Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  giugno 29 Mercoledì calendario

E CHIAMIAMOLA STRAGE

Per immaginare l’effetto autentico del male, che cosa significhi il suo irrompere nelle case, in cucine e cortili, spazzando via ogni pace per centinaia di persone, e scoprire ancora una volta come l’Italia abbia un bisogno smisurato di verità, c’è una cosa da fare, prima che resti sepolta sotto la distrazione ufficiale o nostra. Ripensare alla stazione di Viareggio, e alle 23.48 del 29 giugno di sette anni fa, quando un treno merci con 14 cisterne piene di gas Gpl, entrando in stazione a 90 all’ora (velocità consentita), deragliò. La prima cisterna si squarciò, e tonnellate di gas esplosivo aggredirono una cittadina già estiva, da ciabattine e code per il gelato, portando l’inferno – e inferno qui non è un’esagerazione. Viene in aiuto il libro di Federico Di Vita e Ilaria Giannini I treni non esplodono - Storie dalla strage di Viareggio (Piano B, pagg. 160, € 15): raccoglie le testimonianze di chi è sopravvissuto, di soccorritori e macchinisti, di chi ha perduto figli, fratelli.
Ci ricorda che, a sette anni di distanza, non c’è una sentenza. E che nel processo, in cui sono coinvolte 33 persone e 9 società, incombe la prescrizione per capi d’imputazione come l’incendio doloso plurimo e le lesioni colpose.
Il libro fa pensare che quella della Versilia sia stata considerata una tragedia di secondo livello (qui lo Stato non si è costituito parte civile). Emergono, anche se il testo non ne parla, analogie con la Concordia. Hanno in comune 32 vittime, la notte, e due procure toscane che inseguono una verità complessa. E un tema più generale, la sicurezza di tutti: in questo caso sulle norme per i treni che trasportano materiali infiammabili.
L’opinione degli autori, e di chi al processo in corso chiede di scrivere definitivamente la parola «strage» e non «disastro» o «spiacevolissimo episodio» (come risulta aver riferito in Senato uno degli imputati, l’allora amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti), è che a Viareggio siano in gioco poteri troppo forti. E che non si possa parlare di una serie di eventi incredibili, ma di responsabilità umane.
In attesa di una sentenza che si spera arrivi entro fine 2016, gli autori hanno raccolto le voci: riportano parole ancora vibranti, meritano memoria e giustizia.
Si parte dal rumore. Il «burubum» che sente il capostazione Carmine Magliacano quando vede il treno irrompere. E il killer, il gas che penetra come un serpente di nebbia nelle case di via Ponchielli, provocando l’esplosione di tre palazzine, subito 11 morti e 21 nei mesi successivi. La follia: strade, cime degli alberi, arti, capelli, moto; ogni realtà prende fuoco. Chi è lontano, spera che si tratti di un tramonto a mezzanotte.
C’è l’amore. Come nella parola «bimba», con cui Daniela Rombi continua a chiamare sua figlia Emanuela, morta a 21 anni e dopo 42 giorni di agonia, ustionata al 98%. O nelle lasagne al pesce e la bottiglia contenente aria di Viareggio che due amiche portano a Sara Orsi, ricoverata a Genova,
dove morirà.
E l’orrore: per la ricerca dell’ultimo disperso, arriva la Scientifica. Dicono: fermi tutti per due giorni, poi cercate i formicai. Silvano Falorni troverà così un osso del ginocchio del fratello Andrea, uscito quella notte a portare a spasso il cane Filippo. La forza di quanti hanno sostenuto operazioni atroci. O di chi, come la ragazza di origini marocchine Ibi Ayad, ha perso genitori e fratelli, si è salvata, sposata e ora ha un figlio che ha chiamato Hamza Mohammed: i nomi del fratello più grande, che morì nel tentativo di salvare la sorellina Iman, di tre anni, e del padre.
Nel libro manca Marco Piagentini, sopravvissuto con ustioni gravissime, dopo aver perduto moglie e due figli piccoli. Con Daniela Rombi, ha creato Il mondo che vorrei, Onlus dedicata alla ricerca della verità. In un’intervista al Fatto Quotidiano, Piagentini ha spiegato la differenza tra poteri forti e no. «Penso all’allora presidente Giorgio Napolitano, al quale mio figlio Leonardo (l’unico sopravvissuto, ndr), in ospedale, regalò un disegno, e che dopo pochi mesi ha dato il cavalierato a Mauro Moretti».