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 2016  luglio 22 Venerdì calendario

IN CASA DI GADDA A CACCIA DI TARLI

Il primo argomento che Carlo Emilio Gadda affrontò, subito dopo un affrettato, ma non scortese, saluto, fu quello dei tarli. Aveva urgente bisogno di parlarne e la nostra presenza gliene dava l’occasione. Si rivolgeva soprattutto a Mario Dondero. Pensava che la sua macchina fotografica potesse essergli di qualche utilità. E forse gli andava a genio anche la bella faccia sempre sorridente di Mario.
Un imprecisato numero di insetti coleotteri della famiglia degli Anobidi, appunto di tarli, si era annidato nella sua scrivania, e Gadda ci mostrò i fori nel legno, puntando l’indice. «Eccoli!». Sembrava che vedesse delle caverne. Più che preoccupato sembrava irritato da quell’invasione. E sospettai che si trattasse di una inconscia metafora: noi, come i tarli, eravamo degli intrusi.
Senz’altro non era cosi. L’impacciata cortesia del padrone di casa era autentica. Chiese a Mario se riusciva a riprendere con il teleobiettivo il piano orizzontale traforato del suo tavolo di lavoro e anche la libreria accanto non risparmiata dagli attacchi della famiglia degli Anobidi. Mario si dette da fare, scattò una decina di fotografie pur sapendo che le immagini sarebbero state macchie scure, ma l’inutile zelo gli valse la gratitudine di Gadda che sorrise. Per noi fu un sollievo. La mia solerzia nel dichiararmi pronto ad andare subito a comperare un pesticida non fu tuttavia presa in considerazione. Il padrone di casa mi rammentò che quel giorno i negozi erano chiusi. Era infatti domenica.
L’appuntamento era stato fissato da una decina di giorni, dopo numerosi rinvii. La presenza di un fotografo non lo disturbava. Sembrava infastidirlo che un cronista volesse rivolgergli delle domande. Pietro Citati, suo amico, l’aveva rassicurato sul mio conto ed è grazie a Citati se avveniva l’incontro. Poco prima delle nove, l’ora stabilita, Gadda aveva telefonato a Citati per chiedergli se potevo arrivare un po’ più tardi, alle dieci, perché non aveva avuto il tempo di farsi la barba e di vestirsi come si deve visto che doveva essere fotografato. Aveva ancora qualche perplessità sulle mie intenzioni. Citati lo rassicurò di nuovo. Poteva fidarsi. In realtà anch’io ero perplesso. Non era troppo ambizioso voler scrivere un ritratto di Gadda come mi proponevo di fare? Immaginandolo che leggeva il mio articolo su di lui ero colto dal panico. I giovani cronisti (qual ero allora) sono sfacciati ma non sempre.

Mario Dondero era felice e ansioso di poter fotografare Carlo Emilio Gadda. Lui non aveva complessi pur conoscendo il commissario Ingravallo, l’Adalgisa, Pedro Manganones e gli altri personaggi creati dal signore (anche fisicamente) imponente che alle dieci esatte aprì la porta. Il trambusto creato dai tarli dette all’inizio dell’incontro un ritmo inatteso, agitato ma più naturale del previsto. Gli insetti coleotteri furono provvidenziali galeotti.
Prima di raggiungere il Gianicolo, dove Mario Dondero avrebbe fatto le fotografie con Roma sullo sfondo, Gadda mi chiese se non l’avessi confuso con Piero Gadda Conti. Aggiunse che capitava spesso perché quel suo cugino di primo grado, figlio di uno zio paterno, era molto più noto di lui. Era un critico cinematografico che scriveva su tanti giornali. Fui colto dallo sgomento. Aveva quel dubbio dopo avere conversato con me per più di un’ora, durante la quale avevo manifestato non solo la mia ammirazione ma anche una discreta conoscenza delle sue opere. Capii presto che era una civetteria. In cui c’era una dose di divertita, distratta ironia. Ed è con quello spirito che l’imponente settantenne, monumento vivente della nostra letteratura, si prestò poi ad assumere tutte le pose che Mario esigeva per fotografarlo. Era diventato complice di un gioco.

Il suo ristorante preferito era La Campana ed è là che ci invitò a condividere il pranzo domenicale. Appena seduti mi chiese quasi sottovoce se conoscevo Goffredo Parise. Temeva che fosse in collera con lui perché non si faceva vivo da più giorni. Non dette retta a quel che gli risposi, cioè che non ero in grado di sapere quel che pensava Parise, e mi raccontò sempre sottovoce quel che poteva averlo offeso. L’ultima volta che si erano visti, Parise era venuto a prenderlo con la sua automobile sportiva, a due posti, decappottabile, insieme alla giovane moglie. E scendendo dal Gianicolo, nelle curve la moglie di Parise gli era caduta tra le braccia. Forse il marito se n’era avuto a male. Il pensiero lo infastidiva. Cambiai argomento e convinto di fargli un piacere gli assicurai che non avrei scritto l’articolo su di lui. Dall’espressione capii che approvava.