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 2016  maggio 31 Martedì calendario

LA FORZA DEL DUBBIO


Dopo gli attentati che hanno colpito il settimanale satirico «Charlie Hebdo», sono nate su Internet le più disparate teorie del complotto a contestare le versione ufficiale del massacro. Alcuni internauti sostenevano per esempio che gli specchietti retrovisori dell’automobile dei terroristi avevano cambiato colore fra una fotografia e l’altra o che François Hollande era arrivato sul posto un po’ troppo velocemente: altrettanti elementi capaci secondo loro di suscitare dubbi. Molti sostenitori di queste teorie del complotto accusavano i loro concittadini di essere soltanto dei «pecoroni» pronti a bere tutte le dichiarazioni del «sistema». Loro invece, i fautori del complotto, si ergevano a paladini dello «spirito critico».

Imparare a diffidare

Il problema è che se si esercita lo spirito critico senza un metodo, esso conduce facilmente alla credulità. Chi, convinto dell’esistenza di un complotto, si concentra sull’apparente stranezza di un elemento senza analizzarne tutte le possibili spiegazioni non è in fondo meno credulone di chi accetta qualsiasi spiegazione senza riflettere. Il dubbio può essere una via verso il progresso delle conoscenze e l’autonomia mentale, ma anche verso una particolare forma di asservimento della mente. Quando il filosofo René Descartes propose, 400 anni fa, di rimettere tutto in discussione, si rivolgeva senza dubbio innanzitutto a se stesso, ai propri pregiudizi, all’evidenza dei suoi sensi. E il suo obiettivo era ricostruire una via metodica verso una conoscenza che gli sembrasse solida, e non di sprofondare in un relativismo assoluto.
Come si può dunque dubitare «fondatamente»? Si deve contestare ogni informazione riferita dai media, passare ai raggi X ogni dato percepito dai nostri sensi, ragionare sulle proprie riflessioni in una sorta di regressione infinita del pensiero?
Non abbiamo gli strumenti per mettere in pratica un simile scetticismo capace di investigare in tutte le direzioni. La ricerca metodica di una soluzione che contraddica le nostre intuizioni ha infatti un grosso costo mentale. Per pensare che sia la Terra a orbitare intorno al Sole anziché il contrario, dobbiamo rifiutare quel che ci dicono i nostri sensi, mobilitare i ricordi di scuola, immaginare la posizione degli astri nello spazio e così via. In pratica si tratta di coordinare una serie di compiti cognitivi non semplici. Lo psicologo cognitivista Stephen Monsell, dell’Università di Exeter, ha scoperto nel 2003 che il costo mentale è particolarmente elevato quando si passa da un compito all’altro, e che è soggetto alla stretta sorveglianza di varie aree cerebrali.
Una regione della corteccia prefrontale, nella parte anteriore del cervello, anticipa costantemente questo dispendio di energie, inducendoci a evitare operazioni mentali troppo onerose. È quanto hanno dimostrato nel 2010 Joseph McGuire e Matthew Botvinick, della Princeton University: quanto più questa regione si attiva, tanto meno si ha voglia di affrontare questo compito. La pigrizia intellettuale sarebbe dunque iscritta nel nostro cervello? Più che di pigrizia si tratterebbe di una gestione avveduta: l’encefalo analizza di continuo il rapporto costi-benefìci, cercando di ottimizzarlo.
Infine, il costo mentale si traduce in un consumo elevato di glucosio, ossia la principale fonte di energia del cervello. Così, quando cerchiamo di andare oltre le nostre intuizioni immediate, l’encefalo brucia il suo carburante a velocità accelerata. Ed è meglio evitare di rischiare un’avaria. Un esperimento condotto nel 2012 sui cani da Holly Miller e colleghi, dell’Università di Lille, ha mostrato che un compito mentale difficile che fa abbassare la concentrazione cerebrale di glucosio comporta assunzioni di rischi ingiustificate. Per i cani che presero parte all’esperimento si trattava di resistere alla voglia di scatenarsi su un topolino meccanico, ma questi risultati sono probabilmente analoghi ad altri compiti cognitivi.
A partire dalla metà degli anni novanta diversi studi hanno mostrato che l’apprendimento limitava i costi energetici dell’attività mentale. Di norma, un apprendimento che all’inizio è trattato come un oggetto al livello della corteccia prefrontale si accompagna a un disimpegno progressivo dalle strutture corticali man mano che questo oggetto diventa una routine mentale. Perciò può essere utile, per un apprendimento efficace del dubbio metodico, addestrarsi a riconoscere le situazioni che potrebbero ingannarci.

► I limiti del pensiero

Esistono almeno tre tipi diversi di limiti del pensiero: dimensionali, culturali e cognitivi. I limiti dimensionali della nostra mente sono legati alla nostra posizione nel tempo e nello spazio, sia fìsico che sociale. Supponiamo che quattro individui si trovino di fronte a una piramide e che ognuno di loro sostenga che abbia un colore diverso: il primo afferma che è blu, il secondo che è rossa e così via. I quattro stanno forse mentendo? O sono vittime di un’illusione? Senza dubbio non è vera nessuna delle opinioni. La piramide potrebbe avere quattro facce, ciascuna di un colore diverso, e ognuno dei soggetti potrebbe guardare una faccia diversa.
Allo stesso modo, molte informazioni che ci pervengono sono condizionate dalla tipologia della nostra rete sociale. Gli amici, la famiglia, i colleghi di lavoro, i giornali che leggiamo, tutto questo contribuisce a filtrare i dati a nostra disposizione. Mentre crediamo di essere informati obiettivamente, attingiamo in realtà solo a fonti particolari e limitate.
Consideriamo l’esempio di uno statunitense che non sarebbe mai andato a Parigi e che non considererebbe alcuna altra fonte di notizie oltre a quelle ricevute dal canale TV Fox News. All’inizio del 2015 un giornalista di questo canale affermò che diverse zone di Parigi erano inaccessibili ai non musulmani. Il nostro telespettatore avrebbe corso un grave rischio di lasciarsi influenzare.

Il ruolo dell’ambiente

Anche quando abbiamo accesso a una quantità sufficiente di informazioni non siamo in grado di trattarle in modo obiettivo, ma le interpretiamo in una determinata cornice culturale e sociale che potremmo chiamare il nostro sistema di rappresentazione. Quest’ultimo ci suggerisce interpretazioni automatiche dei fenomeni cui assistiamo. Un esperimento condotto da Jerome Bruner e Cecile Goodman, della Harvard University, ce ne dà un’idea. Alcuni bambini dovevano valutare la grandezza di monete e rondelle di cartone che avevano esattamente la medesima superficie. I bambini giudicavano le monete più grandi rispetto alle rondelle di cartone, lasciandosi evidentemente influenzare dalla carica simbolica delle monete. L’errore era tanto più accentuato quanto più modesti erano gli ambienti di provenienza dei bambini. Ecco dunque che la cornice socioculturale che ci aiuta a trattare un’informazione può contribuire a deformarla.
Un caso che recentemente ha fatto scalpore illustra bene questa tendenza. Nel luglio 2015 una giovane donna che stava prendendo il sole in costume da bagno in un parco di Reims fu aggredita da altre donne. Sulla base di un articolo ambiguo (che descriveva una situazione dai risvolti religiosi), diversi internauti videro nell’episodio un attacco alla laicità e allo stile di vita occidentale. Un’informazione viene immediatamente deformata secondo una cornice culturale propria delle nostre società: in questo caso, secondo l’idea che la nudità femminile sia sempre ostacolata con violenza dagli ambienti islamisti: in realtà l’episodio in questione riguarda una banale rissa tra giovani.
E anche se il nostro cervello non fosse plasmato dalla cultura resterebbe soggetto a alcune limitazioni fondamentali. Le sue capacità di memorizzazione, astrazione e così via vengono spesso superate dalla complessità delle situazioni a cui assistiamo. E il ricorso più o meno cosciente a certi modi automatici di ragionare può condurci a gravi errori. Per esempio abbiamo la tendenza a confondere correlazione e causalità («A appare contemporaneamente a B, quindi è causa di B»), Questa tendenza può spiegare ogni sorta di credenza illusoria.
Se si cade in questa trappola si arriva presto a una credulità ineluttabile, ossia alla superstizione. Supponiamo che in due incontri di tennis che hai vinto tu portassi lo stesso paio di calze: avresti la tendenza a credere che quelle calze ti abbiano portato fortuna, confondendo così la concomitanza dei due eventi (hai vinto e portavi quelle calze) con un legame di causalità. In conclusione, senza quelle calze non avresti potuto vincere.

Sospendere il giudizio

Per non cercare di apportare di continuo nuove correzioni, una volta che un’idea sia entrata nella nostra testa memorizzeremo più facilmente gli elementi che la confermano che non quelli che la invalidano. Un’altra distorsione cognitiva, nota come bias di conferma, ci fa accordare più attenzione alle informazioni che confermano la nostra opinione preesistente. E saremo predisposti a ricordare meglio proprio quelle informazioni.
La confusione fra correlazione e causalità è senza dubbio il più frequente fra i pregiudizi cognitivi, ma ne esistono anche molti altri. Qualcuno ricorderà di essere stato colto da una reazione di panico all’annuncio della tossicità di un prodotto di consumo comune. Non c’è nulla di sorprendente, perché qui sono in gioco due pregiudizi cognitivi: la sovrastima di piccole probabilità – lo stesso fenomeno che induce una grande quantità di persone a considerare gli aerei più pericolosi delle automobili – e una maggiore sensibilità ai costi che ai benefici, fenomeno descritto come avversione alle perdite. Così le pillole anticoncezionali di terza e quarta generazione hanno innescato diverse polemiche qualche anno fa, quando fùrono accusate di provocare più incidenti tromboembolici rispetto alle pillole precedenti. Una simile informazione può scatenare un timore eccessivo, nonostante la rarità relativa (pochi casi ogni 10.000 soggetti), e determinare il blocco di ogni forma di pillola, perché il «costo» (ossia il rischio di malattia) influisce su di noi più del beneficio (vale a dire la possibilità di evitare una gravidanza indesiderata). Senza negare i rischi, vale quindi la pena di prendere una certa distanza per riuscire a valutarli in modo obiettivo.
Tutti questi limiti sono a priori non eludibili. Come possiamo dunque analizzare in modo critico una nuova informazione? Innanzitutto dobbiamo domandarci se i dati di cui ci serviamo per giudicare non siano per caso distorti dalla propria posizione nello spazio fisico o sociale: i nostri colleghi di lavoro o i nostri amici di Facebook non hanno forse la tendenza a riferire solo certi tipi di informazione? Non avete per caso ereditato dalla vostra famiglia l’abitudine di leggere soltanto i giornali più vicini a una determinata area politica? Dopo questa valutazione, esaminate criticamente il trattamento culturale che applicate a queste informazioni: non ne scaturiscono immediatamente degli stereotipi nella vostra mente? Infine, diffidate della vostra intuizione in quanto questa, falsata da un certo numero di illusioni mentali, non è sempre una buona consigliera.
In un discreto numero di casi, giungerete alla conclusione che sia preferibile sospendere provvisoriamente il giudizio per impegnarvi in un’analisi approfondita e necessaria. Con l’esercizio tutto questo dovrebbe diventare sempre più automatico. Alla fine non si tratterà più di rimettere tutto in discussione, bensì di creare un piccolo allarme mentale che si attivi in modo riflesso tutte le volte che rischiate di emettere un giudizio con troppa leggerezza.

Internet, una trappola cognitiva

Un motivo di inquietudine che sta crescendo negli ultimi anni è la cosiddetta deregolazione del mercato cognitivo prodotta da Internet, in cui le informazioni verificate solo a metà nascono e si propagano molto velocemente. Le voci sono spesso privilegiate rispetto all’analisi, come dimostra il fatto del costume da bagno di Reims, diventato rapidamente virale proprio sui social network.
In queste condizioni storiche del tutto inedite per la nostra società, il problema dell’educazione rimane essenziale. Il vero spirito critico, quello che ci aiuterà a opporci all’alienazione favorita a volte dai suggerimenti della nostra intuizione, si può acquisire soltanto a forza di perseveranza e di esercizio. Per questa ragione, l’apprendistato che abbiamo descritto in questo articolo deve essere iniziato a scuola il più presto possibile.
Una diffusione sempre più capillare di senso critico e libero pensiero, e di conseguenza la lotta costante ai pregiudizi, potranno svilupparsi solo se sapremo creare nelle ore di insegnamento di tutte le materie questa dichiarazione di indipendenza mentale.