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 2016  maggio 29 Domenica calendario

LA FALSA PROMESSA DEI TASSI NEGATIVI

In quanto biografo e appassionato di John Maynard Keynes, mi capita di sentirmi chiedere che cosa penserebbe Keynes dei tassi di interesse negativi. È una buona domanda, che rievoca quel passaggio della Teoria generale di Keynes dove il grande economista sottolinea che se il Governo non riesce a trovare metodi più sensati per curare la disoccupazione (per esempio, costruire case), seppellire bottiglie piene di banconote e poi dissotterrarle di nuovo sarebbe meglio di niente. Probabilmente avrebbe detto la stessa cosa sui tassi di interesse negativi: una misura disperata da parte di Governi che non riescono a trovare nessun’altra soluzione.
I tassi di interesse negativi sono semplicemente l’ultimo sforzo infruttuoso in ordine di tempo, dalla crisi finanziaria del 2008 in poi, per rilanciare l’economia attraverso misure monetarie. Quando si è visto che la riduzione dei tassi di interesse ai minimi storici non riusciva a far ripartire la crescita, le Banche centrali hanno puntato sul cosiddetto allentamento quantitativo: iniettare liquidità nelle economie acquistando titoli di Stato e altre tipologie di obbligazioni. Ha portato qualche beneficio, ma nella maggior parte dei casi i venditori di questi titoli hanno scelto di accumulare liquidità invece di spenderla o investirla.
E a questo punto entra in scena la politica dei tassi di interese negativi, a cui hanno ceduto le Banche centrali di Danimarca, Svezia, Svizzera, Giappone e dell’Eurozona. La Federal Reserve e la Banca d’Inghilterra sono tentate di seguire la stessa strada.
«Tasso di interesse negativo» è un’espressione che sembra fatta apposta per confondere tutti quelli che non masticano di economia. Invece di pagare interessi sulle riserve bancarie eccedenti conservate presso la Banca centrale, quest’ultima le tassa. L’idea è di forzare le banche a ridurre i saldi non utilizzati e incrementare l’attività di prestito o gli investimenti. Nel caso della Banca centrale europea, esiste una ragione tecnica: accrescere l’offerta di obbligazioni di elevata qualità per il programma di allentamento quantitativo lanciato dal presidente Mario Draghi.
Questa politica teoricamente funziona allineando il tasso di interesse di mercato con il tasso di profitto atteso, un’idea che deriva dall’economista svedese Knut Wicksell. Il problema è che mentre finora si riteneva che i tassi di interesse nominali non potessero scendere sotto lo zero, il tasso di rendimento atteso di un investitore su un nuovo investimento può facilmente scendere a zero o anche più giù quando la domanda aggregata è in depressione.
I tassi di interesse negativi sono l’ultimo tentativo in ordine di tempo per ovviare al problema del disallineamento degli incentivi fra prestatori e mutuatari. Rendere più costoso per le banche commerciali parcheggiare i loro soldi presso la Banca centrale dovrebbe far scendere il costo dei prestiti. Il calcolo è che in questo modo per una banca commerciale sarà più logico mettere il denaro in circolazione, erogando prestiti o comprando titoli di Stato e altre attività, piuttosto che pagare la Banca centrale per tenere quel denaro.
Ma come ha sottolineato la Banca mondiale, i tassi negativi possono avere effetti indesiderabili. Possono erodere la redditività delle banche restringendo i margini di interesse. Inoltre, possono incoraggiare le banche ad assumersi rischi eccessivi, finendo per creare bolle speculative. Tassi di interesse più bassi sui depositi possono creare una situazione in cui ampi settori dell’economia sono basati sulla liquidità, mentre i fondi pensione e le compagnie assicurative rischiano di trovarsi nell’impossibilità di far fronte a passività a lungo termine a un tasso nominale fisso.
Al di là di questi problemi, tuttavia, il vero guaio dei tassi di interesse negativi è la follia di fare affidamento solo sulla politica monetaria per salvare un’economia dalla depressione. Keynes lo ha sintetizzato molto efficacemente: «Se […] ci venisse la tentazione di asserire che la moneta è la bevanda che stimola l’attività del sistema, dovremmo rammentarci che vi possono essere parecchi diaframmi fra il bicchiere e le labbra». Vale la pena ricordare il suo elenco di questi «diaframmi»:
«Infatti, mentre può attendersi che un aumento della quantità di moneta riduca […] il tasso di interesse, ciò non accadrà se le preferenze per la liquidità del pubblico aumentano più della quantità di moneta; e mentre può attendersi che una riduzione del tasso di interesse accresca […] il volume di investimento, ciò non accadrà se la scheda dell’efficienza marginale del capitale cala più rapidamente del tasso di interesse; e mentre può attendersi che un aumento del volume di investimento accresca […] l’occupazione, può darsi che ciò non accada se la propensione al consumo diminuisce».
Precisamente. Gli economisti in questo momento sono impegnati a inventare nuove e ingegnose stregonerie monetarie da mettere in campo quando la stregoneria di prima avrà fallito nel suo intento: tassazione delle riserve di liquidità o addirittura abolizione completa della liquidità; oppure, all’altro estremo, l’helicopter money, cioè inondare la popolazione di denaro fresco di stampa.
La verità, tuttavia, è che l’unico modo per garantire che venga messo in circolazione «denaro nuovo» è che sia il Governo a spenderlo. Il Governo prenderebbe in prestito soldi direttamente dalla Banca centrale e li userebbe per costruire case, rinnovare i sistemi di trasporto, investire in tecnologie a risparmio energetico e così via.
Purtroppo, metodi di finanziamento monetario dei disavanzi pubblici come quelli appena citati per il momento rappresentano un tabù. Sono contrari ai regolamenti dell’Unione Europea e sono combattuti da tutti coloro che vedono le difficoltà di bilancio dei Governi nel dopo-crisi come un’opportunità per ridimensionare il settore pubblico.
Ma se è vero che stiamo entrando in un periodo di «stagnazione secolare» e disoccupazione crescente, come sostengono Larry Summers e altri, un ruolo maggiore dello Stato come investitore è ineludibile. Gli eventi che hanno fatto seguito al crac del 2008 dimostrano chiaramente che la politica monetaria da sola non è in grado di raggiungere un livello di attività economica prossimo al suo potenziale. Bisogna coinvolgere lo Stato.
Che queste spese in conto capitale compaiano sui libri contabili del Governo centrale o sul bilancio di una banca di investimenti indipendente (come preferirei) è secondario. I tassi di interesse negativi si limitano a distrarre l’attenzione da un’analisi più approfondita di cosa è andato storto (e continua ad andare storto).
Robert Skidelsky, membro della Camera dei Lord del Regno Unito, è professore emerito di economica politica
all’Università di Warwick
(Traduzione di Fabio Galimberti)