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 2016  luglio 22 Venerdì calendario

PARTITI, ALLA CASSA

Aiutare con la beneficenza le popolazioni martoriate dalla guerra è un gesto di grande generosità. Ma supportare un partito che rischia la sopravvivenza lo è ancora di più e merita quindi un incentivo ulteriore, anche fiscalmente. Non è una battuta: è quello che prevede la legge. Ed è soltanto un aspetto, forse il più evidente ma non l’unico, di una intricata rete di agevolazioni, norme ad hoc e autentici privilegi che la politica ha steso attorno a sé dal punto di vista tributario e non.
In questo modo, sebbene il 31 dicembre i rimborsi elettorali cesseranno di esistere una volta per tutte, i partiti potranno continuare a contare su tante forme di finanziamento meno visibili ma comunque consistenti, come ricostruisce l’ultimo dossier Openpolis che "l’Espresso" presenta in anteprima. Un fiume carsico che si inabissa e scompare dalla vista ma seguita a scorrere sotto traccia e a far affluire preziose risorse nei forzieri.
Un fisco amico: sventolato dai governi di ogni colore, il grande sogno di rendere il pagamento delle tasse semplice e magari anche "sexy" (come osò affermare Romano Prodi) si è puntualmente infranto contro una pressione crescente e una burocrazia poco permeabile al cambiamento. Ma per cittadini e imprese che scelgono la politica un occhio di riguardo c’è sempre.
Come le erogazioni liberali, che godono di condizioni di estremo favore: una detrazione del 26 per cento fino a un contributo massimo di 30 mila euro (cioè 7.800 euro).
Un privilegio che non è senza conseguenze per le casse dello Stato: 27,4 milioni nel 2015 e 15,7 nel 2016 in termini di minori entrate, secondo le stime del Tesoro. E c’è pure da ringraziare, perché fino al 2012 finanziando un partito ci si poteva detrarre fino a 20 mila euro. Poi Mario Monti ha fissato un tetto alle donazioni di 10 mila euro. Una somma ritenuta troppo bassa: e così col governo Letta, per rendere meno amara la pillola, la legge che ha eliminato i rimborsi elettorali ha triplicato la soglia. Un trattamento tanto sfacciatamente benevolo che con l’ultima legge di stabilità, dopo le proteste del terzo settore per l’evidente disparità e la concorrenza sleale nei confronti di chi si impegna nel sociale, questo regime è stato esteso anche alle onlus.
Per tutti gli altri casi, però, nulla da fare, per quanto encomiabili possano essere le finalità. Ad esempio, come recita il vademecum dell’Agenzia delle entrate, chi vuole aiutare «le popolazioni colpite da calamità pubbliche o da altri eventi straordinari», tipo i rifugiati siriani che scappano dalla guerra o i nepalesi alle prese con la ricostruzione dopo il terremoto, deve accontentarsi di scaricare dalla dichiarazione dei redditi non più di 400 euro scarsi: ovvero il 19 per cento di 2.065,83.
Certo, non tutti possono avere la voglia né la sufficiente disponibilità per dare un sostegno. Ma non c’è problema, perché l’importante è soprattutto partecipare (economicamente). Per chi non vuole indulgere al mecenatismo c’è infatti il 2x1000, l’ideale per il contribuente tiepido o poco motivato, dal momento che i soldi provengono dal prelievo Irpef e quindi andrebbero comunque allo Stato. Un meccanismo bistrattato per il flop degli esordi: nel 2014 lo scelsero in appena 17 mila, furono distribuite soltanto le briciole e tutti ironizzarono sulla crisi verticale della politica, incapace di farsi finanziare anche quando il cittadino non deve mettere denaro di tasca propria. L’anno scorso però i partiti si sono organizzati e hanno evidentemente svolto una capillare opera di informazione e propaganda, perché i contribuenti che se ne sono avvalsi hanno superato il milione. E a conferma di quanto il radicamento e la militanza possano ancora avere un peso, in particolare in tempi di magra, non è una casualità che la parte del leone l’abbiano fatta il Pd (che con 600 mila "voti" ha incassato oltre metà del montepremi) e il Carroccio.
Solo che stavolta si è verificato il problema opposto, dal momento che il plafond da 9,6 milioni era insufficiente rispetto ai soldi da ripartire. Di conseguenza tutti i partiti sono stati costretti a sacrificare una parte delle risorse a loro destinate. Una rinuncia che tuttavia non dovrebbe verificarsi mai più: quest’anno sul piatto ci sono 30 milioni e il prossimo 45. Quando si dice la lungimiranza. Senza più quella pubblica, è inevitabile che la mano al portafogli dovranno metterla anche i politici. Come d’altronde in parte già avviene: il condizionale è d’obbligo ma in base alle regole interne un parlamentare di Forza Italia dovrebbe versare al "nazionale" 800 euro al mese, uno del Pd 1.500, i leghisti tremila e quelli di Sel 3.500 (tutti prevedono cifre più basse per gli amministratori locali).
Sulla base delle dichiarazioni depositate nella Tesoreria di Montecitorio, "l’Espresso" ha calcolato che nel 2015 fra strutture centrali e federazioni territoriali i partiti hanno ricevuto dai loro esponenti, eletti ai vari livelli, 20 milioni: una dozzina abbondante sono andati al Pd, tre alla Lega, uno e mezzo a testa a Forza Italia e Sinistra ecologia libertà, e via di questo passo. Ebbene, grazie a una interpretazione estensiva della legge tutti questi versamenti sono considerati erogazioni liberali (ovvero donazioni spontanee) anche quando sono obbligatori per statuto.
In tal modo l’onorevole di turno - che già non paga le tasse su diaria (42.036 euro l’anno), rimborso per l’esercizio del mandato (44.280) e "buonuscita" (fino a 40 mila euro a legislatura per i non rieletti) - può pure beneficiare delle detrazioni fiscali al 26 per cento come fosse un simpatizzante qualunque.
E per i dipendenti rimasti o che rimarranno senza lavoro a causa dell’abolizione del finanziamento pubblico, nessun pericolo. I partiti hanno pensato anche a loro, estendendo le norme sulla cassa integrazione straordinaria e i contratti di solidarietà, proprio come si trattasse di operai di una fabbrica in crisi. Costo: 35 milioni solo per il triennio 2014-2016. Con un rischio, è stato osservato: siccome la legge prevede uno stanziamento di 11 milioni "a decorrere" da quest’anno, una simile formulazione potrebbe diventare il grimaldello per trasformare un ammortizzatore provvisorio in un sussidio dalla durata indefinita.
Nel lungo elenco di agevolazioni non poteva mancare l’imposta per eccellenza, quella sul valore aggiunto, divenuta la voce con cui fare cassa nei periodi di vacche magre, l’immancabile "clausola di salvaguardia" pronta a scattare quando i conti dello Stato non tornano. L’inasprimento della pressione fiscale che ha colpito i comuni mortali non ha toccato però la politica. Dal 1993, quando il referendum radicale abolì il finanziamento pubblico (poco dopo reintrodotto surrettiziamente col nome di rimborsi elettorali), l’Iva è ferma al 4 per cento per le spese effettuate nei 90 giorni prima del voto da partiti, movimenti, liste e candidati. L’aliquota ordinaria, al contrario, è passata dal 19 al 22 per cento. Inoltre questo "sconto" si è allargato a un numero di voci sempre maggiore, di pari passo con le nuove forme comunicative e l’evoluzione tecnologica. All’inizio infatti l’agevolazione era prevista solo per gli acquisti di materiale tipografico, ma nel corso degli anni ha conosciuto una dilatazione spettacolare. Nel 2004 il governo Berlusconi l’ha estesa anche alla carta e all’inchiostro per manifesti e volantini, agli spazi di affissione, l’affitto dei locali e gli spot radiotelevisivi e su quotidiani e riviste. Nel 2012, visto che parte della pubblicità si era ormai spostata sul Web, è stata la volta dei messaggi elettorali in Rete. Una facilitazione, ha calcolato la Corte dei conti analizzando i rendiconti, che soltanto per le ultime politiche ha consentito ai partiti un risparmio di quasi 7 milioni e mezzo, a carico dello Stato.
E non è tutto, perché i benefici raggiungono pure chi dà una mano indirettamente. Alle emittenti locali che in campagna elettorale accettano di trasmettere i messaggi autogestiti a titolo gratuito, viene riconosciuto infatti un indennizzo forfettario, erogato a prescindere dalla durata degli spot e quindi anche per pochissimi secondi di spazio concesso. Nel 2015, certifica il ministero dello Sviluppo economico, nel suo complesso questa voce di spesa ha sfiorato il milione e mezzo di costo per le casse pubbliche.
E per finire, per quanto i rimborsi elettorali abbiano le ore contate, non bisogna dimenticare i fondi che le Camere e le Regioni erogano ai gruppi parlamentari e consiliari in base alla loro consistenza per il funzionamento, l’attività politica e il personale. Un fiume di denaro (85 milioni nel 2015) che, al netto delle varie agevolazioni, già rappresenta il vero sostituto del declinante finanziamento pubblico. Le cifre parlano da sole e spiegano anche la ragione di tanti cambi di casacca: un deputato "vale" 51 mila euro di contributo l’anno, un senatore 66 mila e un consigliere della ricca Liguria arriva addirittura a 88 mila.