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 2016  maggio 28 Sabato calendario

DUE DI UNO– [Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli] V come Valentino. Lo stilista delle dive

DUE DI UNO– [Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli] V come Valentino. Lo stilista delle dive. Il designer per antonomasia. Facile da ricordare. Provare invece a scrivere nel modo corretto i nomi di Maria Grazia (staccato) Chiuri e Pierpaolo (tutto attaccato) Piccioli è stato un rompicapo dal primo minuto della loro nomina a direttori creativi della maison, avvenuta a sorpresa nel 2008, dopo l’uscita di scena del fondatore e il breve passaggio di Alessandra Facchinetti. Chiuri e Piccioli si sono presentati da subito come i numeri due, i soldati delle retrovie, il dietro le quinte buttato sul palcoscenico. In otto anni hanno imparato a recitare lo stesso copione, diventando due attori navigati che sanno quando è il momento di passare la battuta all’altro. In tandem con l’ad Stefano Sassi hanno portato il marchio oltre ogni immaginabile traguardo, triplicando i risultati ereditati e trasformando il brand in un punto di riferimento per il fashion system internazionale. Oggi tutti pronunciano perfettamente i loro nomi. E tutti li guardano come fossero una strana singolarità. Uno di quegli ingranaggi complessi e così interconnessi da non riuscire più a capire dove inizi l’uno e dove finisca l’altra. Eppure sotto le scintille con cui innescano, ogni stagione, l’attenzione generale, si muovono i tizzoni ardenti di due caratteri molto diversi. Due pezzi di puzzle che combaciano scontrandosi, rispettandosi, confrontandosi, completandosi perfettamente. Da più di 26 anni. Come vi siete conosciuti? Cosa vi ha spinto a lavorare insieme? Maria Grazia: «Non ricordo molto del nostro primo incontro. Era un periodo di leggerezza, di slanci. Non si rifletteva sul perché si era predisposti a incontrare qualcuno. Non c’erano analisi né indugi». Pierpaolo: «Io mi ricordo bene di Maria Grazia. Aveva una maglietta bianca e un paio di jeans. Era il 1990. Quando l’ho vista ho pensato a una connessione. Ma è vero: non si stava ad analizzare troppo. Sentivi che c’erano interessi comuni. E questo bastava». Cosa vi ha portato alla moda? M: «Mia madre aveva una sartoria, sono cresciuta in mezzo ai vestiti. La moda mi ha sempre affascinato non per la sua immagine, piuttosto per il suo aspetto pratico. La mia famiglia, però, non apprezzava la mia passione perché vedevano la moda come un lavoro di serie b, un servizio senza una valenza creativa». P: «A 14 anni volevo fare il regista. Alla moda sono arrivato attraverso le fotografie di David Bailey e Deborah Turbeville, o grazie ai primi servizi di Steven Meisel sulle riviste. Ho iniziato ad amarla perché con essa si potevano raccontare storie come si fa con il cinema. Da quel momento è diventata la mia passione». La vostra collaborazione inizia con Fendi, agli inizi degli anni ’90. Che ricordo ne avete? M: «Fendi è stato un laboratorio incredibile. C’era voglia di insegnare, un’atmosfera aperta. Le sorelle ti mettevano subito a fare tutto, così avevi la possibilità di vedere il processo creativo nella sua complessità. Era pionieristico. Vivevi tutto in prima persona, con uno slancio e un’affezione inimmaginabili». P: «Mi rendo conto solo oggi di quanto sia stato importante imparare da Fendi ad avere un quadro d’insieme. E non posso non ricordare il grande insegnamento di Anna Fendi: provate tutto. Senza paura. Senza limiti». Da quel momento, avete iniziato il lavoro minuzioso sugli accessori, una rivoluzione per quel periodo. M: «Se si escludono gli status symbol creati da Hermès e Chanel, o la rivoluzione del nylon nero di Prada, scarpe e borse erano, fino a quel momento, assoggettati all’abbigliamento o alla stampa di un logo. Per noi, al contrario, dovevano diventare pezzi di stile, simboli di una storia. Così abbiamo iniziato a sperimentare sugli accessori quello che si faceva solo sui vestiti». P: «Gli accessori, per noi, sono sempre stati come una grammatica dell’immaginazione. Li abbiamo tolti dalla loro valenza funzionale per usarli come pezzi di un racconto. Per noi erano icone, simboli. Oggetti di libertà». Nel 1998 arrivate da Valentino proprio per sviluppare la nascente linea di accessori. Cosa vi convinse a cambiare? M: «Eravamo affascinati da Valentino e da Yves Saint Laurent per l’haute couture. Sentivamo che quella cura, quella cultura, quell’artigianalità potevano essere declinate anche sugli accessori. E che nessuno l’aveva fatto ancora fino in fondo». P: «In più volevamo metterci alla prova come persone: sentivamo che era arrivato il momento di capire se quello che avevamo imparato poteva essere trasportato in un altro marchio». Siete rimasti dieci anni al fianco di Valentino. Qual è la lezione più importante imparata da lui? M: «La coerenza e la fermezza. La capacità di non sentire il peso del giudizio degli altri. Da lui impari che se non vuoi avere rimpianti, devi fare fino in fondo quello che hai scelto. Con lui, poi, si pranzava all’ora di pranzo e si cenava all’ora di cena. Valentino aveva cura di sé e della sua vita personale. Una regola fondamentale in un momento in cui il correre frenetico sembra legge». P: «Sicuramente la determinazione: da un punto di partenza arrivare a quello d’arrivo, senza farsi ostacolare da elementi esterni. Un conto è ascoltare le critiche e mettersi in discussione. Un altro è avere la forza di perseguire il proprio intuito». Nel 2008 siete diventati direttori creativi. Com’è stato l’impatto con la vostra prima passerella? M: «Un incubo. Lo so che tutti amano la favola, ma io non ho un buon ricordo di quel momento. Poi, col tempo, ho imparato a prendere questi otto anni come un percorso di psicoanalisi. La visibilità ha aspetti positivi e negativi. Molte persone confondono quello che sei con la rappresentazione di te. E a livello familiare questo lavoro è ingombrante. Così, ogni giorno, devi imparare a contenerlo». P: «Per me è stato diverso. La prima sfilata è stata a Parigi, alla Sorbonne. C’erano tutti: mia moglie, i miei figli. Mi piaceva e mi emozionava. Il cambiamento è stato naturale. Però ho capito subito che dovevo fare un distinguo: amo la moda ma non m’interessa il lifestyle di moda. Quello stile di vita cancella la tua personalità e ti costringe alle regole di un gruppo. Io vivo a Nettuno, fuori Roma. Tutti i giorni prendo il treno e vengo al lavoro. Poi torno dalla mia famiglia. Non c’è una scuola o un percorso prefissato per essere direttore creativo. Devi essere te stesso, fino in fondo». Come si vive con la responsabilità di un grande marchio sulle spalle in un momento in cui il sistema gioca molto duro con gli stilisti? M: «A volte ti sembra davvero di giocare a Risiko. Ma la fermezza di un designer dipende da quanto sei centrato come persona. La lezione più importante, però, è che non finisci mai di imparare. Vivi in un’evoluzione continua. E poi conta l’organizzazione e il team che ti costruisci. Io e Pierpaolo non lavoriamo da soli: c’è un’azienda forte che ci permette di reggere i ritmi difficili del sistema di oggi». P: «Nonostante la mole di lavoro, continuo a vedere questo mestiere come un’opportunità. Tante collezioni sono tante opportunità. E anche se può sembrare strano a dirsi, nutro una grandissima passione per la moda. Ma la moda non è la mia vita, è un pezzo della mia vita. Riuscire ad avere realtà, persone e affetti che la relativizzano ti aiuta a mantenere la distanza, a vivere e lavorare meglio». Arte e moda: con gli anni avete trasformato Valentino in una sorta di Factory italiana. Perché? M: «L’arte è forse una passione più forte della moda. Una delle più grandi fortune di essere direttore creativo è che puoi conoscere e lavorare con le persone che ti affascinano. Non abbiamo una linea guida o un programma prestabilito. Ogni collaborazione è un atto spontaneo. Una forma di arricchimento che nasce da un interesse e che diventa una possibilità». P: «Lavorare in due ti dà qualcosa di unico. Non siamo simili e questo confronto continuo ci insegna il valore della diversità. Nessuno lo dice, ma non essere uguali fa la differenza. E se funziona, funziona di più. Per questo ci siamo aperti e ci apriremo agli artisti. Come con l’ultima collaborazione con Vanessa Beecroft per il progetto Rockstud Untitled: non c’è stato nulla di strategico, solo il desiderio di creare una concessione che poi fa scattare quell’incanto di fare le cose con un’altra prospettiva. E con l’emozione della prima volta». Cosa pensate dell’era digiale e della rivoluzione mediatica in atto? M: «Abbiamo una formazione classica. Siamo diventati designer in un tempo in cui era importante il saper fare. Poi è arrivato il boom del marketing. E infine la rivoluzione di internet. Ci sono stati momenti di confusione, ieri con la preponderanza dell’immagine, oggi con la potenza dei social network. Alla fine, però, l’artigianalità, la bottega dell’arte, il valore dell’eccellenza vincono». P: «Il nostro lavoro da Valentino rappresenta il desiderio diffuso di umanità e di emozione in un momento in cui il mondo sembra incollato a vivere esperienze provenienti da uno schermo piatto. Avvertiamo il bisogno di un nuovo umanesimo. Per questo lavoriamo su abiti e accessori con segni, memorie, storie e con tutti i valori e le eccellenze della bottega dell’arte. L’iper digitalizzazione ha creato un profondo desiderio di umanità. Insieme all’illusione che tutti possano fare tutto». Qualità e difetti dell’altro. M: «L’accuratezza. E la meticolosità. Che a volte mi esasperano da quanto lo fanno diventare lento». P: «L’intuizione. I difetti? Posso fare una lista? Scherzo. A volte tende a prevaricare». Cosa avete imparato l’uno dall’altra? M: «Pierpaolo mi ha insegnato che non puoi condividere tutto. A volte vuoi la favola. Però ti sbagli». P: «Il rispetto e il valore della differenza». Come vi vedete nel futuro? M: «Non avevo mai preso in considerazione di sposarmi o di fare figli, eppure ho un marito e una famiglia. I piani non mi appartengono, mi sembra mi tolgano la vita. Voglio potermi chiedere tutti i giorni cosa desidero fare». P: «Nel futuro io mi vedo fare questo lavoro. Più vado avanti e più mi piace e più voglio farlo così». M: «Sai che io, invece, continuo a pensare che l’unica certezza nella vita sia il cambiamento. A volte pensi che tutto si stabilizzi, invece ti sbagli. Tutto è in evoluzione e non saprai mai quello che sarai».