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 2016  maggio 31 Martedì calendario

LE MACABRE ORIGINI DELLA PSICOCHIRURGIA


Il contesto culturale era quello dell’Europa di fine Ottocento. Epoca in cui si pensava fosse possibile intuire l’indole degli individui dalla forma del cranio a causa delle stravaganti ipotesi del medico tedesco Franz Joseph Gall, ma era anche il periodo in cui si ponevano le basi per le moderne neuroscienze. Merito di personalità da premio Nobel come Camillo Golgi, Santiago Ramón y Cajal e Charles Scott Sherrington, che individuarono forma e funzioni dei primi circuiti neuronali. Questo fu l’ambiente intellettuale in cui crebbe il medico portoghese Antonio Egas Moniz, padre della controversa psicochirurgia e premio Nobel per la fisiologia o la medicina «per la scoperta del valore terapeutico della leucotomia in alcune psicosi». Leucotomia e lobotomia, termini simili e con lo stesso significato: danneggiamento volontario dei lobi frontali del cervello del paziente per ridurne l’attività psicotica. La «pazzia».
Egas Moniz stesso si meravigliò dei motivi dell’assegnazione del Nobel una volta avuta notizia del riconoscimento nel 1949. Alcuni anni prima infatti, nel 1927, aveva brevettato l’angiografia cerebrale, un’innovativa tecnica diagnostica per l’epoca, oggi diffusa in tutto il mondo, che usa i raggi X e un colorante speciale per generare immagini dei vasi sanguigni che alimentano il cervello. Grazie a questo metodo è possibile individuare tumori, aneurismi e altre anomalie dei vasi sanguigni. Eppure, dal Karolinska Institut, l’Università svedese che assegna i premi Nobel, fu attribuito maggior valore scientifico all’introduzione della leucotomia.

I «pazzi» del Novecento
Prima di quel momento, ossia prima degli anni trenta, le alternative terapeutiche più diffuse per combattere i disturbi psichiatrici erano più che altro di tipo meccanico, coercitivo. I pazienti violenti, pericolosi per le persone con cui erano a contatto, o anche solamente di disturbo per la comunità, venivano solitamente confinati in appositi istituti, immobilizzati o immersi in acqua per lunghi periodi, a volte in vasche di legno chiuse simili a botti per il vino. Catene e camicie di forza non erano ovviamente un trattamento efficace per curare la persona ma erano un modo per contenere gli effetti della sua condizione, limitando la possibilità del paziente di fare del male a se stesso, o agli altri. Questi mezzi venivano spesso usati in modo improprio e senza fare distinzioni tra manifestazioni simili ma appartenenti a disturbi mentali differenti, come ansia, schizofrenia, disturbi bipolari, depressione.
Di base poi, vi era una forte fiducia nel fatto che una terapia shock, funzionalmente aggressiva, potesse sconfiggere il male mentale. In gergo medico venivano chiamate «terapie eroiche». Le pratiche più diffuse e note, a livello di medicina generale, erano il dissanguamento terapeutico attraverso l’applicazione di sanguisughe o incisioni, la somministrazione di calomelano, arsenico e sali di mercurio. Un’alternativa per «contenere» i pazienti era il sonno forzato, ottenuto con la somministrazione di oppiacei o barbiturici.
Negli anni trenta cominciò addirittura a diffondersi l’uso dell’insulina per trattare i sintomi schizofrenici. Ripetute iniezioni di questo ormone, infatti, abbassavano a tal punto il livello di zuccheri nel sangue che il paziente entrava in coma ipoglicemico, uno stato vegetativo reversibile in grado di provocare danni cerebrali gravi e permanenti e che, a volte, poteva persino condurre alla morte. Questo metodo fu lentamente abbandonato sul finire del decennio insieme alla terapia convulsivante con il cardiazol, indicato per gli stati depressivi gravi.
Nell’aprile del 1938, infatti, i neurologi italiani Ugo Cerletti e Lucio Bini sperimentarono per la prima volta la terapia elettroconvulsivante (TEC), meglio nota come elettroshock, su un uomo fermato dalle forze dell’ordine alla stazione Termini di Roma e che si agitava troppo a causa di una crisi psicotica acuta. Fino ad allora la tecnica era stata usata solo sugli animali del mattatoio, in particolare per «addolcire» i maiali spaventati dal massacro dei loro simili. Anche l’elettro-shock, nonostante sia tuttora usato in aleutini reparti psichiatrici, perse terreno nel 1952, con l’introduzione della clorpromazina (Torazina), il primo farmaco neurolettico della storia che inaugurò una nuova era per il trattamento delle psicosi come la schizofrenia e il disturbo bipolare, ma anche per alcune forme depressive. L’introduzione della Torazina negli anni cinquanta, non a caso nota come lobotomia chimica, coincise con l’apice della popolarità per la tecnica chirurgica che valse il Nobel al medico portoghese.
I primi passi
La leucotomia persuase l’audience del Secondo congresso internazionale di neurologia come una promettente terapia per i disturbi mentali. Era il 1935. Due medici ricercatori, John Fulton e Carlyle Jacobsen, illustrarono ai loro colleghi i «progressi» compiuti su due scimpanzé di nome Becky e Lucy. Prima dell’intervento i primati esibivano comportamenti sociali comuni ai mammiferi che vivono in gabbia, come irascibilità e atteggiamenti ripetuti in maniera ossessiva e continua. Gli animali erano quindi semplicemente frustrati per le condizioni di vita in cattività. I ricercatori intervennero chirurgicamente per correggere questo comportamento ritenuto «inadeguato», rimuovendo i lobi frontali del cervello dei due primati. In seguito all’operazione, gli scimpanzé si mostrarono docili in maniera insolita, quasi esagerata. Anche alla vista di una ghiotta ricompensa reagivano come se fossero privi di emotività. I medici lo considerarono un successo, e si chiesero subito se fosse possibile usare questa procedura per i pazienti con disturbi mentali. Egas Moniz, che era presente e già attribuiva la causa di alcune forme psicotiche a un malfunzionamento specifico di gruppi di fibre nervose, si convinse immediatamente a sperimentare una variante della tecnica sui suoi pazienti.
Insieme al collega Almeida Lima trattò i primi sette pazienti iniettando alcool etilico direttamente nei lobi frontali del cervello. In questo modo si otteneva l’uccisione immediata delle cellule nell’area interessata. In seguito perfezionarono la tecnica con una procedura puramente meccanica di resezione chirurgica, appunto denominata leucotomia, dal greco leucos «bianco» e tomos «taglio».
«L’idea era di operare sui cervelli dei pazienti, non direttamente sui gruppi di cellule della corteccia o di altre regioni, ma interrompendo le fibre connettive tra le cellule dell’area prefrontale e le altre regioni, ossia sezionando la materia bianca subcorticale», precisa Egas Moniz nel suo articolo Leucotomia prefrontale nel trattamento dei disordini mentali del 1937. Lo strumento chirurgico impiegato per tagliare le fibre della corteccia cerebrale frontale era il leucotomo e il suo principio di funzionamento era simile a quello di una trivella metallica in miniatura.
L’intervento veniva praticato sul paziente attraverso una trapanazione preventiva del cranio, a livello della tempia, in modo da facilitare l’accesso ai neuroni bersaglio. La chirurgia, ossia la distruzione meccanica della materia bianca del cervello attraverso il leucotomo era, per Moniz, solo uno dei primi passi che avrebbero portato a migliorare l’efficacia della tecnica. La casistica, infatti, era troppo bassa. Bisognava sperimentare di più.
I risultati della leucotomia eseguita sui primi 20 pazienti con diagnosi di ansia, depressione e schizofrenia furono pubblicati nel 1936. Nell’articolo venivano descritti miglioramenti delle condizioni psichiatriche da un punto di vista più soggettivo che scientifico. I pazienti operati non mostravano più i sintomi delle psicosi, ma risultavano apatici e spesso incapaci di comunicare semplici necessità fisiologiche. Egas Moniz attribuiva questi disturbi a presunte condizioni già riscontrabili prima dell’intervento dei pazienti.
«Queste operazioni non pregiudicano la vita fisica o psichica del paziente», asseriva il medico portoghese nel suo articolo del 1936. «Alcuni sintomi sono stati osservati in seguito all’intervento nell’area prefrontale, sia dal punto di vista neurologico che mentale. Comunque questi disturbi sono transitori e non persistono oltre pochi giorni o settimane. Due o tre dei pazienti della prima serie sono rimasti in qualche modo apatici, ma anche in questi casi vi sono dubbi che sia effetto dell’operazione, perché la personalità del paziente non era ben nota prima dell’intervento».
Nonostante lo stesso Moniz abbia ammesso che i suoi interventi potevano essere considerati audaci, e che l’ipotesi di fondo della psicochirurgia conteneva i presupposti per essere messa in discussione, era anche convinto che tutto questo fosse trascurabile rispetto ai benefici nel trattamento di alcuni disturbi psichiatrici. Così, nell’arco di pochi anni, questa pratica chirurgica altamente invasiva si guadagnò una buona reputazione e si diffuse in paesi come Italia, Brasile e Stati Uniti.
Propaganda planetaria
L’uso della leucotomia per il trattamento dei disturbi psichiatrici (o presunti tali) ebbe un successo progressivamente crescente fino ai primi anni cinquanta, quando divenne celebre con il nome di lobotomia. Nei soli Stati Uniti, negli anni quaranta, si eseguirono più di 5000 lobotomie all’anno con la nuova tecnica introdotta dal medico Walter Jackson Freeman II, che perfezionò la procedura chirurgica di Moniz. Per l’esattezza, Freeman mise a punto la rudimentale tecnica del semisconosciuto psichiatra italiano Amarro Fiamberti, il quale sosteneva che non vi era alcun bisogno di incidere il cranio per arrivare alla zona da recidere. Secondo Fiamberti, sfruttando l’anatomia dell’encefalo, con lo strumento giusto era possibile passare attraverso le orbite oculari del paziente per arrivare a recidere le fibre dei lobi frontali. Ed è così che, nel 1948, lo psichiatra statunitense inventa l’orbitoclasto, strumento simile a un punteruolo da ghiaccio; nella cultura popolare statunitense, la lobotomia è anche nota come ice pick therapy.
Negli anni seguenti, a bordo del suo camioncino soprannominato lobotomobile, in 10 minuti e per soli 25 dollari Walter Jackson Freeman recideva le fibre nervose con un punteruolo entrando dalle cavità oculari dei pazienti. In tutto il Nord America la lobotomia transorbitale (così venne chiamata) fu pubblicizzata come una soluzione efficace e non invasiva per il paziente con disturbi mentali. Ne fu vittima anche Rosemary Kennedy, sorella di John Fitzgerald: la sua famiglia voleva «curarne» il temperamento sessualmente ambiguo.
Il declino (ma non proprio la fine)
Per un tragico destino Antonio Egas Moniz fu reso paraplegico da quattro colpi di arma da fuoco esplosi da un suo paziente non leucotomizzato. Era il 1949, lo stesso anno del premio Nobel. Morì sei anni dopo per cause naturali e con un proiettile ancora conficcato vicino alla colonna vertebrale.
Helen Mortensen, invece, fu colei che segnò la fine della carriera del celebre «lobotomizzatore» americano Walter Jackson Freeman, o meglio il caso di questa paziente fu il motivo ufficiale del suo ritiro. Helen, infatti, morì in seguito all’intervento eseguito da Freeman nel 1967, e richiesto dalla paziente stessa: era la sua terza lobotomia.
Negli anni settanta la lobotomia era ormai in pieno declino a causa dell’ampia diffusione degli antipsicotici, ritenuti più efficaci, sicuri e meno invasivi di un intervento chirurgico. Nel 1982 un team internazionale di ricercatori eseguì la più recente e approfondita analisi sugli effetti della moderna psicochirurgia, confermando che, nella maggior parte dei casi, dopo l’operazione i pazienti manifestavano «indifferenza emotiva». Ciò nonostante alcuni paesi hanno continuato a praticare un esiguo numero di interventi di lobotomia anche negli anni ottanta. Stando alle stime dell’Inspection générale des affaires sociales, tra il 1980 e il 1986 in Francia furono eseguite 32 lobotomie, nel Regno Unito almeno 15 all’anno, in Belgio 70 e 15 al Massachusetts General Hospital di Boston.
Oggi la lobotomia, così come era stata concepita da Moniz, è più che altro un ricordo. Una sua variante contemporanea è la lobectomia cerebrale, la più comune forma di chirurgia per combattere l’epilessia. Un intervento chirurgico preciso e mirato, a cui si ricorre in casi di crisi epilettiche parziali che hanno origine in una specifica regione del cervello. La lobectomia eseguita più di frequente consiste nell’asportazione del lobo temporale, e viene effettuata su pazienti che soffrono, appunto, di epilessia del lobo temporale. Insomma, un tipo di chirurgia ormai lontana da quella condotta alla cieca di Moniz e Freeman, ed eseguita con il solo obiettivo di limitare danni cerebrali più gravi.