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 2016  giugno 24 Venerdì calendario

LA TESI OTTIMISTA: GUARDIAMO ALLE STATISTICHE GIUSTE – Fotografare lo stato di salute dell’economia cinese non è semplice

LA TESI OTTIMISTA: GUARDIAMO ALLE STATISTICHE GIUSTE – Fotografare lo stato di salute dell’economia cinese non è semplice. I dati macroeconomici sono spesso incompleti o vengono diffusi in ritardo. Per questo in passato è prevalso l’uso di altri indicatori capaci di riflettere la performance industriale. Il metodo però rischia di lasciare in ombra il dinamico settore dei servizi, non riflettendo i passi avanti compiuti da Pechino. “Eppur cresce!” avranno pensato lo scorso gennaio i notabili del Partito comunista cinese, osservando attoniti il crollo della Borsa di Shanghai. Stando alle statistiche ufficiali nel 2015, il Pil cinese si era espanso a un ritmo del 6,9%, ma agli occhi degli investitori internazionali il quadro macroeconomico era nettamente più fosco. I deludenti dati d’inizio anno riguardanti il settore manifatturiero – dalla produzione industriale alla domanda di materie prime fino alle esportazioni di beni di consumo – stonavano con i numeri dell’economia nel suo complesso, alimentando il dubbio di manipolazione dei conti nazionali da parte di Pechino. Così, in poco più di due settimane, lo Shanghai Composite Index è affondato di quasi il 24%, trascinando con sé le borse di tutto il mondo. A qualche mese di distanza è lecito sostenere che il panico d’inizio anno, così come l’attuale scetticismo sulla solidità dell’economia del Dragone, non fosse giustificato. L’eccessiva attenzione alla crescita del settore industriale cinese fornisce un quadro economico non meno distorto rispetto a quello dipinto dalla propaganda di partito. Per decenni ci siamo abituati a considerare la Cina come la grande manifattura del mondo. Oggi, però, il modello di crescita cinese è sempre più incentrato sui servizi e i consumi interni, e sempre meno sull’industria pesante e sulle esportazioni. Il settore terziario rappresenta ormai il 50% del Pil e cresce a un tasso dieci volte superiore rispetto a quello manifatturiero. Eppure i mercati sembrano ignorare questa metamorfosi strutturale, continuando a utilizzare metodologie d’analisi adatte per la vecchia economia, ma inadeguate per quella emergente. Caos macroeconomico e volatilità finanziaria sono gli inevitabili effetti collaterali di questa inerzia intellettuale. L’ECONOMIA SECONDO LI KEQIANG. Indubbiamente, i numeri ufficiali del Pil cinese devono essere presi con estrema cautela. Le stime di crescita vengono rilasciate a distanza di sole due settimane dalla fine del trimestre e sono sempre perfettamente in linea con il target di crescita fissato dal partito. Nelle economie avanzate, invece, nonostante le maggiori risorse tecniche, finanziarie e umane a disposizione, sono necessarie almeno quattro settimane per ottenere dati trimestrali preliminari, spesso soggetti a revisioni nei mesi successivi. Inoltre, la forte discrepanza tra i numeri di Pil cinese forniti dal governo centrale e quelli ottenuti combinando le informazioni date dalle singole provincie lascia quantomeno perplessi sulla qualità della raccolta dati in generale. Non stupisce, pertanto, che in passato lo stesso Li Keqiang, attuale premier cinese, abbia messo in dubbio i dati prodotti dall’Ufficio nazionale di Statistica. Stando a documenti resi pubblici da Wikileaks, nel 2007 Li, allora segretario del Partito nel Lianoing (una zona a forte vocazione industriale), confessò all’ambasciatore americano in Cina di ritenere poco credibili le statistiche fornite da Pechino. Per valutare l’effettivo stato di salute dell’economia. Li preferiva affidarsi a dati disaggregati come quelli riguardanti la crescita del credito, il consumo di energia elettrica e i volumi di trasporto ferroviario merci. Con quei tre semplici indicatori era possibile cogliere appieno, e senza manipolazioni di sorta, le dinamiche della vecchia economia, basata su un modello di crescita molto semplice: i colossi industriali cinesi, finanziati a buon mercato da banche controllate dallo Stato, consumavano grandi quantità di energia elettrica per produrre i propri beni e spedirli via treno al porto più vicino, da dove sarebbero poi stati esportati in giro per il mondo. Ancora oggi, gli analisti finanziari fanno spesso riferimento proprio al cosiddetto “Li Keqiang Index”, che combina misure relative al settore creditizio, energetico e ferroviario, fornendo stime alternative, e in teoria più affidabili, di Pil. Ebbene, secondo il Li Keqiang Index prodotto da Bloomberg, nel 2015 la Cina sarebbe cresciuta a stento al 2,4% – quasi cinque punti percentuali in meno rispetto a quanto affermato da Pechino. In tutta la sua semplicità, un simile approccio era accettabile una decina di anni fa, quando il settore industriale rappresentava oltre il 60% del Pil cinese. Adesso, però, un indicatore di questo genere, o alcune delle sue componenti come il consumo di energia elettrica, ignorano completamente quanto accade nella parte più dinamica e rilevante dell’economia, dove si stanno gettando le basi per consolidare il benessere della classe media cinese e per far entrare a pieno diritto la Cina nel club delle economie avanzate. Come esempio concreto, prendiamo in considerazione due indicatori: la crescita mensile del trasporto ferroviario merci e quella del trasporto ferroviario passeggeri. II primo approssima l’andamento della vecchia economia e viene utilizzato nel Li Keqiang Index; il secondo, escluso dall’indice, fornisce indirettamente informazioni sull’andamento del settore turistico domestico, che tende a espandersi con l’allargarsi della classe media. Da molto tempo ormai, il traffico merci sta rallentando in modo marcato, passando da un tasso di espansione del 15% nel 2010 a uno di contrazione di circa il 10% nel 2015. Il traffico passeggeri, invece, cresce in media a un tasso del 10% annuo, sostenuto da un settore turistico interno in forte boom. Visti gli opposti movimenti di questi due indicatori, includere l’uno o l’altro nel Li Keqiang Index cambia radicalmente la percezione dell’andamento dell’economia nel suo complesso. IL RASSICURANTE DINAMISMO DEI SERVIZI. Uno sguardo più attento al settore dei servizi dovrebbe rassicurare anche il più scettico osservatore dell’economia cinese. Da gennaio a novembre dello scorso anno, in Cina sono state fondate circa 3,9 milioni di nuove società, principalmente nel turismo, nella sanità, nello sport e nell’istruzione. Inoltre, salari in forte crescita stanno aumentando sensibilmente il potere d’acquisto del proletariato urbano, stimolando i consumi domestici e attraendo imprese multinazionali da tutto il mondo. Nonostante i consumi privati rappresentino soltanto il 34% del Pil e non abbiano ancora superato per dimensione gli investimenti in capitale fisico, la spesa discrezionale per attività ricreative o culturali ha ormai surclassato, in termini di ritmo di espansione, l’acquisto di beni di prima necessità – come lecito aspettarsi quando la popolazione si arricchisce e sfugge alla trappola della povertà. L’industria dell’intrattenimento e l’economia digitale forniscono esempi interessanti di questo rapido processo di trasformazione economica. Nel 2014, la Cina si è confermata essere il secondo mercato al mondo, dopo gli USA, per l’industria cinematografica, con ricavi al botteghino superiori ai 4 miliardi di dollari. Inoltre, le attività di online banking ed e-commerce, così come il numero di utenti internet, stanno crescendo a tassi elevatissimi, anche superiori al 15%. Lo scorso 11 novembre, durante il cosiddetto Single Day (l’equivalente di San Valentino per i non accoppiati), il colosso cinese del commercio online, Alibaba, ha incassato la cifra astronomica di 14,3 miliardi di dollari in sole 24 ore, l’equivalente di quasi un punto percentuale di Pil italiano. Versioni rivedute del Li Keqiang Index, che comprendano anche misure relative al settore dei servizi, come le vendite al dettaglio o il trasporto ferroviario passeggeri, sono sostanzialmente in linea con i dati ufficiali di Pil. Per distrarre dalla contrazione del settore industriale e riportare un po’ di ottimismo nella comunità finanziaria, anche il governo cinese ha da poco lanciato il cosiddetto “New Li Keqiang Index”, che guarda all’andamento dell’occupazione, del reddito nelle aree urbane e alla qualità ambientale. Queste argomentazioni non vogliono sottovalutare la complessità del ribilanciamento strutturale di un’economia popolata da più di un miliardo di persone. Le sfide per Pechino sono indubbiamente immense e numerose, e il risultato finale rimane altamente incerto. Si pensi, per esempio, al rischio di bolle immobiliari in molte città, a un livello d’indebitamento poco sostenibile, a dinamiche demografiche poco favorevoli o all’eccesso di capacità produttiva in molti settori. L’intervento del governo attraverso politiche monetarie e fiscali molto accomodanti sarà inevitabile per facilitare la transizione verso un’economia matura. Pur consapevoli di queste sfide enormi, non si può non guardare al bicchiere mezzo pieno. Nonostante un hard landing del settore industriale cinese possa comportare costi incommensurabili per il resto del mondo – colpendo in particolare gli esportatori di macchinari come i colossi tedeschi della meccanica – l’emergere di una classe media florida in Cina può in parte compensare questi effetti negativi, aprendo agli investitori internazionali le porte del più grande mercato potenziale per beni di consumo di massa. LA NOSTRA INERZIA INTELLETTUALE. Rimane allora da chiedersi per quale ragione mercati e analisti guardino alla Cina concentrandosi sulla vecchia economia ormai in declino, quasi ignorando i settori più in espansione. L’approccio – oggi in grande espansione – della “economia comportamentale” può fornire un’utile spiegazione: secondo il premio Nobel per l’Economia Daniel Kahneman, gli esseri umani hanno la tendenza a commettere errori sistematici di giudizio a causa di una sorta d’inerzia intellettuale, un cognitive bias in gergo tecnico, che ci porta a pensare che il mondo non cambi mai. Anche quando ammettiamo che qualche grande trasformazione sia in atto, siamo lenti ad aggiornare i nostri strumenti di analisi per valutare correttamente la nuova realtà. Applicando questa teoria alla Cina, è evidente che i mercati riconoscano il processo di ribilanciamento strutturale in atto, ma ai loro occhi il Dragone rimane la manifattura del mondo. Collettivamente, questo modo di approcciare la realtà può portare a eventi disastrosi, come il panic selling, che possono degenerare in crisi economiche e finanziarie ingiustificate dal punto di vista dei fondamentali macroeconomici. Soprattutto, se si considera che molti investitori finanziari occidentali, pur trovandosi a migliaia di chilometri di distanza dalla Cina, reagiscono in modo impulsivo a informazioni provenienti da Pechino, senza avere un’effettiva conoscenza della realtà locale. Certo la qualità dei dati a nostra disposizione alimenta questa inerzia intellettuale. La maggior parte degli indicatori utilizzati per misurare la salute del settore dei servizi cinese sono rilasciati con notevole ritardo o sono semplicemente incompleti. Per esempio, i dati per i servizi online sono pubblicati con sei mesi di ritardo, mentre le statistiche relative alle vendite al dettaglio escludono completamente l’economia digitale. Inevitabilmente, un investitore interessato a capire a quale punto del ciclo economico si trovi la Cina deve ricorrere ai dati concernenti l’industria, che sono a più alta frequenza e in linea con gli standard internazionali. Tuttavia, l’assenza di statistiche adeguate per il settore terziario non giustifica l’utilizzo di indicatori fuorvianti. Per comprendere davvero cosa stia accadendo nell’economia cinese, bisogna ricorrere a intelligence locale e a indicatori economici non ortodossi per un analista finanziario, come i ricavi al botteghino o il numero di utilizzatori di connessioni 4G, così come alla costruzione di nuovi modelli d’analisi e alla creazione di indicatori alternativi al Li Keqiang Index. Allo stesso tempo, Pechino dovrebbe cooperare con il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e la Banca asiatica di Sviluppo per produrre statistiche più trasparenti e complete, in modo da evitare panico ingiustificato e turbolenze finanziarie. Nel 2007, l’allora premier Wen Jiabao affermò preoccupato che l’economia cinese fosse “instabile, sbilanciata, non coordinata e non sostenibile”. A distanza di qualche anno si può affermare che, nonostante la strada rimanga tortuosa, numerosi passi nella giusta direzione sono stati fatti. Per rendersene conto, però, bisogna guardare alle statistiche giuste. Le opinioni espresse sono strettamente personali. Edoardo Campanella è un economista presso UniCredit e finalista del Bracken Bower Prize, messo in palio dal Financial Times e McKinsey.