Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  maggio 30 Lunedì calendario

PETROLIO, IL BRACCIO DI FERRO NEL GOLFO

Come l’anno scorso, all’inizio della primavera il prezzo del petrolio comincia a registrare una tendenza all’aumento fino a sfondare la soglia psicologica dei 50 dollari. E come l’anno scorso, la maggior parte degli analisti e degli operatori sembra convinta che il rally sia destinato a durare. Tuttavia, è opportuno lanciare qualche ammonimento sulla fragilità di questa attesa. Pur in un contesto di volatilità, è vero che la tendenza rialzista del greggio potrebbe continuare man mano che si entra nella stagione estiva, il periodo dell’anno in cui i consumi di petrolio toccano i massimi spinti dalla crescita della domanda nei trasporti (quello che assorbe più petrolio su scala mondiale).
Non è escluso che il greggio possa arrivare a 60 dollari a barile o superarli. È anche vero che almeno un grande produttore di petrolio, gli Usa, inizia a pagare pegno al crollo dell’oro nero del recente passato: la produzione è scesa a 8,8 milioni di barili al giorno dopo aver sfiorato i 9,7 dell’aprile 2015. Intanto è crollato il numero di impianti di perforazione attivi nel settore petrolifero statunitense, da un picco di 1.600 (settembre 2015) a meno di 400. Quest’aspetto è acuito dal fallimento di molte società dello shale. L’opinione corrente è che altri Paesi seguiranno la parabola statunitense quest’anno, non potendo più sostenere prezzi troppo bassi rispetto ai loro costi di produzione. È vero poi che l’industria petrolifera in crisi continua a annunciare tagli di investimenti, che a loro volta dovrebbero tradursi in tagli della potenzialità produttiva futura. Infine, la domanda di greggio sembra in ripresa, trainata soprattutto da India e Cina.
Tutti questi elementi hanno mutato in positivo le aspettative degli investitori spingendoli di nuovo a puntare sul greggio. Ma per quando fondate queste considerazioni nascondono doppie verità. L’eccesso di offerta di petrolio è ancora alto e sottostimato: ammonta a quasi 3 mbg per i quali spesso è difficile trovare stoccaggio. Si aggiunge una capacità produttiva non utilizzata di entità più ampia, concentrata per quasi metà in Arabia Saudita. L’eccesso è stato appena celato dalle crisi temporanee di paesi come Nigeria (attentati alle infrastrutture petrolifere) e Canada (incendi nelle regioni produttive), ma è ancora lì. A peggiorare le cose, la capacità produttiva continua crescere a causa dell’asincronia tra ciclo degli investimenti, domanda e offerta. Il greggio sopra i 100 dollari ha alimentato investimenti per sviluppare giacimenti in ogni parte del mondo. Solo una parte è stata completata: un’altra, rilevante, è ancora in via di completamento e l’industria si guarda bene dal tagliarla visto che ha già speso buona parte del budget. I tagli annunciati dalle società petrolifere riguardano investimenti che ancora dovevano essere avviati, o altri settori (raffinazione, petrolchimica, gas naturale).
La produzione Usa regge alla caduta dei prezzi: gli esperti stimavano che a 75 dollari lo shale sarebbe stato fuori mercato, mentre invece ha perso solo 700mila barili al giorno su un picco produttivo di 5 milioni, perché la tecnologia e l’efficienza si sono evolute con rapidità, le società si sono concentrate sulle aree più produttive, i costi di produzione sono caduti. Il richiamo al numero di impianti che calano e alle società dello shale che finiscono in bancarotta è ingannevole perché servono meno impianti per produrre le stesse quantità a un costo più basso, e perché le società che falliscono rappresentano produzioni e asset marginali. Inoltre, un pozzo shale può essere portato in produzione in pochi mesi e nelle prime settimane di attività raggiunge subito il picco produttivo. Significa che non appena i prezzi risalissero, gli investimenti tornerebbero a aumentare in modo massiccio perché il tempo necessario a remunerarli è brevissimo, spingendo di nuovo in alto la produzione.
Aldilà degli Stati Uniti, nessun Paese registra un analogo declino produttivo. Tra i grandi produttori, a parte Nigeria e Canada, soffrono Brasile, Venezuela e Messico, ma in termini modesti. Al contrario, cresce la produzione di tutti gli altri, in alcuni casi a livelli record come in Russia. Tutti i paesi del Golfo mostrano incrementi produttivi, dall’Iran all’Arabia Saudita fino all’Iraq. Di fronte al continuo flusso di offerta, non si vedono rimbalzi nella domanda mondiale tali da assorbirla. Gli unici con tassi di crescita sostanziosi sono ancora una volta Cina e India, ma da soli non bastano. In queste condizioni, è facile che l’umore degli speculatori cambi segno al primo sibilar di tempesta.
Su tutto grava la politica futura dell’Arabia Saudita, condizionata da due possibili verità di segno opposto. Da un lato, il maggior produttore può continuare a spingere sull’acceleratore della produzione per tener bassi i prezzi e mettere in crisi i produttori a più alto costo, a partire dagli Stati Uniti, o quelli scomodi, soprattutto l’Iran. Dall’altro l’Arabia Saudita può rimanere vittima dell’isolamento crescente verso cui la confinano proprio questi due paesi, l’uno con la rottura di fatto dell’alleanza storica con Riad, l’altro – odiato rivale storico – con la sua "resurrezione." Quest’ultimo scenario è denso di minacce. La tensione tra sauditi e iraniani è alle stelle, alimentata dalla lotta strisciante per la supremazia nel Golfo Persico adesso che l’Iran ha riacquistato cittadinanza internazionale e intravede un futuro di sviluppo. Un futuro che Riad farà di tutto per ostacolare, con il rischio di fare mosse sconsiderate (sostegno spinto a gruppi fondamentalisti legati al Califfato Islamico) che aprirebbero la porta a una crisi pericolosissima per l’ordine mondiale. Corollario di una simile crisi, naturalmente, sarebbe un’esplosione dei prezzi del petrolio. Questo è il maggior rischio "rialzista" che aleggia oggi sul mercato dell’oro nero. È da auspicarsi che i rischi di crisi geopolitica insiti nell’isolamento saudita non si materializzino. Ma allora restano alte le probabilità che il petrolio si presenti vulnerabile all’arrivo del "generale inverno", il momento dell’anno in cui i consumi sono più bassi, e vada incontro a nuove cadute rovinose.
di LEONARDO MAUGERI, Affari&Finanza – la Repubblica 30/5/2016