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 2016  luglio 22 Venerdì calendario

CHI È L’UOMO CHE GUIDERA’ FORZA ITALIA

Stefano Parisi è l’unica persona al mondo capace di perdere le elezioni e dare l’impressione di averle vinte. Neppure i veleni post elettorali dei soliti tribunali di partito sono riusciti a scalfirlo. Tentavano di attribuirgli la responsabilità della sconfitta milanese, «se avesse urlato di più… se avesse sedotto i radicali… se avesse inchiodato l’avversario sui conti Expo e la casa in Engadina misteriosamente evaporata». Se avesse. Ma non l’ha fatto. E tuttavia la realtà ben più terrena e matematica è che senza Parisi il centrodestra, a Milano, non sarebbe mai arrivato al 48 % di consensi che l’hanno inchiodato, fiato sul collo, al vincitore Sala. E che Forza Italia non si sarebbe mai neppure sognata il 20% di voti dei bei tempi andati. L’uomo delle sgambate, hanno detto, un maratoneta della strada, capace di macinare risultati e lavoro. E quando è sceso in politica, sfinito dai partiti e dalla lusinghe di un Berlusconi che lo incalzava alla sfida pur comprendendo i suoi dilemmi da presidente di Chili Tv, non ha più smesso di pedalare. Uno che inforca la bici e non lo fermi, come il giorno del voto, Sala rigido davanti ai flash dei fotografi, lui in bici e casco rosso a dire ai ragazzi del seggio «mi faccio una doccia e torno».

DISINVOLTO
Leggero, effervescente, si muove sul palco della politica come un Benigni sul palcoscenico. Alla prima cena elettorale di Fratelli d’Italia, La Russa scherzava ancora sulla mancata candidatura del direttore del Giornale Alessandro Sallusti, «parla tu, che Parisi non arriva». Poi è arrivato Parisi e si è capito che avrebbe fatto il botto.
Ha percorso chilometri e passato al setaccio le periferie, all’inizio era l’alieno con l’occhiale da professore, poi ha iniziato a stringere mani e dispensare sorrisi. E soprattutto a dire cose sensate. Andava nei mercati con Albertini, improvvisava battute in un pessimo dialetto milanese, ma alla fine seduceva e convinceva. «Mi diverto e il tempo non basta mai». Normalità mista a piglio manageriale. La passione per il cinema coniugata a quella per il sushi e la corsa, e il libro di Amos Oz sul comodino. Anche il cagnolino Mirò, salvato dall’abbandono e sguinzagliato in ogni dove «perché mi fa star bene» è parso un oculato cedimento agli affetti. Al punto che qualche opinionista da salotto ha detto, «Parisi è piaciuto alle donne, agli operai e anche ai padroni dei cani». Certo non alla sinistra radical chic del centro di Milano, che si è scelta il commissario Expo e ora si ritrova in dono appartamenti di lusso vista profughi. A febbraio Parisi era solo il 59enne city manager del governo Albertini e presidente di Chili tv, unico sopravvissuto di una rosa di papabili poco convinti che il gioco valesse la candela.
Dopo febbraio è emerso il ritratto di un politico di lungo corso. «Ho sentito la coesione di un centrodestra ampio che va dalla lega a Fi, da Fdi a Lupi», e si è candidato, riuscendo a convincere persino Salvini, e a chi tifava per il disimpegno leghista lui ribatteva «meno male che Matteo c’è». Quisquiglie la sua milanesissima romanità (è di Roma ma non ne ha i ritmi) che si è portato appresso senza che mai divenisse un inciampo, salvo forse quando ha dovuto sussurrare di essere romanista in terra di milanisti e interisti.

TANTI MONDI
Di lui si sono visti subito il fare spiccio e il pensare veloce. Un curriculum lungo così e mai esibito. Fino a qualche giorno prima del ballottaggio, quando è caduto in tentazione e ha inviato ai milanesi un opuscoletto di 12 pagine: studi dai gesuiti e laurea alla Sapienza di Roma, figurarsi. Non si è fatto mancare nulla, neppure gli anni caldi del ’68, fantastici i baffi neri alla Roberto Pruzzo che esibiva sulle foto. Ha lavorato nella segreteria dell’ex ministro Gianni De Michelis. Insieme a lui, a Bonn, ha assistito alla caduta del muro di Berlino. È stato capo dipartimento degli affari economici di Palazzo Chigi. Prima con Berlusconi poi con Dini e Prodi. Una chicca il sigaro avana di Fidel Castro che gli regalò Prodi, «non ebbe il coraggio di fumarlo, Stefano, lo mise in un cassetto e alla fine lo lasciò marcire». Poi sono venuti gli anni di Milano, la stanzetta di palazzo Marino strappata al direttore generale perché non c’era un ufficetto che potesse ospitare lui e Marco Biagi, e la battaglia sul patto per il lavoro che portò alla rottura con la Cgil. Per non dire di Confindustria e l’avventura di Fastweb, terminata con un clamoroso errore giudiziario che di fatto decapitò i vertici dell’azienda. Lady Parisi è la fedele e riservatissima Anita, figlia di un medico ebreo americano. «Se ti candidi sei matto», ha detto Anita al marito, tipo tosto e «combattente nata», tuonava in principio ma poi «si svegliava all’alba per fargli la rassegna stampa».
Da lei il manager ha avuto due figlie, Camilla e Sarah, ventenni innamorate di papà e del ricordo di lui che le portava nelle viuzze senza profughi di Brera (mica la Milano di Sala). Immaginate come la querelle sul Mein Kampf pubblicato dal Giornale sia piombata su questa famiglia riservata e perbene, «pensare che il centrodestra fosse quella campagna e sentirmi accusare da un ebreo come Fiano è stato un colpo basso senza precedenti», disse un giorno Parisi. Di qui la sua contrarietà alla candidatura di Stefano Pavesi (l’uomo accusato di essere troppo vicino all’estrema destra) che qualcuno gli ha anche rimproverato,«troppo schizzinoso Parisi». Nessun compromesso. Nessun accordicchio. Neppure quando è parso certo che una strizzata d’occhio ai radicali e ai Cinquestelle gli avrebbe portato quel po’ che mancava per battere Sala. Dicevano i detrattori «se perdi le elezioni muori». Parisi ha perso le elezioni ed è ripartito: «Il modello Milano di centrodestra unito funziona e va esportato». E oggi lo vedi tra gli scranni di Palazzo Marino orgoglioso e galantuomo, una noia malcelata per certi meccanismi della politica e la curiosità del neofita. Qualcuno insinua che somigli a Sala, ma non è vero nella sostanza e nei programmi. Giustizia rapida, burocrazia ridotta all’osso, un approccio pragmatico all’immigrazione senza demonizzare ma neppure accogliere tutti indistintamente. Questo è il suo programma. E il centrodestra lo segue compatta.

UOMO NUOVO
A Milano dicono che abbia insegnato un nuovo modo di fare opposizione. Non urla, non demonizza: propone. Al punto che la sinistra lo guarda intimorita. Erano abituati ai tremila emendamenti del baluardo di Fdi Riccardo de Corato. Si sono ritrovati uno che parla pacato, studia all’inverosimile, e alla fine dice qualcosa. Anche sulle moschee ha svoltato. Quando ha visto Sala impantanarsi nella matassa islamica e bocciare l’unico bando prodotto da Pisapia si è seduto a un tavolo con il volto moderato dell’islam milanese - la battagliera Marya Ismail, dimissionaria dal Pd in polemica con Sumaya Abdel (vicina all’integralismo) - poi ha fatto le sue proposte al sindaco: censimento delle moschee, commissione bipartisan e controlli. Dicono che i suoi modi diano un po’ fastidio ai partiti, «convoca le conferenze e non i colleghi». Ma tant’è, è un manager nato. E il fatto che abbia ambizioni di lungo corso lascia perplesso qualcuno. Mentre altri vedendolo dialogare con Sala, prefigurano l’inciucio: «Non sarà un nuovo patto del Nazareno?». Patto del Nazareno o no, l’ambizione dell’uomo è nazionale e l’elettorato cui guarda è quello moderato del partito popolare europeo. Una cosa è certa, non si fermerà qui.