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 2016  maggio 30 Lunedì calendario

ARTICOLI SU VINCENZO NIBALI – STEFANO SEMERARO, LA STAMPA 29/5 –  Lo squalo Enzo è uno abituato a rimettere insieme i cocci

ARTICOLI SU VINCENZO NIBALI – STEFANO SEMERARO, LA STAMPA 29/5 –  Lo squalo Enzo è uno abituato a rimettere insieme i cocci. Questo Giro lo ha riparato urlandosi dentro e facendosi sentire fuori come quella volta a Messina che era bambino, e non voleva saperne di fare il bravo, e allora papà Salvatore gli segò la bici. Pianti, anche notturni, i vagiti di una vocazione. Nibali senior, che al sonno ci teneva, alla fine la bici fu costretto a rimettergliela insieme. Certe storie però sono così belle che le pezze, i rattoppi, mica li vedi, oppure quando li vedi fanno leggenda anche loro. Ad esempio il colore rosso della vecchia Pinarello con cui Vincenzo arrivò alla sua prima gara Esordienti, a Barcellona Pozzo di Gotto: una mano di vernice stesa sempre da papà Salvatore, che di suo ammirava Francesco Moser e correva fra i dilettanti, fra i monti Nebrodi e sogni più alti. Enzareddu aveva nove anni e che gli altri fossero più grandi, e più forti, se ne fregò. Era tosto come adesso, arrivò secondo dopo una fuga lunga lunga e le mascelle degli osservatori si allargarono: chi è quel picciotto? Non stava mai fermo Era lui, ancora detto la Pulce, il futuro Squalo, messo in bici da mamma Giovanna perché non stava mai fermo, tenuto in sella da papà «che quando un giorno mi disse che voleva smettere, gli mollai un ceffone». Dopo quelle notte insonni, figuriamoci. Fra la cartolibreria di famiglia a Messina e i tapponi dolomitici o pirenaici di strada ce n’era tanta da fare. Nibali se l’è pedalata tutta, da emigrante come nonno Vincenzo, che negli anni ’30 si era viaggiato il mondo fino all’Australia e ritorno. Lo squaletto siciliano a 17 anni si è messo il futuro in spalla ed è approdato a Lamporecchio, provincia di Pistoia, una seconda casa; poi in Svizzera, provincia del Kazakistan, dove stanno i «piccioli», come direbbe il Montalbano, i soldi per fare una grande squadra. Ha mantenuto da professionista quello che ha aveva promesso da dilettante, è passato dalla Mastromarco alla Fassa-Bortolo, dalla Liquigas all’Astana, dal Giro del Trentino alla Vuelta, al Giro d’Italia, al Tour. Cose di un altro mondo. «Dentro però sono sempre il bambino che andava in bici con papà». Quello che quando Salvatore se lo vide scattare davanti in salita, a 11 anni, «allora capii che poteva diventare qualcuno». In negozio a Messina Ieri Salvatore era in negozio a Messina, con moglie figlia e 50 tifosi. «Vincenzo è eccezionale, non si blocca mai, da quando è salito in triciclo non si è fermato più». Il monello che era, i capricci che faceva, tutta roba finita dentro il corpo piccolo ma capiente di sogni, in fondo alla mente. Energia che la accumuli e poi ti torna fuori quando ti serve una rabbia calma, che fa male agli altri e non a te: in salita, in discesa, sul pavé due anni fa in Francia, sulle Alpi negli ultimi giorni. Gli altri che ti fanno a pezzi, e tu che ti rimetti insieme. Perché c’è volta che ti fai male, e cedi alla tentazione di attaccarti all’ammiraglia. E quella che un’ape ti punge e tu anche se hai il permesso del medico, che insomma non succede niente, il cortisone non lo prendi lo stesso. Perché il doping non vuoi nemmeno che ti sfiori, nemmeno l’idea. Perché Nibali è il ciclismo che ha imparato la lezione, e la gioia che gli altri hanno frantumato te la restituisce così, come ieri, tutta intera. *** PAOLO DI STEFANO, CORRIERE DELLA SERA 29/5 – Se c’è qualcosa che accomuna la faccia di Vincenzo Nibali a quella di altri grandi campioni del pedale, Coppi e Bartali per esempio, è che anche quando sorride quella faccia rimane triste. Figurarsi l’esplosione di gioia: mai. Eventualmente, l’esplosione di pianto, come quella di venerdì. Chissà com’è che succede questa assurda fisiognomica in cui la gioia, quando non si rovescia nel suo contrario, resti sempre come offuscata da qualcosa che non sappiamo cogliere, chissà perché: forse perché i grandi, più dei mediocri, sanno (e sono grandi anche per questo) che sta scritto in ogni umano destino che il vento, prima o poi, cambia. Del resto, quante volte è cambiato il vento di Nibali, in questo Giro: da vincitore annunciato a perdente senza scampo a trionfatore ormai impensabile. Su e giù e su ancora, salite e discese e risalite, come le più dure tappe di montagna. E anche ieri, quando tutto si era gloriosamente (e inaspettatamente) compiuto, le labbra di Vicenzo erano tirate, la dentatura minacciosa e appena visibile, da squalo, dicono. Già, lo Squalo: «Pelli come la cartavetrata ma, più che pelli, caratteri». Così Stefano D’Arrigo, lo scrittore messinese di «Horcynus Orca», l’epopea omerica dello Stretto, descriveva il pescecane siciliano: con gli stessi aggettivi che usava per i pescatori. Caratteri di cartavetrata, come la pelle. Ecco a cosa somiglia la faccia di Nibali: alla cartavetrata. E in questo sorriso di cartavetrata, in questa consapevolezza disincantata del saliscendi della vita, c’è e non c’è quella che Sciascia chiamò la sicilitudine, cioè la coscienza, quasi metafisica, di separatezza e di esclusione. Troppo facile vedere nel feroce colpo di pedale una presunta volontà di riscatto da quella (altrettanto presunta?) esclusione. Che noia. E dove lo mettiamo il gioco di squadra? Lasciamo perdere, per favore, la sicilitudine. Semmai vale, per quello squalesco sorriso-non sorriso, ciò che ravvisava nei siciliani un altro siciliano, Gesualdo Bufalino: quando diceva che nella sua isola «dura poco l’allegria di sentirsi seduto sull’ombelico del mondo, subentra presto la sofferenza di non saper districare tra mille curve e intrecci del sangue il filo del proprio destino». *** GIANNI MURA, LA REPUBBLICA 29/5/2016 – Dev’essere ancora più bello vincere così. Aggrapparsi agli ultimi chilometri di salita e discesa, elettrizzare il pubblico lungo i tornanti. Da quanto tempo non succedeva? Ancora Nibali, Tour 2014. E prima, ancora Nibali, Giro 2013. Ma lì, a ripensarci, sembrava tutto più facile: ultime due settimana in maglia rosa, lo squillo alle Tre Cime, quasi 5’ sul secondo, alla fine. Una passeggiata, anche se il ciclismo non è mai una passeggiata. Quest’anno Nibali ha corso contro gli avversari e le zone d’ombra, da favorito che si vede battuto, quasi umiliato sul suo terreno. E che è spinto a pensare che ci sia qualcosa (un virus, una maledizione) a bloccargli le gambe. Vedi esami clinici a Milano, pochi giorni prima della rinascita a Risoul. E prima di ieri, quando Vincenzo vince un Giro che pareva già perso, bravissimo lui e tutta l’Astana. Bisogna stare attenti, coi ciclisti. Esaltano ma commuovono anche. Il ciclofilo segue una fede, più che un ragionamento. Per tutti questi fedeli le cattedrali a cielo aperto sono le salite: lì continuano a pedalare Pantani e Bartali, Coppi e Merckx, Massignan e Bahamontes, Ocaña e Binda, Hinault e Gaul. Contro ogni evidenza e logica, chi andava sulle strade delle ultime tappe alpine aspettava Nibali. Perché si sa com’è fatto, che carattere ha. E perché la logica e la fatica in bici non hanno molto da spartire. Così abbiamo visto due Nibali molto diversi. A Risoul, sul traguardo, indica il cielo per ricordare il ragazzo morto a Messina, e poi si accascia sul manubrio, si copre con un asciugamani e si lascia andare a un lungo pianto. Non si vede la faccia, solo torace e schiena scossi dai singhiozzi. È il momento in cui Nibali ritrova se stesso, quello che torna a fare il vuoto in salita. È il momento in cui pensa di poter ancora vincere il Giro, o almeno provarci, perché con la forza delle gambe gli è tornato il morale. Resta da definire il piano di combattimento, le pedine da muovere, come e quando, ma lui c’è, lo sa lui e lo sanno tutti. In primis lo sa il sorridente Chaves: basta tenergli la ruota ed è fatta. Non è riuscito a tenerla, ha perso il Giro ma non il sorriso. Tre anni fa gli dissero che non avrebbe più potuto correre, anche il podio lo fa felice. E i suoi genitori, bella faccia da contadini, sono i primi ad abbracciare Nibali, quasi incredulo. Ma in quale altro sport poteva accadere? Anche l’abbraccio di Valverde non è come quello tra calciatori a fine partita. Con tutte le siringhe del passato, adesso in calo si spera, con tutti gli ubriachi imparruccati che cercano di rovinare il ciclismo delle cattedrali, questo sport è un erogatore di buoni sentimenti, che preferisco chiamare umanità. Con questo Giro, senza dimenticare l’impronunciabile olandese dalla faccia di bambino, abbiamo fatto il pieno di umanità, perché il ciclismo resta un paesone in cui buongiorno significa solo buongiorno. Come sarebbe piaciuto a Zavattini. “I poveri sono matti”, scrisse. Anche i ciclisti, a modo loro, sono matti. Dentro ogni ciclista c’è un povero, ma ricco di spirito d’avventura. Chi non sa amarli, almeno li rispetti. *** GABRIELE DE BARI, IL MESSAGGERO 29/5 – Erano dai tempi di Marco Pantani che un corridore non regalava emozioni così profonde e intense. Vincenzo Nibali piace per quel suo modo di attaccare, di correre anche per lo spettacolo, di interpretare le aspettative della gente. Un ragazzo del Sud che, per correre a grandi livelli, si è trasferito a Mastromarco in Toscana. Un campione della faccia pulita e dai modi educati, che dà sempre l’anima per inseguire un traguardo, che sorride anche quando perde. La vittoria in questo Giro, che lo aveva visto sull’orlo del baratro e vicino al ritiro, l’ha fatto entrare nel cuore della gente più del Tour conquistato nel 2014. La capacità di rinascere dalle ceneri di una cronoscalata disastrosa, di recuperare 5 minuti in 2 tappe, esaltandosi nell’agone, ne hanno accresciuto l’affetto e la popolarità. Il suo palmares è già prestigioso: 2 Giri, un Tour, una Vuelta, un Lombardia e vari piazzamenti da podio. Il prossimo obiettivo segnato in rosso sono le Olimpiadi di Rio, che preparerà correndo in Francia per aiutare il compagno Aru. Campione pagato tanto (percepisce 3,5 milioni di euro all’anno), a fine stagione divorzierà dall’Astana e, molto probabimente, approderà in una formazione che sta nascendo in Barhein. In Sicilia sponsorizza una squadra giovanile della quale faceva parte Rosario, il ragazzo morto in un incidente stradale, al quale ha dedicato il successo di Risoul. LE DICHIARAZIONI Dopo il traguardo ha ricevuto anche l’abbraccio del rivale Valverde. «Un bel gesto, come quello dei genitori di Chaves. Ascoltavo lo speaker che scandiva i secondi, per essere certo di vinto il Giro, quando l’ho capito, l’emozione è stata indescrivibile. E’ stato un Giro difficile e sofferto, nella cronoscalata ho vissuto la giornata peggiore, però mai ho avuto l’intenzione di mollare. I tifosi, nonostante il ritardo, ci credevano sempre, così come i compagni di squadra. Senza il loro aiuto non avrei vinto. Avevamo preparato la tappa decisiva, che conoscevo bene, Scarponi meriterebbe una statua ma anche Kangert e Fulgsang sono stati bravissimi. E’ stata una tappa fantastica, indimenticabile, un giorno spettacolare che mi ripaga di tanti sacrifici. Ora voglio riposare, recuperare le energie e godermi la vittoria». Alla nuova maglia rosa ha reso onore anche lo sconfitto Chaves. «Speravo di conservare il primato, ho fatto il possibile fino all’ultimo, però Nibali è andato più forte. Non ho niente da recriminare, in fondo è soltanto una corsa in bici e lo sport è anche questo».