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 2016  giugno 23 Giovedì calendario

QUALCOSA NELL’ARIA


[vedi appunti]

Non deve essere facile, per Peter Gibson e Kourosh Kalantar-Zadeh, parlare dell’oggetto delle loro ricerche. I due sono serissimi scienziati, rispettivamente un gastroenterologo della Monash University e un ingegnere del Royal Melbourne Institute of Technology, in Australia. Hanno messo a punto una minicapsula hi-tech in grado di viaggiare nel nostro corpo, raccogliendo informazioni utili a risolvere vari problemi di salute. Il punto è che il congegno analizza una delle manifestazioni corporee che suscita più imbarazzo, disgusto e (ci spiace per i due ricercatori) risate: i peti. Per meglio dire, scendendo giù per l’intestino, la capsula dà informazioni in diretta sulla produzione di quei gas che finiranno inesorabilmente per essere espulsi.

COME NEL FORMAGGIO. Il motivo? «La produzione di alcuni gas e le loro concentrazioni influiscono sulla funzione intestinale», scrivono gli scienziati nello studio pubblicato su Gastroenterology, quindi la loro analisi può dirci molto su eventuali problemi intestinali: troppo metano o idrogeno, per esempio, possono riflettere problemi digestivi. Insomma, anche gli imbarazzanti venticelli (rassegniamoci: li facciamo tutti, almeno una decina al giorno) sono utili. Ma qual è esattamente il meccanismo alla base di queste produzioni gassose? E cosa ne influenza le caratteristiche? Le risposte che dà la scienza, in fondo, sono consolatorie: a fare le “puzzette” non siamo noi, ma un battaglione di batteri. Sappiamo infatti che le flatulenze sono l’emissione di una miscela di gas prodotti per lo più da batteri che vivono nell’intestino. «Una piccola parte è costituita dall’aria che introduciamo dall’esterno, mangiando, parlando o masticando chewing gum», spiega il gastroenterologo Massimo Bellini, dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana. «Il grosso, però, viene da batteri e Archaea, altri organismi unicellulari». Li ospitiamo nell’intestino e passiamo loro resti della nostra digestione, che utilizzano per ricavare energia in processi di fermentazione. Il problema? «È un po’ quello che succede in certi formaggi bucati come l’Emmental, dove i buchi non sono altro che bolle di anidride carbonica generata da batteri durante la fermentazione di sostanze presenti nel latte», spiega il microbiologo Simone Guglielmetti, dell’Università degli Studi di Milano. «Allo stesso modo, i peti sono formati dai gas generati dai microrganismi intestinali».

CAUTELA. Il grosso di questi gas è costituito da idrogeno, anidride carbonica, azoto e metano. A Gibson e Kalantar-Zadeh, come abbiamo detto, servono per identificare problemi di digestione. Ma hanno una caratteristica conosciuta e sfruttata soprattutto dagli studenti: metano e idrogeno sono infiammabili, quindi avvicinando un accendino al lato B di un compagno a volte si ottiene una fiammata giallo-arancio, che è il colore conferito dall’idrogeno, o blu se il peto è ricco di metano (dipende dal tipo di batteri presenti nell’intestino e dalla dieta). Su YouTube abbondano video di “piro-flatulenze”: ovviamente è meglio non provarci, visto il pericolo di rimediare qualche ustione. Ma, a proposito di rischi, l’infiammabilità dei gas intestinali rappresenta un vero problema se si devono effettuare cauterizzazioni chirurgiche (la bruciatura di piccole lesioni intestinali) durante una colonscopia. Per questo è prevista un’accurata preparazione all’intervento per ridurre i gas nell’intestino. Due gastroenterologi francesi hanno pubblicato studi, appunto, su come minimizzare i rischi di esplosioni. Un tema importante, ma involontariamente comico: non a caso gli autori hanno ricevuto l’IgNobel, premio assegnato alle ricerche bizzarre.

I SOLITI SOSPETTI. Il grosso dei gas intestinali, almeno, non ha odore. Da dove arriva allora la puzza che, ahinoi, caratterizza certi peti? Semplice: come nei profumi, dove le note olfattive dipendono da minime dosi di sostanze aromatiche, a far puzzare le puzzette sono piccolissime quantità di gas prodotti sempre dai microrganismi intestinali. «Sono soprattutto molecole a base di zolfo», chiarisce Guglielmetti. «Per esempio l’acido solfidrico, che conferisce l’odore di uova marce, il metantiolo, che sa un po’ di aglio e un po’ di vegetali in decomposizione, e il dimetil-solfuro, dal caratteristico odore dolciastro di cavolo andato a male». La quantità di gas e le sue caratteristiche “aromatiche” variano molto da persona a persona perché dipendono da due fattori estremamente variabili: la quantità relativa dei diversi batteri che ognuno di noi ospita, e il materiale che offriamo loro per la fermentazione, che dipende dalla dieta. «Sono pro-gas i cosiddetti “Fodmap”, particolari carboidrati e polialcoli che sono poco assorbiti dall’intestino tenue», spiega Bellini. Arrivano nel colon, a disposizione dei batteri, e comincia la fermentazione. «Li contengono per esempio miele, aglio, cipolla, porro, i famigerati fagioli, asparagi, carciofi, cavolfiori e broccoli. E poi pane integrale e, tra la frutta, mele, pere, albicocche, pesche». Non a tutti fanno lo stesso effetto, ma con i Fodmap è facile che qualche peto in più scappi. Quanto al cattivo odore, le sostanze responsabili sono prodotte a partire dalle molecole contenenti zolfo presenti soprattutto in carne, legumi e vegetali come cavolfiori e cipolle. Fin qui abbiamo detto della composizione dei gas. E il rumore? Quello è tutta questione di fisica. E saperlo ci potrebbe persino aiutare a dominare gli effetti sonori. «Dipende dalla quantità di gas che dobbiamo rilasciare, dalla pressione che esercita sullo sfintere anale, dalle dimensioni di quest’ultimo e dalla forza dei muscoli che lo circondano», ci spiega Kalantar-Zadeh. Il principio è quello del fischio: l’aria è forzata a passare attraverso una piccola apertura. Minori sono volume di gas e pressione, più discreta sarà l’emissione. Più gas abbiamo in pancia, più contraiamo l’addome per spingerlo verso il basso, più stringiamo l’ano e più il peto sarà sonoro: per ridurre il rumore, bisogna quindi rilassarsi il più possibile. «Emettere aria, comunque, non sta affatto a indicare che c’è qualcosa che non va», sottolinea Guglielmetti. «Anzi: è sintomo che la digestione funziona». A volte però “l’aria nella pancia” può essere fastidiosa. Succede a persone che soffrono di infiammazione o disturbi come la sindrome dell’intestino irritabile. «In questi casi non è che venga prodotto più gas, ma quello che c’è fa più fatica a uscire, provocando distensioni che causano fastidio o dolore», spiega la gastroenterologa Paola Iovino, dell’Università degli Studi di Salerno. «Capire come funziona il transito dei gas nell’intestino è una delle frontiere della ricerca, resa oggi possibile da nuove tecniche di indagine, come una particolare risonanza magnetica che permette di visualizzare in modo distinto il movimento di fluidi e gas nell’apparato digerente».

TRASMISSIONE. [La minicapsula da inghiottire ideata da Gibson e Kalantar-Zadeh, con sensori e rivestimento resistente, invia ogni 5 minuti i dati sui gas che incontra.] A cosa servono? Per esempio sappiamo che un eccesso di metano rallenta la peristalsi intestinale, e che elevati livelli di questo gas sono associati a una tendenza alla stitichezza. Se sappiamo esattamente dove e in quali condizioni è generato, possiamo sviluppare strategie per contenerlo. «I metodi finora a disposizione per questi studi, come l’analisi dell’aria espirata (alcuni gas sono infatti assorbiti e rilasciati nei polmoni) o la fermentazione in laboratorio di campioni di feci, non erano abbastanza potenti», spiega Kalantar-Zadeh. Da qui l’idea della capsula che percorre l’intestino: dovrebbe permettere di costruire una mappa accurata della produzione di gas nei vari segmenti, a seconda di dieta, assunzione di farmaci, disturbi. Per ora gli australiani l’hanno testata su maiali, verificando le differenze nel rilascio di gas tra animali nutriti con diete ricche o povere di fibre. Il passo successivo, nei prossimi mesi, è il test sull’uomo.
Valentina Murelli