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 2016  maggio 30 Lunedì calendario

SI GIOCA SULLA SUCCESSIONE A GHIZZONI LA CREDIBILITÀ DI PRESIDENTE E CDA

Un buon presidente e un buon consiglio di amministrazione preparano la successione per tempo e in silenzio. Tanto più quando l’azienda ha le dimensioni e la proiezione internazionale di Unicredit.
[L’ANALISI] Patrimonio e della redditività il problema del gruppo è la governance. Il consiglio ha ritardato le scelte per le divisioni interne segue dalla prima E quando la persona che si vuole sostituire, nel caso l’amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni, non vuole fare guerre di resistenza ed è legato all’azienda da un profondo rapporto di lealtà. L’assenza di previdenza e di riservatezza hanno consentito una girandola di nomi per la successione, alcuni certamente autocandidatisi, altri segnalati dai consiglieri, e l’impressione è che legami personali, simpatie o interessi specifici entrassero nella partita prima ancora che si attivassero i meccanismi previsti per la selezione, al fine di condizionarne l’esito. Il metodo è noto: qualcuno sceglie il candidato e poi i vari comitati si riuniscono e scelgono gli head hunter per dare una patina di correttezza procedurale ad una decisione già presa. Non ci sono conferme, ma l’impressione è che la Bce ne sia stata un po’ disturbata. Di fronte alla necessità di trovare una nuova guida per una delle principali banche dell’Unione Monetaria, preferirebbe maggior rigore e qualità. Non a caso l’ipotesi di una definizione del nuovo vertice nel consiglio di Unicredit convocato per il 9 giugno sembra essere tramontata e ora si parla di un mese, ovvero dei tempi necessari per una selezione vera e non preordinata. La confusione delle ultime settimane è lo specchio delle difficoltà di Unicredit, che ha nella governance, prima ancora che nei conti e nella complessa geografia, il suo punto più debole. Il vizio d’origine della crisi attuale sta infatti nelle scelte fatte cinque anni fa, al momento dell’uscita di Alessandro Profumo. Il consiglio allora creò una sorta di triarchia, individuando in Federico Ghizzoni (per la posizione di capo azienda), Roberto Nicastro (che successivamente ha lasciato il gruppo) e Paolo Fiorentino gli uomini ai quali affidare la gestione del gruppo. Quella scelta era dettata, come spesso accade dopo averne avuto uno, dal desiderio di non avere più un uomo forte al comando. Così Unicredit, gruppo bancario internazionale di rilevanza sistemica, si è trovato con un vertice senza una vera leadership, né nella figura del presidente, né nell’amministratore delegato, che peraltro è un ottimo banchiere, stimato a Roma e a Francoforte, mentre il gruppo di una leadership forte avrebbe avuto bisogno a fronte di un consiglio frammentato e disomogeneo. Ora il problema si ripropone, ed è legittima la preoccupazione che l’obiettivo possa essere anche questa volta di avere un amministratore delegato con la briglia stretta, cosa che non farebbe bene alla banca e probabilmente non piacerebbe né a Francoforte né ai mercati. Unicredit è una Sifi, una delle trenta istituzioni finanziarie di rilevanza sistemica, l’unica italiana. Esserlo comporta alcuni oneri in più, perché essere più grande comporta maggiori responsabilità. Ma insieme agli oneri e alle responsabilità, la dimensione e le diversificazione geografica portano con se anche maggiori opportunità e capacità di incidere. L’Italia, che ha sempre la tentazione di essere “italietta”, dovrebbe guardarla da questo punto di vista e l’obiettivo del consiglio di Unicredit dovrebbe essere quello di aumentare la sua capacità di cogliere le maggiori opportunità piuttosto che di ridurne le responsabilità. Le scelte del nuovo capo azienda, e nei prossimi mesi anche del presidente e del consiglio di amministrazione, dovrebbero guardare Unicredit non come il cortile di casa ma come una grande istituzione finanziaria europea, che se la deve vedere, anche nella qualità dei suoi organi di governance, con gli altri grandi gruppi bancari internazionali, e migliorare in efficienza e redditività aiutando a crescere i paesi in cui opera. La scelta dovrà quindi essere adeguata e ben ponderata, senza essere ossessionati dalla nazionalità del numero uno (e dagli eventuali costi). Ma chi la farà questa scelta? Nel capitale di Unicredit i due terzi delle azioni sono nei portafogli di investitori istituzionali o privati “stabili”. Tra gli istituzionali solo una piccola quota è italiana, il resto è europeo (il 54 per cento) e globale. A contare nella scelta saranno ovviamente i principali azionisti, ovvero il fondo Aabar che ha il 6,5 per cento, la Fondazione Cariverona che ha il 3,5 e Caritorino che ha il 2,5. Insieme fanno il 12,5 per cento, e in particolare Cariverona e Caritorino appena il 6. Il problema è quanto pesa quel 6, e l’impressione che pesi molto è rafforzata dall’ipotesi di un ritorno dell’ex presidente di Cariverona Paolo Biasi in consiglio. La differenza tra la visione provinciale e quella ampia e internazionale dovrebbero farla i consiglieri indipendenti che rappresentano il mercato (e in particolare gli istituzionali), l’augurio e la speranza è che sappiano far valere il peso di quell’88 per cento del capitale che è sulle loro spalle. Unicredit è presente in 17 paesi, ha 7mila 800 sportelli e 143 mila dipendenti, e la sfida del nuovo capo azienda sarà di migliorare lo stato patrimoniale del gruppo e aumentare (di fatto raddoppiare) la sua redditività. Ma la sua missione sarà più complicata. Dovranno essere riviste le prime linee di management (con il vantaggio che ci sono molte persone di qualità nelle seconde), riordinate le linee di comando e recuperati spazi di manovra in alcuni paesi, come la Germania, dove la presenza è rilevante ma la redditività insoddisfacente. Ma soprattutto Unicredit, come tutte le banche, si trova a dover affrontare la svolta epocale nel modo di fare banca determinato dalla digitalizzazione. Sarà una rivoluzione più veloce di quanto pensiamo, che richiederà mano ferma e mentalità adeguata al ventunesimo secolo. Non sarà facile fare la scelta giusta. Qualcuno potrebbe infilarsi nella partita per mettere le mani sulla rete internazionale di Unicredit, altri per spingere strani matrimoni come quello con Mediobanca, altri ancora tentati dallo spezzatino. Unicredit ha le sue fragilità ma è una preda ghiotta per molti.
Marco Panara, Affari&Finanza – la Repubblica 30/5/2016