparatoria in cui morivano almeno quattro persone (non si contavano quindi i feriti, nemmeno se gravi). Guardando agli ultimi due anni – e sempre con fonti non ufficiali, derivate da notizie di giornali e televisioni – si vede che c’è stato un aumento di sparatorie in cui la somma di morti e feriti è uguale o superiore a quattro: nel 2014 i “mass shooting” sono stati 336, nel 2013 furono 363: è quindi molto probabile che il 2015 diventerà a breve il peggiore anno dei tre. Il New York Times spiega però che – guardando a prima del 2013 – è molto improbabile che le sparatorie in cui almeno quattro persone muoiono o restano ferite siano diminuite negli ultimi anni: se non sono aumentate, non sembra nemmeno che siano diminuite in modo rilevante. È invece certo che i “mass shooting” riguardino tutti gli Stati Uniti, a prescindere dalla posizione geografica, dal fatto che ci si trovi o no in grandi città, persino dalle diverse leggi statali che regolano il possesso di armi: i 354 casi del 2015 sono avvenuti in 220 diverse città, distribuite in 47 dei 50 stati (più un distretto federale) che formano gli Stati Uniti. Un’immagine creata dal sito statunitense Vox mostra dove ci sono stati “mass shooting” negli ultimi due anni. Il Gun Violence Archive raccoglie invece dati relativi alle persone uccise da armi da fuoco in ogni situazione, quindi non solo nei “mass shooting”: i morti per arma da fuoco del 2015 sono finora stati più di 12mila, e più di 24mila i feriti. Ted Alcorn, direttore dell’organizzazione no profit Everytown for Gun Safety, una società di ricerca che chiede una limitazione della vendita d’armi, ha spiegato al New York Times che i “mass shooting” sono una piccola percentuale dei casi in cui negli Stati Uniti muoiono persone a causa delle armi: «In California, a San Bernardino, sono morte 14 persone, ed è un’orribile tragedia. Ma in media circa altre 88 persone sono morte in quello stesso giorno negli Stati Uniti per colpa delle armi». Everytown for Gun Safety ha analizzato i dati sulle sparatorie dal 2009 fino a metà del 2015 in cui sono morte almeno quattro persone (e quindi con il “vecchio” parametro). Solo nell’11 per cento dei casi chi ha sparato e ucciso era stato segnalato per sospetti problemi mentali e nel 57 per cento dei casi tra le persone uccise dagli uomini armati c’era un loro familiare o un loro partner. Le analisi di Everytown for Gun Safety dicono anche che in più del 60 per cento dei casi chi ha sparato aveva il “diritto” di comprare l’arma usata, non era quindi stato in precedenza segnalato per reati o problemi di altro tipo (che possono impedire a un cittadino statunitense l’acquisto di un’arma). *** BRUNO GIURATO, LINKIESTA.IT 13/6 – Gli ingredienti per farne un caso politico generale ci sono tutti. Primo: le armi in libera vendita negli Usa, che hanno causato tragedie su tragedie e polemiche su polemiche. Secondo: la questione gay, la libera espressione della sessualità che in Occidente ormai è quasi ovunque tratto distintivo dell’identità plurale, e altrove rimane un punto di doloroso conflitto. Terzo: la questione terrorismo islamico, che da almeno un quindicennio ci ha consegnato tutti a una diffusa insecuiritas non solo geopolitica, ma anche sociale, psicologica ed esistenziale. La strage di Orlando è tutte queste cose assieme: il perfetto shock emotivo (i 50 morti, i feriti, la narrazione dis-intermediata via sms e social della strage nel suo farsi) che mette in moto la tempesta perfetta dei significati politici, simbolici e sociali. Tutto vero e tutto legittimo. Ma un minimo di lavorio critico sulla realtà ci impone di fare un passo indietro. E di considerare che il gesto di Omar Seddique Mateen è innanzitutto il gesto di un uomo isolato. Il più grande massacro con armi da fuoco della storia Usa è stato deciso e realizzato in solitudine. Da un uomo mentalmente non stabile, con seri problemi di adattamento e una storia personale fatta di paranoia, controllo ossessivo nei confronti della moglie (da cui ha divorziato nel 2011) e fascinazione per il terrorismo islamico, più come strumento di auto-identificazione che altro, però: a quanto pare Mateen non aveva mai partecipato in modo fattivo a organizzazioni terroristiche, anche se l’Isis si è affrettata a mettere il cappello sulla strage. Mateen era progioniero dall’omofobia e da un islamismo brutalmente identitario, certo. Come Dylann Roof il ventunenne autore del massacro nella chiesa di Charleston di un anno fa era ossessionato dalla società multirazziale. Come Robert Lewis Dear, l’autore dell’eccidio nella clinica di Colorado Springs dello scorso novembre , era un fondamentalista cristiano legato al Ku Klux Klan. Come Chris Harper Mercer, l’autore della strage di Roseburg dello scorso ottobre era vittima di non si sa bene quali ossessioni. E si potrebbe continuare a lungo col catalogo delle stragi e delle paranoie. Ma rimane il fatto che gli episodi a cui facciamo riferimento si giocano in una dimensione chiusa nella soggettività di chi le compie. Che quasi sempre sono fatti su cui la psicopatologia ha parecchio da dire, la sociologia qualcosa, la politica, oggettivamente, poco. Ora, siamo tutti d’accordo sul fatto che fondamentalismo religioso, omofobia, razzismo, siano brodi di coltura sbagliati. Ma rimane il sospetto (da utilizzare se non altro come strumento e ipotesi critica) che anche senza quei riferimenti, o con la migliore profilassi culturale, il disturbato, lo psico/sociopatico, quello che una volta si sarebbe chiamato senza mezzi termini il pazzo avrebbe agito lo stesso. Magari con altri pretesti. E sotto questa luce gli ingredienti del caso "politico" vengono meno. Se mai rimane in piedi il problema della libertà di acquistare armi da fuoco in Usa. E in questo caso più che di attacco alla libertà occidentale, siamo nell’ambito della psicopatologia della libertà occidentale. *** CRISTIANA MANGANI, IL MESSAGGERO 21/3 – Organizzare un attentato come quelli di Parigi e Bruxelles richiede molto tempo e una logistica perfetta. Molto più semplice è invece arruolare lupi solitari, meglio se con una mente disturbata che li porterà a creare il maggior danno possibile. È questa la nuova strategia dell’Isis in Europa, secondo l’ultima analisi di Europol che ha individuato un elemento comune nei recenti attacchi di Nizza, Orlando, Magnaville, e Wurzburg: nonostante le rivendicazioni, in nessuno di questi lo Stato islamico è stato direttamente coinvolto. Potrebbe quindi essersi solo preso il merito di gesti di squilibrati, sui quali l’ideologia jihadista agisce da fattore aggravante di una patologia già esistente. «Non ci sono prove che l’attentatore di Nizza si considerasse un membro Isis», scrive infatti l’Agenzia europea antiterrorismo e criminalità nel suo rapporto. È stato detto che «si era radicalizzato in poco tempo e aveva consumato propaganda Isis prima dell’attacco», così come a Wurzburg i media hanno detto che nella stanza del giovanissimo terrorista c’era una bandiera del Califfato fatta a mano. Ma la loro «affiliazione al gruppo non è chiara». Per Europol, infatti, un indizio è contenuto anche nelle rivendicazioni: l’agenzia Àmaq ha detto di aver ricevuto informazioni da una fonte non identificata, «in contrasto con la chiara responsabilità» espressa per Parigi e Bruxelles. Una differenza che indicherebbe come l’Isis voglia mantenersi «affidabile», qualora dovessero emergere informazioni che contraddicono la versione passata finora. In poche parole: il regime del terrore ha interesse ad attribuirsi gli attentati, ma mantiene la dovuta cautela perché sa che i lupi solitari non sono veri combattenti per la jihad, e presto potrebbe venire fuori la verità. IL DISORDINE MENTALE Anche perché, alla base delle stragi, ci sarebbe quasi sempre un problema mentale. Secondo il rapporto antiterrorismo consegnato alla Ue, «nonostante molti lupi solitari leghino i loro atti a religione o ideologia, il problema psichiatrico non deve essere trascurato». Nei casi dove l’attentatore ha un disordine mentale, infatti, «l’ideologia può avere un effetto aggravante, portando a scelte di target differenti e ampliando l’attacco». Anche il terrorista di Nizza, sottolinea l’Europol, «soffriva di una seria questione mentale ed era in cura». E a una «porzione significativa di foreign fighters sono stati diagnosticati problemi della stessa natura» prima che decidessero di unirsi agli uomi del Califfo. Oltre a Mohamed Lahouaiej Bouhlel, soffrivano di patologie psichiatriche l’uomo che il 21 dicembre a Digione si è gettato con l’auto contro dei pedoni provocando 13 feriti, e quello che il giorno dopo l’ha imitato scagliandosi con il suo furgoncino nel mercatino di Natale, uccidendo una persona e lasciandone 9 ferite prima di pugnalarsi. LE CIFRE Dati alla mano: circa il 35 per cento dei lupi solitari che hanno compiuto attacchi tra il 2000 e il 2015 aveva problemi di tipo psichiatrico. Aspetto non secondario, perché è proprio con queste persone che il reclutamento avviene con maggiore facilità. In Finlandia, a esempio, puntano soprattutto ai giovani teppisti o ai ragazzi senza famiglia. In Slovenia c’è un fenomeno di reclutamento presso la comunità rom cui vengono promessi soldi. In Belgio e in Olanda invece si fa leva sull’aspetto familiare, e si cerca un contatto tramite parenti. A questo poi va aggiunto un altro particolare evidenziato nel rapporto, e cioè che esiste la possibilità che in futuro si verifichino in misura «crescente» azioni «violente commesse da individui o da piccoli gruppi» appartenenti all’estrema destra, «sotto forma di lesioni personali o attacchi incendiari», come pure «di azioni più violente, incluso l’omicidio». Tutto questo potrebbe avvenire come conseguenza al malessere che generano gli ingressi di immigrati clandestini nell’Ue. Tanto che – continua l’Europol – «alcuni Stati membri hanno notato sviluppi verso forme di giustizia fai-da-te, con la creazione di ronde di civili nelle strade». *** FEDERICO GUIGLIA, L’ARENA 14/1/2015  – Mancava solo il bambino con la pistola, ma i terroristi dell’Isis hanno pensato anche a quello. Dopo l’orribile vicenda delle bimbe imbottite di tritolo in Nigeria e costrette a farsi saltare in aria per colpire persone inermi e innocenti, un nuovo ed ennesimo video dell’orrore (otto minuti di orrore), mostra un bimbo di dieci anni che spara a due ostaggi. Quasi fosse un piccolo boia chiamato a eseguire la sentenza. Il bimbo porta un maglioncino nero e ha i capelli già lunghi, come a farlo sembrare un adulto ormai indottrinato sulla strada del fanatismo che si macchia di sangue, e se ne vanta. Già avevamo visto giovani incappucciati pronti a sgozzare altri innocenti sequestrati e anch’essi costretti a recitare una sorta di mea culpa occidentale collettivo, accusando i loro Paesi d’origine d’essere i veri colpevoli della propria morte annunciata e filmata. Ma con le bambine-kamikaze e il bambino-assassino questa strategia della violenza e della paura raggiunge un livello, se possibile, ancor più mostruoso. Dove vogliono arrivare, dunque, questi estremisti della jihad, la rivendicata guerra santa che ora coinvolge addirittura l’inconsapevole infanzia? Qual è il grado massimo di terrore che le cellule del fondamentalismo armato sparse in Asia, in Africa e in Europa -come abbiamo appena tragicamente constatato a Parigi-, intendono infondere al mondo che assiste attonito? E, soprattutto, che cosa deve fare, chi può fare, per mettere fine a questa brutale catena di crimini e criminali che non risparmia neppure l’età dell’innocenza? Di fronte a tante e a tali immagini una più crudele dell’altra, il rischio è che anche la nostra indignazione finisca per attenuarsi. A forza di vedere -non importa se con montaggi finti o purtroppo veri: pure questo fa parte della propaganda omicida-, coltelli che decapitano, e kalashnikov che massacrano, e l’effetto delle bambine-bomba, e bambini che impugnano la pistola, il pericolo è di abituarsi all’orrenda banalità del male, da una parte. Dall’altra, di farci tutti morire di paura, non riuscendo alcun essere pensante a comprendere a quale tasso di disumanità possano arrivare esseri pur sempre umani. Ci appaiono marziani di un altro mondo che non rispetta né regole né persone né –figurarsi!- religioni. Il problema è che questo mondo non è fra le stelle, ma è qui, ora e subito, e perciò la reazione non può essere delegata solamente ai governi, alle forze di polizia, ai militari chiamati a garantire la sicurezza e ad affrontare l’emergenza. Mobilitare le coscienze e non assuefarsi al male, mai. Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi *** Jonathan Nossiter, Le Monde 4/1/2016 Il ministro dell’interno francese Bernard Cazeneuve ripete di continuo che il seme della radicalizzazione si diffonde soprattutto grazie alla propaganda in rete del gruppo Stato islamico (Is). L’ex presidente Nicolas Sarkozy ha dichiarato con mediatico candore che “se si consultano siti jihadisti si è jihadisti”. Il presidente statunitense Barack Obama ha esortato il mondo civile a trovare una risposta alla propaganda dell’Is, inorridito dal successo del loro reclutamento mondiale. Obama ha proposto, con americano candore, la creazione di una contropropaganda occidentale e civile. Per coloro che hanno visto i video prodotti dall’Is – quello del pilota giordano bruciato vivo in Siria, quello delle decapitazioni di massa sulla spiaggia libica, o il recente trailer che minaccia la distruzione di Parigi con immagini del crollo della Tour Eiffel – ovvero l’insieme della sua produzione cinematografica, la questione della contropropaganda diventa molto inquietante. Preoccupato all’idea di cadere nel voyeurismo che diffonde ancora di più la barbarie voluta dai suoi autori, non avevo mai seguito i link tanto facilmente accessibili in rete, soprattutto grazie ai media più bellicisti e antiarabi come Fox news di Rupert Murdoch. Ma, alla fine, il senso del dovere professionale mi ha portato ad affrontare, in quanto cineasta, questi oggetti nocivi. Ma ciò che più colpisce di questi video non è il fatto di trovarsi di fronte a una cosa nuova, a una violenza “documentaria” inedita, bensì la scoperta di un grottesco molto familiare nella loro messa in scena. Il nostro sguardo è soggiogato, come nella meccanica implacabile dei film spettacolari di Hollywood È in un campo medio da film western che scopriamo il pilota giordano. Indossa una tuta arancione fluorescente, che risalta come un fumetto sulla scenografia delle macerie siriane. Cammina lentamente, guardandosi intorno: l’attore tragico di un film muto. Eppure si tratta di un uomo che sarà arso vivo pochi istanti dopo, spinto a “recitare” una parte in un momento chiaramente “fiction”. L’“attore” vaga nei luoghi che, simbolicamente, avrebbe bombardato in quanto pilota. Improvvisamente, un montaggio rapidissimo impone immagini di civili massacrati dalle bombe in parallelo con diverse angolazioni di ripresa del prigioniero che “contempla” il suo lavoro. Gli effetti sonori sono esagerati, iperrealisti e surrealisti al tempo stesso, allo scopo di aumentare l’effetto di paura ma anche di imporre la consapevolezza della stilizzazione della regia. Scopriamo il soggetto – o piuttosto l’oggetto – del film circondato da uomini mascherati, armati, impassibili e ripresi con riverenza. In un montaggio sempre più veloce tra la vittima e i suoi carnefici esaltati – il tutto sottolineato da una musica trascinante – si vede l’uomo rinchiuso in una gabbia in mezzo alle macerie. Si passa quindi all’atto barbaro così scrupolosamente annunciato. Ma la messa a morte del prigioniero sembra meno importante del modo in cui è raccontata. In realtà anche noi, gli spettatori, siamo prigionieri. Il nostro sguardo è soggiogato, come nella meccanica implacabile dei film spettacolari di Hollywood. Ma, più che nello Spielberg di Schindler’s list e della sanguinosa orgia dell’inizio di Salvate il soldato Ryan, che mescolano così abilmente godimento e ferocia, siamo nel campo (o nel terreno di coltura) più contemporaneo della generazione di Tarantino e dei videogiochi. Assistiamo definitivamente a una messa in scena di “brio” barocco, un terzo grado postmoderno in cui il regista (o giocatore) è il protagonista e l’oggetto filmato è solo nominalmente il soggetto. C’è un solo riferimento possibile: l’universo audiovisivo portato al massimo grado da Quentin Tarantino In un video diffuso sul web poco tempo dopo siamo su una scenografica spiaggia libica. Ventuno egiziani, come il pilota giordano tutti in arancione (un mezzo per farli risaltare, stile “pop”, sul paesaggio, nonché simbolo del rovesciamento delle parti rispetto ai detenuti di Guantánamo), arrivano con i loro carnefici, tutti vestiti di nero come dei ninja. Stavolta la macchina da presa si muove, scivola maestosamente lungo la fila di prigionieri, anch’essi apparentemente addestrati per la macchina da presa, poi fluttua al di sopra delle loro teste. Qui possiamo parlare di una “camera oscura” degli orrori, che riprende e reinventa lo spettacolo cinematografico delle origini. Vediamo movimenti di macchina sofisticati, combinazioni di steadycam, grande innovazione tecnologica della generazione di Spielberg, e movimenti con le gru telecomandate, l’ultimo grido per i cineasti di punta ben equipaggiati. I piani sono girati a volte al rallentatore e a volte in accelerazione, sottolineati da una musica esaltata e ironica insieme, per mettere bene in evidenza la padronanza “terrorista” dell’estetica dominante del cinema occidentale. Nell’omicidio del pilota, il montaggio alterna la fase dell’assassinio con i bombardamenti occidentali delle città dell’Is. Sulla spiaggia libica, è il vendicatore in primo piano a fornirci il perché manicheo. Siamo di fronte a un revenge movie. C’è un solo riferimento possibile: l’universo audiovisivo portato al massimo grado da Quentin Tarantino. Troviamo tutti i marchi di fabbrica del godimento tarantiniano per la violenza: primi piani di sgozzamenti, diverse angolazioni al rallentatore sul pilota che muore carbonizzato sotto ai nostri occhi, le sue grida intrecciate a una musica incantatrice. Ma si trova anche l’anestesia psicologica e morale, l’esaltazione puramente formale dell’atto violento. Non appena la più recente produzione dell’Is, quella che minaccia Parigi, è apparsa sugli schermi, un cineasta cinefilo californiano ha postato il link su Facebook, senza altro commento che questo: “Riprendono tutti gli aspetti del trailer del nuovo film di Tarantino, The hateful eight”. La legittimazione della violenza Per l’Is lo scopo della produzione dei video di propaganda non è la ripresa dell’atto criminale. L’obiettivo reale dell’operazione è la regia del video che poi viene visto da milioni di persone su Youtube e altrove. Questa regia mira a suscitare nello spettatore sia il godimento della violenza, sia l’orrore. Le due cose sono mescolate. Con questa estetica oltranzista puntano esattamente allo stesso pubblico di Tarantino e dei suoi confratelli del cinema e dei videogiochi: adolescenti, post-adolescenti e post-post-adolescenti che saranno ispirati – e aspirati – dalla legittimazione videoludica della violenza. È la maniera migliore per reclutare i giovani, ma anche la maniera migliore per rivoltare la società dello spettacolo contro se stessa, per rigirarla in maniera così grottesca che il pubblico di questi video finisce per abituarsi all’orrore. Con la prima decapitazione diffusa in rete, quella del giornalista James Foley nell’agosto del 2014, tutti sono sprofondati nel terrore. È stata sulle prime pagine dei giornali per settimane. La professionalità della regia e la qualità hd dell’immagine video superavano le crude testimonianze delle atrocità precedenti, come l’assassinio di Daniel Pearl nel 2002. Ma, già dalla seconda decapitazione filmata, l’attenzione dei mezzi d’informazione si è attenuata. Sono dovuti passare a decapitazioni multiple e simultanee, con l’inserimento di jihadisti occidentali tra gli assassini, per trattenere lo sguardo del pubblico. Poi, con la messa in scena del pilota arso vivo nella sua gabbia, sono entrati in concorrenza diretta con il numero uno mondiale dello spettacolo diretto ai giovani. Ciò che l’occidente mostra nel regime della fiction con falso candore, l’Is lo prende alla lettera Qualcuno dirà che tutto ciò era già presente nel cinema di Sam Peckinpah degli anni settanta, per esempio. Certo, Peckinpah portava l’effetto della violenza esplicita a un livello mai visto prima di allora. Ma la differenza con Tarantino e con la generazione contemporanea è decisiva. Nel Mucchio selvaggio, oppure in Cane di paglia, non ci sono atti di violenza che non siano inquadrati in una profonda questione morale e in un contesto sociale e storico complesso e ambiguo. Di contro, la violenza ludico-esaltante di Tarantino è scientemente controfattuale (antistorica) e deliberatamente svuotata di senso morale, che si tratti della metamorfosi delle vittime disarmate della Shoah nelle squadre d’assalto ebraiche di Bastardi senza gloria, composte da sadici armati fino ai denti che riescono a vendicarsi di Hitler, o della fantasia preadolescenziale (prestorica) che trasforma le vittime, anch’esse disarmate, dello schiavismo americano in macellai-vendicatori. Quella dei film e dei videogiochi è diventata la promessa dei mezzi d’informazione occidentali e persino degli uomini politici. Incapaci di pensare gli eventi, gigioneggiano nella parte dei vendicatori. Tutta la società dello spettacolo poggia sulla sete di sacrifici umani e di godimento di fronte alla violenza. Al cinema, nella nostra cultura non abbiamo voluto considerarla altro che una fonte di piacere; oggi ci viene rispedita indietro con un atto di vendetta, ma secondo una forma molto reale, quella del nostro piacere visivo. Ciò che l’occidente mostra nel regime della fiction con falso candore, l’Is (o Daesh, come viene spesso chiamato) lo prende alla lettera senza alcun candore: una ripetizione della fiction sotto forma di vera violenza, di vero orrore. Lo snuff movie come estensione logica della nostra produzione Prima di tutto, in questa Daeshwood chiunque può diventare una star. Un giovane fragile di suo, che si senta privato anche della minima possibilità di esercitare qualche potere sul proprio destino, potrebbe immaginare di diventare, anziché una star di Hollywood, l’eroe di un film girato dall’Is mentre sgozza o brucia vivo qualcuno di fronte a milioni di spettatori, oppure il protagonista della sete mediatica mondiale dopo un attentato spettacolare. Due recenti rivelazioni dei media sottolineano la dimensione ironica di questa confusione altrimenti tragica. Negli Stati Uniti Quentin Tarantino, dopo aver partecipato a una manifestazione a New York, è diventato il portavoce del movimento contro la violenza dei poliziotti, trasformandosi così in neoeroe della sinistra – e neotraditore della destra. Poi Jesse Hughes, il leader del gruppo Eagles of Death Metal, sopravvissuto all’attacco del Bataclan e fervente sostenitore del diritto al possesso di armi, ha spiegato in un’intervista che “la cultura pop ci ha portato internet, la pornografia di massa e la pornografia della morte di Quentin Tarantino. Tutto è tenebroso e diabolico”. Hughes ha anche mostrato di apprezzare la candidatura di Donald Trump, lo stesso che ha dichiarato che bisogna chiudere le frontiere a tutti i musulmani, il cui “odio per gli Stati Uniti sfida la comprensione”. Per combatterlo, “occorre capire da dove viene questo odio e perché”.