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 2016  giugno 24 Venerdì calendario

L’AMORE AI TEMPI DELLA RIVOLUZIONE


Il 13 febbraio del 1929 andava in scena per la prima volta a Mosca la pièce teatrale satirica di Majakovskij La Cimice. Ne scrive Srecko Horvat in La radicalità dell’amore. Desiderio e rivoluzione (Derive Approdi): «La pièce, che come tutta la migliore fantascienza è una critica al regime esistente, offre una rappresentazione davvero poco lusinghiera della futura società socialista. Un operaio ibernato in un blocco di ghiaccio si risveglia dopo cinquant’anni in un futuro nel quale saranno eliminati vizi umani quali l’alcolismo, le bestemmie e i pensieri borghesi, ma sarà anche proibito l’amore». Ecco cosa scriveva Majakovskij a proposito di una ragazza che cominciava a manifestare strani sintomi: «I professori dicono che si tratta di attacchi di innamoramento acuto; così si chiamava un’antica malattia, quando l’energia sessuale umana, da noi ragionevolmente distribuita per tutta la vita, si condensa all’improvviso, nel corso di una sola settimana, in un processo infiammatorio galoppante che porta a gesti insani e imprevedibili». Si può dire che i «terribili microbi innamorati» di Majakovskij incarnino in qualche modo il tema del libro di Horvat, che analizza l’idea dell’amore come principio rivoluzionario che nello stesso tempo attrae e terrorizza. Horvat è un filosofo croato poco più che trentenne che oggi lavora con Yanis Varoufakis; è autore di un saggio con Slavoj Zizek e di editoriali sul New York Times, El Pais, The Guardian...
Horvat cita Engels: «Un fatto curioso, in ogni movimento rivoluzionario di qualche importanza, il problema del “libero amore” si pone in primo piano». Forse desiderato ma, ancora più spesso, temuto. È stato così, ad esempio, per la Rivoluzione d’Ottobre. Come racconta Horvat, per Lenin la centralità del tema dell’amore libero negli scritti della paladina dei diritti delle donne Alexandra Kollontaj e di Inessa Armand (che probabilmente da Lenin è stata molto amata) rischiava di distrarre dagli impegni rivoluzionari e rappresentava una «rivendicazione borghese e non proletaria». Ma, racconta Horvat: «Nel profondo del suo cuore, Lenin era un romantico. Ciò che non capiva era che Kollontaj o Inessa Armand non aspiravano all’adulterio o alla promiscuità, ma a modelli relazionali per i quali il sesso non poteva esistere senza l’amore, né l’amore senza il sesso».
Qualche decennio più tardi Che Guevara si trovò a dover scegliere tra l’amore romantico per la moglie Aleida e la rivoluzione. Scelse la seconda, lasciando Aleida a crescere i figli da sola: «Aiutami ora Aleida, sii forte, non mi creare problemi che non si possono risolvere» le scrisse in una lettera. «Quando ci siamo sposati sapevi chi ero. Amami, appassionatamente, ma capiscimi. Il mio destino è segnato, niente mi fermerà fino alla morte». Che Guevara fu ucciso in Bolivia nel ’67. Poco dopo arrivò il ’68, e poi gli anni Settanta, con le comuni, il divorzio, l’aborto, il privato come politico e gli slogan del tipo «la famiglia è ariosa come una camera a gas». Ma un conto sono i diritti, un altro il dilemma su monogamia e poliamore, più facile da risolvere con la teoria che con la pratica. Come scrisse il filosofo Daniel Bensaid nelle sue memorie su quegli anni: «Malgrado le solenni dichiarazioni di liberazione condivisa, gli esseri umani non sono comunque sempre uguali di fronte alla gelosia e alle miserie del cuore».
Horvat porta ad esempio la relazione «aperta» tra Jean-Paul Sartre e Simone De Beauvoir. Rileggendo le lettere che De Beauvoir scrisse a Sartre alla fine degli anni ’30, è chiaro come lei, pur senza ammetterlo chiaramente, ne soffrì: «Quando sei qui credo di sapere abbastanza bene che il nostro amore è il più vero. Ma da lontano è più difficile vederti girare intorno ad altri cuori». D’altra parte, fa notare anche Horvat, non ci possono essere rivoluzione, né amore, senza il rischio di farsi male: «Un momento autenticamente rivoluzionario», scrive, «è come l’amore, è una rottura del mondo, del regolare corso degli eventi». E aggiunge: «Ogni tentativo di parlare e scrivere di amore è inevitabilmente legato a una grande difficoltà, a una specie di inquietudine: le parole non bastano mai». È vero, i «terribili microbi innamorati» non si lasciano imbrigliare facilmente dalle parole. Come scrisse Shakespeare, facendo parlare Romeo: «Appendi al chiodo la tua filosofia! Se la filosofia non può creare una Giulietta, trasferire una città, rovesciare la sentenza di un principe, essa non giova, non val nulla; non parlare più».
Ma se parole devono essere, che siano le più semplici: «Nel nostro viaggio alla ricerca di un possibile significato della radicalità dell’amore dobbiamo sperimentare domande apparentemente ingenue», dice Horvat. «Come quelle che Pasolini formulava nel 1963 quando con una cinepresa e un microfono viaggiava per l’Italia intera, per realizzare Comizi d’amore, chiedendo ai bambini come vengono al mondo, ai soldati se preferiscono essere un “Don Giovanni o un buon padre”, ai calciatori cosa pensano della repressione sessuale, alle operaie cosa pensano di prostituzione, verginità, omosessualità e divorzio». Un’altra cosa da fare, secondo Horvat, è dimenticare il concetto di «amore a rischio zero». Horvat utilizza un paragone azzardato: «Ciò con cui siamo alle prese è il movimento globalmente diffuso di proteggersi dal rischio, dalle nostre società occidentali decadenti e permissive al fondamentalismo islamico, unito è il fronte di lotta contro il desiderio», ma le sue parole smuovono qualcosa. Gli attacchi di innamoramento acuto sembrano ancora oggi guardati con sospetto, proprio come nella Cimice di Majakovskij. Per non parlare della possibilità che possano rivoluzionare, se non la società, almeno la vita personale. Che è già qualcosa. Ma bisogna impegnarsi. Lo dice bene il filosofo francese Alain Badiou nel suo Elogio dell’amore: «È la casualità di un incontro che viene sconfitta giorno dopo giorno dall’invenzione di qualcosa che durerà».