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 2016  giugno 24 Venerdì calendario

CENSURANDO BULGAKOV LE IMPIEGATE PIANGEVANO


Si chiama Vitalij Aleksandrovic Sentalinskij. È nato nel 1938 e ha scritto tre libri – Schiavi della libertà, Delitto senza castigo, Delazione contro Socrate – ancora inediti in Italia, a parte uno scampolo pubblicato da Garzanti nel 1994 con il titolo I manoscritti non bruciano, in cui evoca la propria ostinata vocazione a resuscitare la memoria degli scrittori che nell’Unione Sovietica vennero spiati, vessati, interrogati, fatti sparire. In gioventù, nell’isola di Wrangel, tagliata dal 180° parallelo, Oceano Artico, Sentalinskij aveva monitorato l’orso bianco, seguendone vicende e caratteri. Poi, abbandonato il voyeurismo naturalistico, si rivoltò alla letteratura: racconti sul mondo gelato dell’Artico, poesie e soprattutto la narrazione autobiografica del garbuglio vissuto durante il disgelo dell’Urss. Rassicurato dai tempi utopici della Perestrojka, era riuscito, tra reticenze e inganni, a far riesumare gli archivi della Lubjanka dov’erano ancora conservate in un rigido ascondimento tutte le nefandezze perpetrate contro gli intellettuali al tempo dell’Uomo d’Acciaio. Aveva affrontato il monolite, il sinistro mito dell’invitta Lubjanka, il palazzone edificato nel 1898 nel centro di Mosca, palladiana e neobarocca sede della Compagnia di Assicurazioni Rossija dai celebrati eleganti e sonori parquet, il verde chiaro delle pareti. Prima. Poi, dal 1918, sede della Ceka, i servizi segreti sovietici. Sulla facciata l’orologio a scandire i tempi.
La storia di Sentalinskij è raccontata oggi con un libro-groviglio – Luciana Vagge Saccorotti, Il Maestro svelato, Bulgakov riemerge dalla Lubjanka (Gammarò, pp. 170, euro 18) – dove si apprende, coinvolti da un malessere post ubriacatura, come si svolse la riesumazione delle carte secretate e i non facili rapporti con la nuova burocrazia, ancora molto burokratja, nonostante i tempi mutati. In apparenza. C’era chi voleva non risvegliare gli scheletri negli armadi: i fascicoli di testimonianze, spiate, interrogatori di gente come Babel, Bulgakov, Florenskij, Pil’niak, Mandel’stam, Platonov, Kljuev, Gor’kij, il marito e la figlia di Marina Cvetaeva, Gumilev, Kataev... Un martirologio di «nemici del popolo, spie, sabotatori, controrivoluzionari», com’erano indicati gli intellettuali dissidenti dell’età staliniana. Carte su cui, per mezzo di falsificazioni, distorsioni, manipolazioni, camuffamenti, terroristiche imboscate, si era andato edificando l’ineffabile edificio del potere sovietico. Trovati i fascicoli, Sentalinskij scoprì il sistema con cui i funzionari della Lubjanka avevano inventato il corpo del reato per processare gli intellettuali: autografi con cui gli stessi sottoposti agli interrogatori erano costretti a stilare da se medesimi i verbali di autoaccusa.
Con l’andamento di una inestricabile, irrisolvibile sciarada, con Il Maestro svelato, per quanto possibile, oltre i nefasti Anni Trenta, si dipana un poco il graticcio dei tempi, quando in Unione Sovietica, alla fine degli anni Ottanta del Novecento, si cominciò a profilare l’ipotesi di una ricostruzione e una lettura più trasparente della vita pubblica in Russia. E fu in quella schiarita che Sentalinskij si impegnò a ridare la parola agli scrittori seppelliti nelle poliziesche cantine. Sembrava tutto cambiato. Non completamente. Fu sconsigliato. «Non ti lasceranno mai entrare nei loro archivi». L’uomo che aveva avuto familiarità con gli orsi bianchi non desistette. Nell’epoca della Glasnost e della Perestrojka il sistema si perpetrava. Le mentalità e le paure sono dure a svanire. Sentalinskij impiegò un anno per far capire alla nuova burocrazia che per rinascere bisognava salvaguardare la memoria degli scrittori vittime della repressione. Incombeva ancora la nefasta ala del Kgb.
Sentalinskij riuscì nell’impresa assolutamente incredibile pur tra le proteste, le insinuazioni, le minacce di nostalgici delatori. Antichi aguzzini.
Quando finalmente riuscì a entrare nel sinistro edificio si sentì dire dal colonnello Krajuskin, della direzione degli Archivi di Stato: «Lei è il primo scrittore a entrare volontariamente alla Lubjanka». Gli indicò un grosso fascicolo posato su un tavolo: erano i saggi, gli appunti e i Diari di Bulkakov, sequestrati il 7 maggio 1926 durante una perquisizione in casa dello scrittore. Bulgakov aveva iniziato una sorda battaglia per rientrare in possesso dei Diari, il proprio laboratorio artistico. Gli erano stati restituiti dopo tre anni, ma la polizia ne aveva fatto una copia. Proprio quella indicata a Sentalinskij dal colonnello Krajuskin. Stava assieme a un pacchetto di relazioni: «23 maggio 1935. Bulgakov soffre di un disturbo nervoso. Dice di non poter andare da solo per strada. Viene accompagnato persino di giorno. Lavora molto... Sta terminando una pièce...». Certi funzionari, nelle relazioni depositate negli archivi della Lubjanka si vantavano dei consigli dati da loro medesimi allo scrittore: «Bulgakov, non scrivere più niente, ma occupati d’altre cose. Ricordati della tua professione di medico e cura la gente, e noi ti lasceremo tranquillo...».
Intanto, Michail Afanas’evic Bulgakov stava scrivendo Il Maestro e Margherita, «un miracolo che ognuno deve salutare con commozione», aveva detto Eugenio Montale quando il romanzo venne pubblicato in Italia nel 1967. In Russia Il Maestro e Margherita sarebbe apparso nella sua completezza soltanto nel 1973. Mutilato dalla censura era uscito a puntate tra il 1966 e il 1967 sulla rivista Moskva. Postumo. Bulgakov era morto nel 1940. Il testo autografo era rimasto in un cassetto per oltre un quarto di secolo. Si diffuse allora la leggenda che le dattilografe della rivista Moskva piangessero di commozione mentre ricopiavano quel capolavoro letterario falcidiato da una nuova generazione di burocrati.
Con la scrittura Bulgakov seminava dubbi in un sistema di tragiche certezze. Era stato una vittima perché aveva compreso perfettamente cosa stesse succedendo nella Civiltà dei Soviet. Vi è poi la surreale storia della telefonata che gli fece Stalin nei giorni del suicidio di Majakovskij. L’incredibile colloquio, via filo, nelle intenzioni del capo, aveva forse il fine di convincere la vittima destinata al sacrificio a mutare carattere. Sarebbe stata accolta nell’empireo dei geni onorati dal Cremlino. L’altra faccia della pena di morte. Il tradimento di se stessi.
Poi, nel 1936, forse... tutto sommato, Bulgakov doveva aver pensato che... E si era dedicato alla stesura di una pièce, Batum, che avrebbe portato sulla scena le gesta del giovane rivoluzionario Stalin. Bulgakov era rientrato nei ranghi? Accettato il sistema? Quale ricompensa avrebbe potuto far rappresentare finalmente un suo testo nell’ufficialità del Teatro dell’Arte. Una forte tentazione. L’opportunistica pièce, implicata nei super sospettosi grovigli burocratico-estetici, fu invece vietata irrevocabilmente.
La vera ragione? La questione è ancora aperta. Intanto Bulgakov continuava a scrivere Il Maestro e Margherita, pagine della vita sovietica negli anni Trenta, pagine dalla prospettiva caleidoscopica, tragiche e drammatiche, liriche e grottesche, comiche e satiriche. La storia di un anonimo Maestro emarginato dalla cultura ufficiale che, rinchiuso in un ospedale psichiatrico, perde la sua Margherita... Poi a Mosca appare il Diavolo, scambiato per spia, per professore di magia nera, per guitto di varietà... Il Diavolo compie ogni sorta di sortilegi scompigliando le fragili categorie del razionale e del positivo... La storia è sublimemente oracolare. Succede di tutto... Gli uomini catturati da un grande ragnatelo di racconti dentro a racconti... La polizia cerca di far luce sugli strani fenomeni verificati...
Le purghe degli anni Trenta? Non resta che auspicare la traduzione della trilogia di Sentalinskij con dispiegate tutte le carte della Lubjanka per sperare di capire, magari naufragando nell’orrore. Passabilmente svelando il profilo del Male.
Giuseppe Marcenaro