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 2016  giugno 27 Lunedì calendario

IL GRANDE BANCHETTO DEL CINEMA ITALIANO

Il cinema italiano è sostenuto da un fiume di denaro pubblico che finisce quasi sempre nelle stesse mani. È così da decenni: pochi gruppi di produzione e distribuzione si dividono la torta, alle piccole imprese (circa il 90% del settore) restano le molliche.
Un divario destinato a diventare sempre più eclatante, ora che il governo Renzi ha deciso di aumentare le risorse. La “nuova legge cinema” è il grande orgoglio del presidente del Consiglio e del ministro della Cultura, Dario Franceschini. Il premier l’ha presentata a modo suo, a fine gennaio, con un grande incontro (auto)promozionale a Palazzo Chigi insieme a quattro premi Oscar: Roberto Benigni, Bernardo Bertolucci, Paolo Sorrentino e Giuseppe Tornatore. Il decreto governativo è attualmente allo studio della Commissione del Senato, poi ci sarà il passaggio blindato alla Camera, infine i decreti attuativi. Si dovrebbe arrivare a dama entro settembre. Le intenzioni sono chiare: un tesoro di Stato da investire per cinema e audiovisivo (principalmente tv). La legge Franceschini – che ha assorbito il ddl della senatrice Pd Di Giorgi – istituisce un fondo di almeno 400 milioni di euro all’anno: prima erano circa 250, l’aumento è del 60 per cento. Allo stesso tempo, grazie all’ultima legge di stabilità, entrano in vigore dei meccanismi che garantiscono l’accesso al denaro ai soliti “top player” del mercato. Prima di approfondire, serve un passo indietro.
COME SONO LE REGOLE OGGI
Oggi chi fa cinema può accedere ai finanziamenti pubblici diretti del ministero della Cultura, ad alcuni fondi regionali e varie detrazioni fiscali. Tra i primi c’è il “contributo alla produzione” riconosciuto dal Mibact ai film “di interesse culturale”. Lo decide una commissione composta da membri scelti dal ministero stesso. Il secondo finanziamento diretto varia in proporzione agli incassi: più un film vende, più soldi riceve dallo Stato. Un criterio curioso: le grandi produzioni e i successi commerciali sono baciati sia dal mercato che dallo Stato; se ce la fanno da soli, perché finanziarli?
Non meno controverso, peraltro, è il contributo alla produzione per “interesse culturale”. Tra i film agevolati dallo Stato – con centinaia di migliaia di euro – compaiono anche titoli dal valore artistico opinabile, diciamo: Ti stimo fratello del cabarettista Giovanni Vernia, La Banda dei Babbi Natale di Aldo, Giovanni e Giacomo, Una cella in due con Enzo Salvi e Maurizio Battista, Genitori e figli: agitare bene prima dell’uso di Giovanni Veronesi (1,1 milioni di euro di contributo). Un elenco che potrebbe continuare.
Il terzo strumento decisivo con cui lo Stato partecipa alle fortune di chi produce cinema si chiama tax credit. Prima della riforma, il credito d’imposta interno poteva coprire fino al 15 per cento dei costi di produzione, con un tetto massimo di 3 milioni e mezzo l’anno. In sostanza: se una casa di produzione spendeva 100 euro, ne recuperava 15 grazie alle detrazioni fiscali. Le grandi produzioni – i cui fatturati consentono di accedere alle detrazioni – hanno risparmiato decine di milioni di euro. Nel biennio 2014-2015 il tax credit è costato all’erario una cifra attorno ai 120 milioni. Crescerà molto.
COME SARANNO LE REGOLE DOMANI
La legge di stabilità 2016 ha modificato la disciplina del credito d’imposta per il cinema. Un bel regalo ai “top player” del mercato italiano.
La percentuale di debiti fiscali che lo Stato è disposto a compensare potrà arrivare fino al 30 per cento: in pratica si possono “scaricare” un terzo dei costi di produzione. Non solo: il tetto massimo passa da 3,5 a 6 milioni di euro. Tutti felici? Insomma. Le piccole case di produzione non beneficiano di questa norma: è molto difficile che possano fatturare abbastanza per accedere agli sgravi. Peraltro, mentre aumenta il tax credit “interno”, diminuiscono i margini per le imprese esterne al cinema che vogliono sostenere un film. Secondo la bozza di uno dei decreti attuativi, la compensazione per loro passerebbe dal 40 al 30 per cento. Se la Fiat, per fare un esempio, spendesse 100 euro in un film italiano, invece di averne indietro 40 in detrazioni fiscali, ne recupererebbe 30: aumenta il rischio per gli investitori, diminuiscono gli investimenti. Penalizzando, di nuovo, le piccole case di produzione che hanno più bisogno di reperire risorse da fuori. D’altro canto, i fondi non sono infiniti, meglio dividere tra pochi. I soliti: Wildside, Indigo, Medusa, Cattleya, Lux, Indiana, Fandango, Filmauro e poche altre. Il fatto, poi, che la torta sia destinata anche al settore audiovisivo, privilegia ancora di più i grandi gruppi che hanno anche produzioni televisive e possono accumulare i vantaggi fiscali.
GLI ULTIMI SARANNO GLI ULTIMI
La riforma Franceschini ha mantenuto una parte dei 400 milioni per le microimprese, i film d’essai e di qualità, le opere prime e seconde dei giovani registi. Pochi fondi, su cui ancora si combatte in Commissione: dovevano essere appena il 15 per cento, poi è comparso un emendamento che li portava al 25, ma è stato affossato. Ora si discute un nuovo emendamento, presentato dalla maggioranza, che dovrebbe fissarli tra il 21 e il 23% (il 3% spetterà a progetti nelle scuole). Risultato finale: il 90 per cento dei produttori si dovrà accontentare di circa un quinto delle risorse. L’accesso a questi fondi per il cinema “di qualità” dipenderà ancora da una commissione di 5 “saggi”. Il resto del denaro invece non sarà più attribuito sulla base dell’“interesse culturale”, ma “secondo parametri oggettivi che tengono conto dei risultati economici, artistici e di diffusione”. In sostanza, come prima: chi vende di più, incassa più denaro pubblico. L’Anica (l’associazione nazionale del cinema) ha dato battaglia perché la parte che spetta alle piccole imprese rimanesse la più piccola possibile. Non è un organismo democratico: il peso degli associati, in sostanza, è proporzionale al fatturato.
Uno non vale uno, insomma. Anche perché i grandi siedono ai tavoli giusti e hanno una solida rete di relazioni. Qualche esempio: il fondatore di Cattleya, Riccardo Tozzi (presidente dimissionario di Anica), è il compagno della regista Cristina Comencini, con la quale ha allevato il figlio di lei, Carlo Calenda: una brillante carriera imprenditoriale e poi politica, oggi è ministro dello Sviluppo economico nel governo Renzi. Uno degli azionisti della Wildside (insieme anche a Lorenzo Mieli, figlio del giornalista Paolo), è Mario Gianani, marito della ministra della Pubblica amministrazione, Marianna Madia. La figlia di Gianni Minoli e Matilde Bernabei (presidente della casa di produzione Lux) è sposata con Salvo Nastasi, oggi vice segretario di Palazzo Chigi, ieri plenipotenziario dei Beni Culturali. Certo, i rapporti non bastano a capire. Ma aiutano. Come canta Frankie Hi Nrg, “gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili”.
di Tommaso Rodano, il Fatto Quotidiano 27/6/2016