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 2016  giugno 23 Giovedì calendario

TAGLIATI PER VINCERE


Citius, altius, fortius. Ovvero, tradotto in italiano, “più veloce, più in alto, più forte”. Potrebbero sembrare le linee guida del marketing di una azienda di gru dell’Impero romano, ma sono il motto olimpico ufficiale. L’abusatissima “l’importante non è vincere, ma è partecipare”, invece, riassume sì lo spirito olimpico, ma in questa forma – la più conosciuta – è pesantemente snaturata.
In realtà gli atleti fanno di tutto per vincere. E, oltre all’allenamento, contano anche i numeri: taglie, misure, masse, tempi di reazione. Ogni campione ha il suo “asso nella manica”. Ecco come, grazie alla fisica, riesce a eccellere sugli altri.

PIÙ VELOCI. Cominciamo da Bolt. Chi ha visto la finale dei 100 metri delle Olimpiadi di Pechino del 2008 probabilmente ricorderà lo strano cerimoniale precedente la partenza. Sette dei finalisti accolgono la chiamata dello speaker con la faccia di chi si prepara a rapinare una banca col machete; uno, Usain Bolt, al sentire il proprio nome sorride e mima con le braccia il gesto trionfale. Dopodiché, dopo una partenza dignitosa, ai 50 m si raddrizza, sale sul “tapis roulant” e lascia agli altri la lotta per l’argento.
Che Bolt abbia stravolto le convinzioni e le tradizioni della velocità è un dato di fatto. E non solo per quel che riguarda il rituale di partenza, ma anche per come viene visto a livello fisico un essere umano adatto a correre i cento metri.
Un velocista deve essere muscoloso? Questo è indubbio. Però è anche vero che la principale opposizione che incontra un atleta che corre a oltre 40 km/h – come fanno i velocisti – è la resistenza dell’aria; e quest’ultima è direttamente proporzionale alla superficie dell’interessato (la pelle, i vestiti, le inevitabili collanine da tamarro che i corridori amano appendersi al collo per motivi poco chiari). La sorgente da cui scaturisce la capacità di muoversi, di accelerare, è invece la forza generata dai muscoli, la quale è proporzionale alla massa del velocista stesso (il suo peso, tolte le parti inattive come le ossa, la testa e la collanina di cui sopra): massa che è a sua volta proporzionale al volume.
Ora, se l’altezza dell’atleta aumenta, in generale la sua superficie (e quindi l’attrito con l’aria) aumenta anch’essa, ma meno del volume. Con quali conseguenze? Consideriamo un esempio semplificato. Se prendiamo un velocista alto un metro (un pigmeo) e un altro, identico in tutto e per tutto nelle proporzioni, ma alto il doppio (un watusso di due metri), la superficie del watusso sarà 4 volte quella del pigmeo, ma la sua massa muscolare sarà 8 volte maggiore: nella proporzione, il watusso è avvantaggiato. Quindi, essere grossi e muscolosi nei cento metri è un vantaggio. Ma... basta questo? E solo la forza che il giamaicano è in grado di sprigionare che gli consente quella assurda, irridente facilità di corsa? Non proprio. Quei fattori contano, ma per capire quale componente faccia davvero la differenza, bisogna andare oltre. La velocità di un corridore è determinata da due fattori: l’ampiezza della falcata (quanto è lungo un passo) per la frequenza (l’intervallo di tempo fra un passo e l’altro). Le due grandezze non sono indipendenti: chi corre con una falcata ampia di solito non riesce a sforbiciare le gambe con la stessa frequenza di un corridore con le gambe corte. Se si analizza la tecnica di Bolt, si scopre che con una falcata l’atleta compie 2,45 metri, i suoi avversari ne compiono in media 2,25. Venti centimetri su due metri sono l’8,8% di differenza. Ma questo comporta una diminuzione della frequenza: in effetti, Bolt fa in media 4,25 passi al secondo, mentre i suoi avversari corrono a una frequenza di 4,55. Ne risulta una diminuzione della frequenza del 6,5%: contro l’8,8% di aumento dell’ampiezza.
Poiché per ottenere la velocità basta moltiplicare la frequenza dei passi per la loro lunghezza, dal calcolo si scopre che l’ampiezza dei passi di Bolt, alla fine, prevale. Fine della storia? Non ancora. “Per correre veloce”, si sentiva dire lo storico velocista Jesse Owens (1913-1980) dal suo allenatore, “devi immaginarti che il terreno sotto i tuoi piedi sia rovente come un ferro da stiro. Devi lasciare i tuoi piedi sul terreno meno tempo possibile, sennò ti scotti”. E in effetti, se si vanno a confrontare le andature dei corridori dilettanti con quelle degli sprinter, scopriamo che il segreto sta proprio nel tempo di contatto, ovvero l’unico momento in cui si può esercitare la forza. Questo è il vero “collo di bottiglia” dello sprint.
Il segreto di Bolt sta nel riuscire a toccare il terreno per un tempo paragonabile a quello dei suoi colleghi: 0.08 secondi, nel corso dei quali riesce a spingere i suoi 94 kg in avanti sfruttando pienamente la lunghezza del proprio avampiede. Bolt calza il 48, lungo anche per la sua altezza; un piede simile permette di trasmettere più energia in direzione parallela al terreno, a parità di forza usata.

PIÙ IN ALTO. Oltre ai muscoli, nell’atletica contano anche i tendini, una componente spesso sottovalutata, ma importante. Mentre i muscoli sono quello di cui abbiamo bisogno per sforzi prolungati che richiedano una grande deformazione (come una gamba che si piega e si estende), i tendini sono infatti fondamentali nelle situazioni impulsive, cioè di breve durata e deformazione minima; come un piede che tocca il terreno per compiere un balzo in avanti. E, ancor più, se si cerca di saltare più in alto che si può.
L’esempio più calzante è proprio il salto in alto. Ai Mondiali di Osaka 2007, i protagonisti della finale non avrebbero potuto essere più diversi. Stefan Holm e Donald Thomas non avevano praticamente niente in comune, a parte la disciplina. Holm, svedese, è una specie di asceta del salto in alto: struttura fisica anomala (è alto solo 1,81, non molto per la specialità scelta) e tecnica sopraffina. Per contro Thomas, un bahamense di 1,90 m, aveva incominciato a saltare in alto appena l’anno prima, dopo che per scommessa al college era riuscito a superare un’asticella a due metri, e la sua tecnica era definita “agghiacciante”.
Praticamente, solo talento naturale: e di origine puramente anatomica, uno dei rari casi in cui il talento è misurabile in centimetri. Ventisei, per l’esattezza: tale è la lunghezza del tendine di Achille di Thomas. Anche il tendine di Holm però è eccezionale: quattro volte più resistente di quello di un umano normale...
Il tendine di Achille è vitale per il salto in alto: agendo come un elastico che viene compresso, immagazzina energia che viene poi rilasciata al momento dello stacco. Il saltatore comprime il tallone a terra nell’ultimo passo, e così facendo lo carica come una molla. Due tendini così differenti come quelli di Holm e Thomas significano differenze abissali anche nella tecnica: mentre il ginocchio di Holm nello stacco forma un angolo di 30° con la tibia, quello di Thomas è di circa 60°. Il motivo è che un tendine così lungo richiede più tempo per rispondere all’impatto: per caricare una molla così lunga occorre infatti un intervallo più ampio, e quindi un movimento diverso. Ad atleta diverso, tempi diversi (tra parentesi, alla finale di Osaka vinse Thomas). Detto questo, il salto in alto richiede tecnica: deformandosi come un arco, la testa dell’atleta e le due gambe (le parti più dense e più pesanti del corpo) si trovano entrambe al di sotto del livello dell’asta quando questa viene superata con il tronco. Questo permette al baricentro del saltatore di rimanere al di sotto dell’asta per tutto il tempo del salto.

PIÙ FORTI. La tecnica è importantissima, dunque, e non solo nel salto in alto. Nel lancio del disco bisogna fare i conti con un principio fisico noto come “conservazione del momento angolare”, una legge universale secondo cui, in un sistema isolato, il prodotto tra la massa che ruota, la sua velocità e la distanza dall’asse di rotazione rimane costante. Un lanciatore che pesa sui cento chili inizia ruotando su se stesso a una certa velocità; ma, al momento del lancio, blocca la rotazione del corpo e del braccio (da spalla a gomito), lasciando il solo avambraccio libero di muoversi. Dunque, al momento del distacco, il raggio di rotazione del disco si è più o meno dimezzato e il peso della massa in movimento si è ridotto a meno di un decimo di quello originale: per compensare questi cali e mantenere costante il momento angolare, la velocità del disco, che pesa due chilogrammi, aumenta più o meno di una decina di volte, e può arrivare a circa 25 metri al secondo. Fu portando alla perfezione questa tecnica che Al Oerter riuscì a vincere quattro Olimpiadi in quattro edizioni di fila, riuscendo a mettere in riga concorrenti che rappresentavano l’élite del lancio mondiale, e che non erano certo lì per caso. Sì, perché arrivare in finale ai Giochi non è facile: la frase originale di De Coubertin infatti dice: “Una volta arrivati alle Olimpiadi, l’importante non è vincere, ma partecipare...”.

Marco Malvaldi
Scienziato e scrittore di romanzi (sua la serie del BarLume) e saggi. Fra questi: Le regole del gioco, storia di sport e altre scienze inesatte (Rizzoli).