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 2016  giugno 30 Giovedì calendario

ABBIAMO SMESSO DI PARLARE RUSSO E CI SIAMO FATTE LA TRECCIA

Kiev sembra molto lontana dal Donbass. Degli spari neanche l’eco, dei morti e delle rappresaglie nemmeno l’ombra. E non è solo questione di chilometri e geografia - più di 700 km, oltre il corso del fiume Dnepr - ma di quotidianità. Per le strade della capitale ucraina i ragazzi passeggiano nei viali del centro, i negozi sono aperti a orario continuato, le strade sono animate da un traffico regolare, i parchi pieni di bambini che giocano e anziani che fanno partite a scacchi all’aperto. Può capitare di imbattersi in bancarelle patriottiche che mettono in vendita gagliardetti con i colori nazionali giallo-blu, bandierine e carta igienica con la faccia di Putin stampata sul primo giro di fogli, unica differenza consistente, quest’ultima, tra Kiev e una qualsiasi altra città russa.
A un secondo sguardo però, la guerra si vede anche a Kiev, in una forma rarefatta, più contemporanea. Nella sede dell’Ukraine Crisis Media Center, ad esempio, dove decine di ragazze si danno da fare ogni giorno per tenere la contabilità dei numeri provenienti dal fronte: «23 attacchi a Mariupol nella giornata di oggi dalle 6 a mezzanotte, di cui nove con il coinvolgimento di artiglieria pesante/sono stati usati mortai, artiglieria tradizionale (152mm) e lanciarazzi multipli Grad», si legge nell’aggiornamento del 28 maggio scorso, uno dei tanti. Tutto viene raccolto, dai dati delle vittime - 30.211 secondo l’ultimo rapporto ONU del marzo 2016 – alle proposte per la riforma sanitaria, fino ai numeri della nuova agenzia anticorruzione, che ha cominciato ad avviare un’operazione trasparenza finalizzata a sradicare la piaga delle tangenti. «Abbiamo ancora tutti i problemi di un’economia post-sovietica, quando la corruzione era l’unico modo per fare affari», dice Yulia, una delle attiviste del centro. Gli unici che riescono a fare affari nel Paese, al momento, sono i cinesi: escono a gruppi in grisaglia dalle hall degli alberghi del centro, e la sera organizzano tavolate ai ristoranti georgiani per festeggiare compleanni e ricorrenze. «Magari comprano un paio di edifici in periferia, poi li riempiono, vengono qui, lavorano, stanno per conto loro», dice Yulia.
Anche tutte queste ragazze sono il segno che il paese è in guerra: gli uomini che non sono al fronte o pensano di andare, o si rammaricano che qualcosa e qualcuno li trattenga – una donna, l’età, la paura – o sono appena tornati. La città è tenuta insieme da mani femminili, che accudiscono, raccolgono, organizzano, anche in politica. Il ritorno di Nadia Savchenko, la pilota ucraina prigioniera dei russi e rilasciata in cambio di due ostaggi, ha ricordato al Paese la stoffa delle sue soldatesse . Già Svetlana Aleksievic, nel suo libro La guerra non ha un volto di donna, scriveva che le migliori tiratrici scelte venivano dai campi di Ucraina e Bielorussia, in quella specie di inconsapevole laboratorio del femminismo che fu malgrado tutto l’Unione Sovietica. Dietro Nadia Savchenko – che ha già dato la sua disponibilità a diventare presidente - c’è ancora Yulia Timoshenko, la leader della rivoluzione arancione, vecchia scuola ma appetiti sempre giovani, tanto che proprio ai giovani ha messo in mano la guida del suo partito di opposizione “Patria”. Nella sua scuderia si contano molte ragazze autonome, poliglotte, orgogliose degli studi all’estero e della loro ritrovata identità ucraina: «Ho smesso di parlare il russo in casa, e mi piace vedere le donne che indossano costumi tradizionali e si acconciano al modo locale», dice la giovane deputata Alona Shkrum (segnarsi il nome). È evidente che la costruzione di un’identità non passa per una treccia arrotolata, ma l’impressione è che a Kiev ogni giorno si debba conquistare un pezzo di autonomia. Nella testa, nel cuore, nell’azione e - perché no? - anche fra i capelli.