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 2016  giugno 24 Venerdì calendario

LA TESI PESSIMISTA: IL PUNTO DI NON RITORNO – Malgrado il recente fiume di credito deciso da Xi, l’economia cinese è entrata in un circolo vizioso, simile alla Grande Depressione del 1929: il paese ha raggiunto i limiti di sviluppo consentiti dal suo assetto politico-istituzionale

LA TESI PESSIMISTA: IL PUNTO DI NON RITORNO – Malgrado il recente fiume di credito deciso da Xi, l’economia cinese è entrata in un circolo vizioso, simile alla Grande Depressione del 1929: il paese ha raggiunto i limiti di sviluppo consentiti dal suo assetto politico-istituzionale. Le riforme sono necessarie ma il Partito comunista cerca invece di rafforzare l’interventismo statale. Crescono le minacce all’attuale leadership; intanto la Cina stessa diventa pericolosa per il resto del mondo. C’è oggi qualcosa di profondamente sbagliato in Cina. Tutti lo sanno. Molti cercano di minimizzare i problemi e di fornire spiegazioni rassicuranti, ma è chiaro che le cose non vanno bene. A partire dal motore dell’ascesa cinese: l’economia. L’Ufficio nazionale di Statistica ha riportato che il prodotto interno lordo cinese è cresciuto del 6,7% nel primo trimestre del 2016. Il dato è in linea con l’obiettivo di crescita fissato dal premier Li Keqiang per quest’anno (tra 6,5 e 7%) e vicino al risultato del 2015 (6,9%). Tuttavia, i numeri dell’Ufficio di Statistica stridono con altri indicatori. In particolare, quel 6,7% mal si accorda con quello che resta il migliore indicatore dell’attività economica cinese: il consumo di elettricità. Questo, secondo fonti ufficiali, è aumentato di appena il 3,2% nel primo trimestre dell’anno. Inoltre, nello stesso periodo l’economia è cresciuta comunque meno rispetto agli stessi mesi del 2015, anno in cui, secondo molti analisti, la crescita reale dell’economia cinese è stata del 4%, se non meno. L’ECONOMIA CINESE: UN QUADRO SEMPRE PIÙ FOSCO. Per certi versi non importa quanto cresca esattamente il Pil. Importa invece che i leader cinesi stiano perdendo la capacità di correggere la traiettoria discendente dell’economia e che i loro tentativi di invertire la rotta stiano ottenendo l’effetto contrario. L’unica ragione per cui l’economia non è collassata nel primo trimestre del 2016, dopo un gennaio e un febbraio disastrosi, è stata il massiccio incremento di credito e spesa nel mese di marzo. Come ha scritto Alex Frangos sul Wall Street Journal, il premier ha inondato l’economia con “un fiume di debito”. A marzo le istituzioni finanziarie cinesi hanno infatti erogato 1.370 miliardi di renmimbi (211,3 miliardi di dollari) di nuovo credito, quasi il doppio rispetto al mese precedente (726,6 miliardi di yuan). Nello stesso periodo del 2015 il credito era meno della metà, nota Tim Condon di ING Group. Le banche cinesi non sono state l’unico carburante di questa fiammata. I dati del ministero delle Finanze mostrano che a marzo, a fronte di un aumento delle entrate governative del 7,1%, la spesa pubblica è schizzata in alto di oltre il 20%. Dunque, lo stimolo messo in campo da Pechino ha prodotto crescita a marzo, ma questa è chiaramente insostenibile. Anche prendendo per buoni i numeri ufficiali, la Cina sta accumulando debito a un ritmo più che doppio rispetto alla crescita. In realtà il rapporto è di circa 4 a 1, ma vi sono anche stime più fosche. “Ogni anno la Cina accumula una quantità di debito pari al 25% del suo Pil, malgrado i proclami sulla volontà di ridurlo”, afferma Anne Stevenson-Yang della J Capital Research di Pechino. “Intanto, il capitale investito diviene meno efficiente: per ogni nuovo dollaro investito ormai il ritorno è di appena 17 centesimi”. Secondo i media di Stato la Cina sta compiendo “un’ambiziosa transizione” dal “vecchio modello di crescita basato sul credito, sugli investimenti e sulle esportazioni“ verso una nuova economia “trainata dai consumi e dall’imprenditoria”. Questo però è falso. Se fosse vero, l’orgia di debito e spesa cui abbiamo assistito nel primo trimestre di quest’anno non sarebbe stata necessaria. I problemi della Cina appaiono sistemici, non ciclici o transitori. Inoltre, il paese ha oltrepassato uno spartiacque: se prima era in un “circolo virtuoso” dove tutto concorreva a rafforzare l’andamento positivo, ora i numerosi problemi economici si manifestano contemporaneamente e la maggior parte delle soluzioni escogitate non fanno che aggravare il quadro. Per questa e per altre ragioni, l’economia sembra aver superato il punto di non ritorno. Ciò significa che la Cina appare destinata a decenni di stagnazione o di recessione (come il Giappone nei primi anni Novanta); ovvero, più probabilmente, a un aggiustamento simile alla crisi statunitense del 1929. XI: LA MARCIA INDIETRO DELLE RIFORME. In ogni caso, popolazione cinese e investitori internazionali hanno perso la Fiducia. Ciò spiega perché nel 2015 i soldi abbiano lasciato il paese a un ritmo senza precedenti: in 12 mesi la fuga di capitali si è aggirata tra i 676 miliardi (stima dell’Institute for International Finance) e i mille miliardi di dollari (Bloomberg). Secondo molti osservatori, l’unica cosa che la dirigenza cinese può fare per rendere sostenibile la crescita è realizzare riforme strutturali. Il presidente Xi Jinping ha parlato di riforme, specie al terzo e al quinto plenum del Partito comunista, rispettivamente nel 2013 e nel 2015. Il problema è che alle parole non sono seguiti molti fatti. Vi sono stati alcuni progressi, ma in molti casi si è trattato di apparenza più che di sostanza. Anzi, i cambiamenti strutturali avvenuti negli ultimi anni sono stati per lo più in senso regressivo. Da quando Xi è al potere, la Cina ha infatti precluso i suoi mercati agli stranieri con pratiche altamente discriminatorie: imprese di Stato già grandi sono state fuse a formare nuovi monopoli, la quota di partecipazione statale nelle aziende pubbliche è aumentata, i sussidi governativi a favore degli imprenditori “amici” sono stati incrementati, l’ingerenza nei mercati azionari e monetari è cresciuta e sono stati ripristinati i controlli sui capitali. Il “sogno cinese”, l’iniziativa manifesto di Xi, prevede uno Stato forte, ma una Cina a controllo statale non può facilmente realizzare riforme di mercato. Sfortunatamente per Xi, non esistono soluzioni economiche possibili nell’ambito del modello politico da lui perseguito: in sostanza, la Repubblica popolare ha raggiunto i limiti di sviluppo consentiti dall’attuale assetto politico-istituzionale. Ulteriori riforme metterebbero a repentaglio l’indiscusso primato del Partito comunista, che quindi non intende promuovere reali cambiamenti. Un’economia di mercato richiede ad esempio lo stato di diritto, che a sua volta implica “freni istituzionali” al governo. Siccome queste limitazioni sono incompatibili con la volontà del Partito di continuare a dominare la società, la Cina non può muovere concreti passi avanti all’interno del sistema attuale. Il paese risulta così intrappolato in un circolo vizioso: la crisi economica alimenta una crisi di legittimità, la quale giustifica provvedimenti repressivi; questi rendono impossibili le riforme e la mancanza di riforme, in prospettiva, deprime ulteriormente l’economia. Come si evince dal boom di spesa e investimenti in corso, il pensiero dominante a Pechino è che la Cina non possa permettersi le riforme e che l’economia necessiti di misure ben sperimentate per ripartire. In effetti, la diagnosi del Partito appare corretta: la situazione è a tal punto deteriorata che la soluzione di lungo termine – le riforme strutturali – provocherebbe nell’immediato un collasso dell’economia. Tradotto in pratica: no alle liberalizzazioni, sì all’interventismo statale. E dato che quest’ultimo non rappresenta una soluzione di lungo periodo, il paese si ritrova sull’orlo del baratro. IL MOMENTO DELLA VERITÀ SI AVVICINA. La Cina sta tornando indietro, isolandosi dal resto del mondo. I funzionari del Partito non lo vorrebbero, ma sembrano convinti di non avere scelta. In una Cina isolata, la classe dirigente eserciterà un controllo maggiore sull’economia. Le misure governative, ad esempio, potrebbero rallentare in un primo momento l’emorragia di capitali, ma questo ha un costo: alla lunga, gli stranieri saranno scoraggiati dall’investire in Cina e lo sviluppo economico del paese ne risulterà fortemente pregiudicato. Nei prossimi mesi, l’economia cinese rallenterà fino a fermarsi e man mano che la crescita diminuisce, i rischi di un collasso aumentano. A un certo punto le autorità centrali, locali e provinciali non saranno più in grado di salvare i grandi debitori insolventi: i fallimenti si stanno già intensificando, come emerge dalla bancarotta di Dongbei Steel, tra le altre. Swap, riscadenzamenti e condoni non fanno che rinviare l’inevitabile. Finora le autorità sono riuscite a rimandare il momento della verità, ma così facendo hanno reso ancor più pesante l’aggiustamento che attende il paese. Con le misure adottate, i leader politici cinesi hanno impedito che il sistema fosse emendato, ma in tal modo ne hanno esacerbato gli squilibri di fondo e ciò rende più dolorosa l’ineluttabile correzione. Le flessioni cicliche sono essenziali, perché consentono di correggere gli scompensi quando sono ancora relativamente contenuti. Secondo l’Ufficio nazionale di Statistica, l’ultima contrazione annuale del prodotto interno lordo cinese si è avuta nel 1976, l’anno della morte di Mao Zedong. La prossima recessione sarà pertanto un evento storico: i vertici del Partito faranno di tutto per esorcizzarla e quando dovranno gettare la spugna l’economia collasserà. I cittadini cinesi sono comprensibilmente preoccupati: uno studio di Barclays pubblicato nel settembre 2014 indicava che un astronomico 47% dei ricchi intendeva lasciare il paese nei successivi cinque anni. Da allora, la situazione si è ulteriormente aggravata. L’economia cinese però non galleggia nel nulla: essa è influenzata dal sistema politico nazionale e buona parte degli analisti sostiene che Xi Jinping sia il leader più forte che la Cina abbia avuto dai tempi di Deng Xiaoping, forse addirittura di Mao. Dopo aver eliminato gli oppositori, accusandoli di “corruzione”, Xi è diventato “presidente di tutto” e ha sottratto autorità anche a Li Keiqiang, che in qualità di premier dovrebbe gestire l’economia. Con il risultato, però, che ora è Xi, non Li, il responsabile degli evidenti problemi economici; così i molti oppositori politici del presidente – che al pari del premier hanno sin qui tenuto un profilo basso – saranno ancor più motivati a spodestarlo. UN PRESIDENTE SOTTO PRESSIONE E I RISCHI INTERNAZIONALI. Xi è chiaramente nei guai. Negli ultimi mesi i suoi nemici hanno osato persino sfidarlo in pubblico: a marzo la Commissione centrale di ispezione disciplinare del Partito – fulcro della personale campagna anticorruzione condotta dal presidente – ha pubblicato sul suo sito un attacco al piglio autoritario di Xi nella forma di un saggio dal titolo “Mille lacchè non possono eguagliare un consigliere onesto”. Su un sito semi-ufficiale è apparso anche un misterioso appello alle sue dimissioni e l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua lo ha definito in un articolo “l’ultimo leader cinese”. Il Partito è sul punto di aprire un altro capitolo delle sue estenuanti lotte intestine per il potere; se ne erano viste le avvisaglie già nel 2012 (alla vigilia dell’ascesa di Xi) e ancora nel 2014, con le voci insistenti di golpe e di piani per assassinare il presidente. Tali voci si sono rivelate in gran parte infondate, ma nelle alte sfere del potere il fuoco cova sotto la cenere. Xi ha creato una situazione per cui molti, probabilmente a ragione, sono convinti di non avere alternativa alla lotta. Secondo alcuni osservatori, la ragione per cui Xi è ancora in sella è che gli oppositori temono l’instabilità derivante da una sua rimozione. Mentre il presidente lotta contro l’opposizione interna, gli alti gradi delle forze armate accrescono la loro influenza politica e impongono la “diplomazia militare” al paese. Gli ufficiali cinesi, dai generali ai luogotenenti, coltivano i propri interessi in modo sempre più arrogante e bellicoso. Per loro stessa ammissione, si preparano a uno scontro. E in un momento di transizione politica, forse nessun civile può e vuole assumersi il rischio di dare ordini ai capi militari. Intanto, lo “stile impulsivo” di Xi in politica estera, sottolineato da molti, suggerisce che la politica cinese va perdendo coerenza anche verso l’esterno. La ragione potrebbe essere appunto che generali e ammiragli sono oggi così forti da fare sostanzialmente ciò che vogliono, essendo minima la supervisione civile. Il loro nazionalismo militante sta creando frizioni con un arco di nazioni che va dall’India alla Corea del Sud. Inoltre, la Cina sta cercando di interdire le acque del Mar Giallo, del Mar Cinese orientale e di quello meridionale, con varie rivendicazioni territoriali. In questo tentativo di dominare le acque internazionali, nell’ultimo decennio Pechino ha già sottratto l’arcipelago di Scarborough alle Filippine. La comunità internazionale ha ignorato quest’atto di aggressione nella speranza che la Cina si accontentasse della sua conquista, ma l’esercito cinese, galvanizzato dal successo, ha esteso le sue pretese ad altri territori filippini (secondo arcipelago di Thomas) e giapponesi (isole Senkaku, Diaoyu per i cinesi). Gli eventi cui assistiamo oggi ricordano molto quelli che hanno preceduto i grandi conflitti geopolitici del XX secolo. La Repubblica popolare cinese è diversa dagli aggressori del passato, ma la dinamica è la stessa. Man mano che le sue ambizioni crescono, Pechino prende una china sempre più pericolosa. Il paese è entrato in una fase turbolenta e l’idea di un’ascesa pacifica, all’insegna della prosperità, appare ormai tramontata. Gordon G. Chang, analista e opinionista, è autore di The Coming Collapse of China.