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 2016  maggio 28 Sabato calendario

APPUNTI APERTURA FOGLIO ROSA – ILVO DIAMANTI, LA REPUBBLICA 20/5 – Mancano due settimane alle elezioni amministrative, che interesseranno oltre 1

APPUNTI APERTURA FOGLIO ROSA – ILVO DIAMANTI, LA REPUBBLICA 20/5 – Mancano due settimane alle elezioni amministrative, che interesseranno oltre 1.300 comuni. Di questi, tredici superano i 100 mila abitanti. È, dunque, un appuntamento importante. Per i cittadini, per la società locale. E per il governo. In Italia, infatti, non c’è elezione che non abbia interesse “nazionale”. In questa occasione forse più che in altre. Perché il risultato influenzerà il clima d’opinione, in vista del referendum costituzionale del prossimo ottobre. Scelto da Matteo Renzi per legittimare se stesso. Come premier e come leader. Ma il significato di questa scadenza dipende anzitutto dall’importanza delle città dove si vota. In primo luogo, Roma capitale. Quindi Milano, Napoli, Torino. Anch’esse “capitali”. E Bologna. A sua volta, storicamente, capitale dell’Italia “rossa”. Si vota, ovviamente, anche in altri comuni importanti. Ma queste città ci sono apparse particolarmente significative per svolgere un sondaggio, su campioni rappresentativi della popolazione. Consapevoli che il rischio di “non prenderci” è elevato. Come avviene regolarmente. Per ragioni che, dopo il voto, vengono invocate come scuse. Ma sono reali. Fra tutte: l’elettore è sempre più mobile. Disilluso. E l’offerta politica – partiti, coalizioni, leader – cambia. Sempre più. Così è complicato cogliere tendenze finite e definite. Perché i sondaggi non “pre-vedono”, ma, se va bene, “vedono”. Ciò che avviene in un determinato momento. E due settimane sono un periodo lungo, considerati i tempi di (in)decisione del voto. Tuttavia, alcuni orientamenti appaiono piuttosto chiari. A Bologna, Torino, Napoli, in particolare, dove si sono ricandidati i sindaci in carica. Un fattore che conta, nelle scelte degli elettori. Infatti, sembrano tutti vicini alla conferma. Anche se non è certo che riescano a imporsi al primo turno. E ciò costituisce comunque un rischio. Anche quando la soglia del 50% è vicina. Basti pensare al precedente di Bologna, appunto. Quando, nel 1999, Silvia Bartolini, candidata Ds, dopo essersi avvicinata al 47% al primo turno, perse il ballottaggio con Giorgio Guazzaloca. In questa occasione Virginio Merola, sindaco uscente, pare molto vicino alla maggioranza assoluta. Potrebbe farcela. Ma non è possibile, comunque, fare previsioni certe. Neppure sullo sfidante. Massimo Bugani, candidato del M5S, e Lucia Borgonzoni, sostenuta da Lega e FI, sono molto lontani da Merola. Ma vicini fra loro. Entrambi poco sopra il 15%. In caso di ballottaggio, comunque, l’esito appare scontato. Troppo largo il distacco perché si ripeta la sorpresa del 1999. Anche altrove, fra le città “sondate”, emerge un dubbio analogo. Relativo, cioè, allo sfidante più che al vincente. A Roma e a Napoli, in particolare. Nella Capitale, infatti, Virginia Raggi, candidata del M5S, al primo turno, appare in testa. Oltre il 30%. Ma non è chiaro chi affronterà, nel ballottaggio, fra Giorgia Meloni e Roberto Giachetti, candidati della Destra, la prima, e del Pd, l’altro. Entrambi sopra il 20%, ma non di molto. Mentre appare fuori gioco Alfio Marchini. Poco sopra il 10%. Penalizzato, fra l’altro, dall’immagine di “ruota di scorta” di Berlusconi. Che aveva puntato, fino all’ultimo, su Guido Bertolaso. Più dietro c’è Stefano Fassina, il cui risultato, però, “pesa” perché erode consensi al centro- sinistra. Nel ballottaggio, comunque, nessun candidato sembra avere chances, nel confronto con Virginia Raggi. Che potrebbe insediarsi e insediare l’antipolitica al centro della politica. Il M5S: al governo di Roma. Non molto diverso il caso di Napoli, dove Luigi de Magistris è accreditato, al primo turno, di un risultato molto elevato, oltre il 40%. Inavvicinabile per i possibili sfidanti, Matteo Brambilla, M5S, Gianni Lettieri, FI, e (ultima) Valeria Valente, Pd. Tutti lontani dal sindaco in carica, secondo le stime elettorali. Tanto più in caso di ballottaggio. Anche a Torino i dati del sondaggio di Demos-Repubblica, lasciano prevedere la conferma di Piero Fassino. Ma, di nuovo, dopo un ballottaggio con la candidata del M5S, Chiara Appendino. Resta Milano. La Capitale del Nord. In particolare, della Lega Nord, che la “conquistò” nel 1993. Quando Formentini divenne sindaco. Ebbene, 23 anni dopo Milano resta un teatro esemplare del cambiamento avvenuto, dopo il crollo della (cosiddetta) “Prima Repubblica”. A Milano, infatti, si confrontano due figure per molti versi simili. Due tecnocrati. Evocano il “governo degli esperti”, che ha guidato l’Italia, per alcuni anni. L’era del “montismo”, che il “renzismo” sembra aver destinato al “governo” della capitale economica. Milano, appunto. Dove, secondo il sondaggio di Demos-Repubblica, Beppe Sala, il candidato del Pd e del Centrosinistra, appare favorito su Stefano Parisi. Rispetto al quale risulta davanti nel primo turno. Mentre nel ballottaggio il suo vantaggio cresce e risulta più ampio di quanto è emerso in altri sondaggi. A favore di Sala giocano, sicuramente, la popolarità del sindaco in carica, Pisapia. E il giudizio positivo espresso dai cittadini nei confronti del lavoro dell’amministrazione uscente. Peraltro, nelle città dove si è svolto il sondaggio di Demos per Repubblica si rileva una maggioranza di sì (superiore al 40%) al referendum costituzionale del prossimo autunno. Nell’insieme, questo sondaggio conferma l’immagine di un Paese di paesi. E di città. Perché, per citare Carlo Azeglio Ciampi, l’Italia è unita dalle sue diversità. La riforma del 1993 ha rafforzato questo profilo. Perché ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci. E, al tempo stesso, ha “personalizzato” le specificità del territorio e della società. Per questo, il voto amministrativo costituisce un’importante occasione di verifica “popolare” sui governi e sui sindaci delle nostre città. Che si tradurrà, inevitabilmente, in un giudizio sul Sindaco d’Italia. Ilvo Diamanti, la Repubblica 20/5/2016 *** ANTONIO POLITO, CORRIERE DELLA SERA 28/5 – Cos’è la destra, cos’è la sinistra, si domandava stralunato Giorgio Gaber prima di lasciarci. Se lo sono chiesti l’altra sera anche alla redazione di Sky, quando è arrivato il momento di decidere che cosa scrivere nel sottopancia dei candidati romani durante il prossimo dibattito televisivo previsto per martedì. Giachetti non voleva «Pd» ma «centrosinistra», Meloni allora voleva pure lei «centrodestra», ma Marchini ha con sé metà centrodestra e dunque si è ribellato, e anche Fassina avrà obiettato che il «centrosinistra» non è tale perché manca Sel che la volta scorsa c’era eccome nelle vittorie di Milano, Roma, Napoli e Cagliari, e allora la Raggi ha accusato gli altri di vergognarsi del nome del loro partito mentre lei può scrivere con orgoglio «M5S», e a questo punto Giachetti le ha risposto che si dovrebbe aggiungere «Casaleggio associati», e alla fine Sky ha lasciato perdere: nei sottopancia non si scriverà niente. Solo la sfilza di sigle e simboli, spesso misteriosi o ignoti, che sostengono i candidati al Campidoglio. Sembrerebbe un episodio del folklore politico romano, l’ultima puntata della saga «Chi viene dopo Marino?». M a l’incidente del sottopancia potrebbe invece anche essere il segno di un’epoca, l’epoca in cui i partiti sanno solo di non sapere chi sono e vogliono tutti essere qualcos’altro, possibilmente tutti «partiti della nazione». La crisi delle identità politiche, esplosa un quarto di secolo fa con l’irruzione sulla scena del berlusconismo, conoscerebbe così un nuovo inizio con il renzismo, ircocervo altrettanto difficile da definire. Intendiamoci, può anche darsi che si tratti dell’ennesima intuizione profetica partorita dall’anomalia italiana: tutto sommato siamo il Paese che ha inventato l’antipolitica negli anni 90, e ora che è esplosa ovunque forse saremo anche il primo Paese che la fronteggerà inventandosi nuove e inedite aggregazioni al posto di Popolari e Socialisti, centrodestra e centrosinistra, la norma nel resto d’Europa. Non deve essere quindi un caso se lo stesso Renzi guarda con tanto distacco a queste elezioni comunali, al punto da aver lanciato nel pieno della campagna elettorale amministrativa la campagna elettorale per un referendum che si svolge tra cinque mesi. Si vede che più che come segretario del Pd, Renzi preferisce essere giudicato come leader di quel partito trasversale del Sì cui partecipano, a proposito di «centrosinistra», due partiti di centrodestra, il Nuovo Centrodestra di Alfano e l’Ala di Verdini. Mentre i candidati sindaci del Pd tutto vorrebbero tranne che nelle urne comunali si giocasse un anticipo del referendum costituzionale, perché così rischierebbero sicuramente di perdere degli elettori già schierati con il No (per esempio nella Torino di Fassino, patria putativa e intellettuale dei difensori della Costituzione a oltranza). Il meno che si possa dire è che grande è la confusione sotto il cielo, ma ciò nonostante la situazione non è eccellente. Gli strumenti tradizionali della politica non sono più a disposizione dei cittadini, le alleanze future tra i partiti sono al momento un rebus avvolto in un enigma, e quindi gli elettori dovranno trovare dei nuovi e speriamo efficaci criteri per decidere chi votare la prossima settimana. «Una bella minestrina è di destra, il minestrone è sempre di sinistra», cantava Gaber. Oggi il menù elettorale si è decisamente arricchito. Purché non siano minestre riscaldate. Antonio Polito *** FRANCESCO VERDERAMI, CORRIERE DELLA SERA 26/5 – Due diversi appuntamenti elettorali, due diverse città, due diversi modelli di coalizione: ecco le faglie che attraversa il centrodestra, esposto al rischio sismico. Tra Amministrative e referendum, tra il voto a Roma e il voto a Milano, tra l’opzione di un candidato premier moderato o di un candidato premier lepenista, corre una linea di frattura che cambierà definitivamente la geografia di quel continente politico emerso ventidue anni fa. Più si approssimano le urne per le Comunali, più il sismografo segnala un aumento dell’attività tellurica in quell’area. E il bollettino diramato ieri dal Cavaliere non basta a nascondere i solchi sempre più profondi: non basta — per esempio — sostenere che Forza Italia nella Capitale sarebbe pronta a votare la Meloni al ballottaggio, tranne poi definire la leader di FdI una «professionista della politica», che nel lessico berlusconiano equivale a una scomunica. E c’è un motivo se, parlando della corsa al Campidoglio, l’ex premier ha citato tutte le ipotesi di scuola, tranne una: cioè l’eventuale duello al secondo turno tra Raggi e Giachetti. Lì si verificherebbe il primo clamoroso strappo tra chi — come la Meloni e prima ancora Salvini — si è detto pronto a sostenere la candidata grillina, e chi — come Berlusconi — ha già spiegato che «la priorità» è «impedire la vittoria dei 5 Stelle», considerati un «fenomeno pericoloso». È inutile quindi inseguire le voci su un patto che sarebbe stato già stretto con il Pd, per non lasciar cadere Roma nelle mani del Movimento: bastano le dichiarazioni pubbliche di Berlusconi, e quei tre posti in giunta che Giachetti — annunciando la sua squadra — ha lasciato vacanti. È chiaro che una simile scossa si avvertirebbe ben oltre il Raccordo anulare, e l’onda d’urto si propagherebbe nel centrodestra a livello nazionale. D’altronde, per un Salvini che ha scritto un libro per pre-candidarsi a premier, c’è un Cavaliere che ha in testa un’altra trama: la scelta «la faremo quando si andrà alle elezioni», il nome lo diranno «i sondaggi», e comunque «serve un uomo che venga dalla trincea del lavoro». Insomma, «tutti» tranne Salvini. Che poi quel «tutti», per Berlusconi, sarebbe ancora il solo Berlusconi, «perché con me in campo Forza Italia tornerebbe al 37%» e «con me in campo a Palazzo Chigi ci sarebbe il centrodestra, senza di me la sinistra». Così l’ex premier vorrebbe controllare e se possibile depotenziare l’altro punto della faglia: l’esperimento milanese, incubatore di un nuovo modello di centrodestra a trazione moderata. Finora Parisi è stato abile a dribblare ogni accostamento con un futuro progetto nazionale, in modo da sfuggire alla marcatura del Cavaliere. Se non fosse che anche Salvini è passato alla difesa «a uomo», temendo di venir scavalcato nella corsa per Palazzo Chigi, qualora si conquistasse di rimonta Palazzo Marino. Da tempo si sono formate le squadre: di qua c’è La Russa, che spiega perché «Milano non potrà mai essere un modello esportabile a Roma»; di là c’è Lupi, che ricorda come «l’unico centrodestra di governo è a guida moderata». Finora le scosse non erano state percepite. Ma avvicinandosi la data del voto, e soprattutto avvicinandosi Parisi a Sala nei sondaggi, il capo del Carroccio ha iniziato un pressing asfissiante sul suo stesso candidato, provocato a più riprese sul referendum costituzionale, invitato alla manifestazione per il No, «perché — dice Salvini — sono certo che Stefano si schiererà con il Sì dopo le elezioni». «Stefano» per il momento non intende fare outing e sfugge alla marcatura con l’abilità di chi conosce la politica per averla frequentata: «Sono allenato ai dribbling...». Si vede. Se i sospetti del segretario leghista fossero fondati, se gli indizi raccolti (e consistenti) diventassero una prova, un ulteriore terremoto scuoterebbe il centrodestra. Ecco il terzo punto della faglia, che corre lungo la linea marcata dalle Amministrative e dal referendum. Una vittoria a Milano del centrodestra e un successivo appoggio alle riforme, trasformerebbe il mondo che fu berlusconiano. Tanto da dividerlo per sempre. A meno che, a quella scossa, non seguissero altre scosse e la fase di assestamento non finisse per inghiottire le ambizioni di Salvini, portando ad altri equilibri dentro la Lega. Ma gli effetti dirompenti si avrebbero anche se il terremoto avesse uno sviluppo diverso, e il segretario del Carroccio riuscisse a imporsi sugli alleati. Perché sono due placche tettoniche, due diversi modelli destinati a scontrarsi. Perciò tutti si preparano al «Big One». *** Per scongiurare l’effetto «tutti contro uno», Matteo Renzi si è fatto vedere il meno possibile nelle città che vanno al voto. Ma all’ultimissimo miglio il leader del Pd ha deciso di metterci la faccia e di sostenere i suoi candidati sindaci. Una scelta che ha fatto infuriare i Cinque Stelle, convinti che il premier debba restarsene a Palazzo Chigi invece di girare l’Italia per spingere i suoi candidati. «È scandaloso — protesta Virginia Raggi —. Il premier non sta facendo il suo lavoro, continua a fare campagna elettorale e ad attaccarmi». Tanta rabbia si spiega perché nell’agenda di Renzi è spuntata una nuova data: «Roma, 21.30, teatro». Il che vuol dire che mercoledì il capo del governo sarà nella Capitale al fianco di Roberto Giachetti per una sorta di pre-chiusura. «È evidente che c’è il partito di Palazzo Chigi», polemizza l’aspirante sindaco di centrodestra Alfio Marchini. E Giachetti: «Se è scandaloso che Renzi sia con me l’1 giugno lo decideranno i romani». Lo staff del vicepresidente della Camera cerca il palcoscenico giusto per la kermesse e di certo non sarà l’Ambra Jovinelli, il teatro caro alla sinistra dove Bersani chiuse la campagna, non fortunatissima, del 2013. D’altronde per Giachetti la vera chiusura sarà venerdì 3, con una inedita formula «itinerante». E dunque non è Roma, né Milano, la piazza scelta da Renzi per l’ultimo sprint. Il premier infatti concluderà la corsa delle Amministrative a Bologna, venerdì 3 giugno, per poi fare sosta anche a Rimini e a Ravenna. Giocherà in casa, negli spazi della Festa dell’Unità bolognese e al fianco di Virginio Merola. Il sindaco uscente arriva alle urne con una «coalizione larga che ha radici nello spirito ulivista» e conta di vincere al primo turno: «Noi facciamo eccezione rispetto alle altre città...». Viene il sospetto che Renzi sia stato attento a non personalizzare troppo perché la partita è ad alto rischio. Ma Lorenzo Guerini lo esclude, assicura che al Pd «c’è ottimismo», giura che la scelta delle ultime tappe «è solo questione di agenda» e conclude che «Renzi non ha personalizzato perché si vota sui sindaci, non si vota sul premier». Se Renzi non chiuderà nelle piazze più a rischio, altrettanta cautela aleggia nelle stanze del M5S. Il tam tam dice che Beppe Grillo potrebbe lasciare sola Virginia Raggi sul palco di piazza del Popolo, per l’ultimo comizio di venerdì nella capitale con l’attore Claudio Santamaria e (forse) anche con il cantante Fedez. Lei ci spera ancora: «Credo proprio che Grillo ci sarà, stiamo chiudendo gli ultimi dettagli...». Ma la diserzione del leader «per motivi di carattere personale» è nell’aria, tanto che tra i Cinque Stelle c’è chi dice che Grillo stia preparando un video-messaggio. Di ritorno dal Giappone, oggi Renzi farà tappa a Venezia, a Trieste e a Reggio Calabria. Lunedì 30 sarà a Torino per chiudere la maratona di Piero Fassino ed è la prima volta che il premier si fa vedere sotto la Mole Antonelliana in questa campagna elettorale. Martedì 31 tornerà a Milano per condividere l’ultimo sforzo di Giuseppe Sala nel testa a testa con Stefano Parisi. Il 2 giugno Renzi sarà di nuovo a Roma, ma per le celebrazioni della Festa della Repubblica. Monica Guerzoni *** MASSIMO FRANCO, CORRIERE DELLA SERA 24/5 – Almeno fino alle Amministrative del 5 giugno e ai ballottaggi del 19, qualunque speranza di moderazione nel dibattito sul referendum di ottobre in tema di riforme appare mal riposta. I due temi si mescolano in maniera inestricabile. E diventano parte di una campagna elettorale dai toni fin troppo accesi, utilizzati per parlare poco dei problemi delle città e molto dei contraccolpi politici sul governo nazionale. Forse perché la crisi economica riduce qualunque investimento negli enti locali, il referendum diventa, da laterale, un argomento-principe: sebbene i candidati sindaci se ne tengano accuratamente a distanza. E con ottime ragioni. I contrasti percorrono trasversalmente soprattutto il Pd e le organizzazioni vicine. Rendono conflittuale la lettura della storia del Pci e di personaggi come Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao. Insomma, scompongono un’identità che sembrava condivisa e oggi non lo è più. E fanno passare in secondo piano qualunque riflessione sul merito delle riforme istituzionali. C’è un governo, quello del segretario-premier Matteo Renzi. Ci sono i suoi ministri e la sua classe dirigente, tutti schierati per il «sì». E poi c’è una pletora di avversari, dentro e fuori dalla sinistra, con i quali finora non esistono punti di dialogo: quasi fossero due fronti in guerra. Affiora il rischio concreto di una delegittimazione, se non di una demonizzazione reciproca. L’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, invoca «sobrietà» e avverte che non si può rinviare ancora. Ma viene attaccato in quanto difensore delle riforme; e insultato dalla destra come «puparo» di Palazzo Chigi per averle promosse e spinte finché è stato al Quirinale. Il capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, ricorda a Forza Italia di essere stata sostenitrice della rielezione di Napolitano nel 2013. Dunque, «prima di attaccarlo in modo scomposto e volgare», afferma, «un po’ di memoria non guasterebbe». Ma le sbavature si registrano su entrambi i fronti referendari. Le accuse di usare strumentalmente la storia della sinistra e la Costituzione rimbalzano da una parte all’altra. Il tentativo degli avversari del governo è di presentare come demolitori della Carta fondamentale quanti voteranno «sì»; e suoi difensori chi dirà «no». I fautori della riforma ribattono che difendere lo status quo significa lasciare l’Italia nella «palude»; condannarla all’immobilismo di un sistema che non funziona; e screditarla agli occhi dell’Europa. Sono tutte posizioni che spesso prescindono da un’informazione corretta sul contenuto. L’alternativa è tra «cambio» e «conservazione», tra «libertà» e «regime»: di fatto, una discussione ideologica. La lite nel Pd sul modo in cui si schiereranno i partigiani dell’Anpi riflette bene questa deriva. E infatti sta diventando surreale. La polemica è anche emblematica, però, di un nervosismo diffuso che promette solo di esasperare i toni. C’è da augurarsi che dopo le Amministrative si cominci a discutere con più equilibrio, per permettere scelte non inquinate dalla faziosità. *** PAOLA PROFETA, CORRIERE DELLA SERA 23/5 –  A pochi giorni dal 5 giugno, quanti elettori sanno che si vota con la doppia preferenza di genere? Alle prossime elezioni comunali possiamo esprimere due preferenze per i consiglieri comunali, una per una candidata donna e una per un candidato uomo. Questa opportunità si applica a partire dalle elezioni municipali del 2013, ed è una misura fondamentale per la promozione della rappresentanza femminile nella politica locale. Un recente studio che abbiamo condotto all’Università Bocconi (con A. Baltrunaite, A. Casarico, P. Profeta e G. Savio, Let the Voters Choose Women , Università Bocconi e CESifo wp 5693) mostra che nel 2013 la doppia preferenza di genere ha garantito un aumento del 22% nella proporzione di donne elette nei consigli comunali. L’effetto è identificato confrontando i comuni sopra i 5.000 abitanti (per cui è prevista la possibilità della doppia preferenza di genere) e quelli sotto questa soglia (per cui non è prevista). Lo studio mostra che l’aumento delle donne elette è dipeso proprio dalla doppia preferenza di genere, piuttosto che dalle quote di genere previste nelle liste dei candidati, poiché non abbiamo trovato nessun cambiamento significativo alla soglia nella proporzione di donne candidate. Un risultato significativo, ma se tutti gli elettori fossero informati sulla doppia preferenza di genere (che nulla toglie a nessuno dei due candidati) l’effetto sarebbe più ampio! L’Italia sta compiendo negli ultimi tempi una radicale trasformazione quando guardiamo alla parità di genere nella sfera della politica. Secondo il Global Gender Gap Report del World Economic Forum, nel 2015 il nostro Paese è balzato al 24esimo posto su 145 Paesi, guadagnando circa 28 posizioni rispetto all’anno precedente, grazie all’aumento delle donne ministre e delle donne in Parlamento. La doppia preferenza di genere nelle elezioni comunali può aiutarci ad accelerare il processo verso la parità di genere anche nella politica locale, che è vicina alle esigenze degli elettori, prende alcune decisioni importanti per le famiglie, per i servizi di cura, per il lavoro femminile, e può svolgere un ruolo vitale di raccordo tra i cittadini e la politica. L’aumento delle donne elette nella politica locale contribuisce all’empowerment femminile e alla diffusione di role models di donne in politica su tutto il territorio. Ma soprattutto, la presenza bilanciata di uomini e donne nelle istituzioni politiche può essere un volano per la parità di genere nella dimensione economica — nella quale siamo purtroppo relegati al 111° posto della classifica — e per rimettere il tema del lavoro delle donne nell’agenda politica a tutti i livelli. Le ricadute positive della parità di genere economica sulla crescita del Paese sono ben note. Per questo il 5 giugno votiamo una donna e un uomo. Paola Profeta *** Il prossimo 5 giugno ci saranno in Italia le elezioni amministrative. Andranno a votare quasi tutti i principali comuni italiani: Roma, Milano, Torino, Napoli e Bologna. In tutto dovranno eleggere il sindaco e il consiglio comunale 1.368 comuni, tra cui 26 capoluoghi di provincia. Si voterà in in un solo giorno, dalle ore 7 alle 23. Il turno di ballottaggio è previsto per il 19 giugno. Abbiamo raccolto candidati, schieramenti e qualche storia dei 13 comuni con più di 100 mila abitanti che andranno al voto il 5 giugno (e abbiamo incluso anche Bolzano, dove si è votato l’8 maggio). Uno degli elementi che emergono in generale con maggiore chiarezza è la divisione del centrodestra, che in moltissime città si presenta diviso: Forza Italia e NCD da un lato, Lega Nord con Fratelli d’Italia dall’altro. Le elezioni a Roma Secondo i sondaggi, che vanno sempre presi con una certa cautela, la candidata favorita nella capitale è Virginia Raggi del M5S, con circa il 27-30 per cento dei consensi. Raggi ha 37 anni, è laureata in Giurisprudenza e ha fatto pratica di avvocato nello studio di Cesare Previti. Il candidato del PD Roberto Giachetti, che ha vinto le primarie all’inizio di marzo, è dato a pochi punti di distanza. Sinistra Italiana e altre formazioni di sinistra radicale appoggiano invece il deputato ed ex vice ministro dell’Economia Stefano Fassina. Nel centrodestra la situazione sembra essersi assestata dopo mesi di trattative, incertezze e divisioni (esemplificate da una serie di recenti dichiarazioni del capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta). Forza Italia e il Nuovo Centro Destra appoggiano l’imprenditore Alfio Marchini. Ha 51 anni, si era candidato anche nel 2013 con due liste civiche e aveva ottenuto il 9,5 per cento dei voti. La Lega Nord appoggia la candidata di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Repubblica ha riassunto così questa settimana la situazione secondo i principali istituti che si occupano di sondaggi: «Virginia Raggi ha un quarto del mercato dei voti, attestandosi intorno al 25%. Roberto Giachetti del PD, Giorgia Meloni e Marchini si spartiscono il restante 60%». La presenza di quattro candidati più o meno sullo stesso livello, unita al fatto che ovviamente solo due di questi potranno andare al ballottaggio, rende particolarmente imprevedibili queste elezioni a sindaco. Le elezioni a Milano A Milano la situazione politica è apparentemente più semplice. Centrodestra e centrosinistra hanno entrambi un loro candidato che appoggiano in maniera piuttosto unitaria. Il centrosinistra candida Giuseppe Sala, ex amministratore delegato di EXPO che ha vinto le primarie dello scorso 7 febbraio. Il centrodestra, composto da Forza Italia, NCD e Lega Nord, appoggia l’ex manager pubblico e dirigente del comune di Milano Stefano Parisi. Secondo i sondaggi Sala perso il suo iniziale vantaggio su Parisi e i due sono dati quasi alla pari. Il M5S sembra la forza politica più in difficoltà, anche perché non è mai stato particolarmente forte a Milano. Lo scorso novembre, con una consultazione online, il Movimento aveva deciso di candidare Patrizia Bedori, 53 anni, ex dirigente di un’azienda di arredamento, al momento disoccupata. A marzo Bedori ha ritirato la sua candidatura, dicendo di non riuscire a reggere la pressione mediatica. Nelle settimane precedenti erano circolate diverse voci secondo cui diversi esponenti del suo partito non la ritenevano all’altezza dell’incarico. Il nuovo candidato è Gianluca Corrado, arrivato terzo alle primarie online di novembre. Le elezioni a Napoli Il candidato favorito è il sindaco uscente Luigi de Magistris, appoggiato da liste civiche, da Sinistra Italiana e da Possibile. De Magistris è un ex magistrato ed ex parlamentare europeo eletto con l’Italia dei Valori. A circa dieci punti di distanza i sondaggi danno il candidato appoggiato da Forza Italia, Gianni Lettieri, imprenditore napoletano già sconfitto da De Magistris alle elezioni del 2011, quando il PD non riuscì nemmeno ad arrivare al ballottaggio. Anche a Napoli il centrodestra è diviso, però: Lega Nord e una parte di Fratelli d’Italia appoggiano il deputato Marcello Taglialatela, eletto per quattro volte alla Camera prima con AN, poi con il Popolo della Libertà e infine, nel 2013, con Fratelli d’Italia. Al terzo posto e a un certo distacco da Lettieri, i sondaggi danno Valeria Valente, candidata del PD che ha battuto Antonio Bassolino alle contestate primarie dello scorso marzo. Bassolino ha fatto ricorso contro l’esito delle primarie, sulla base di alcuni video che mostravano attivisti della lista Valente dare indicazioni agli elettori e pagare per loro l’euro necessario a votare. Bassolino ha minacciato di candidarsi con una sua lista alternativa, ma poi non l’ha fatto. Il Movimento 5 Stelle è in quarta posizione con il candidato Matteo Brambilla, 47 anni, nato a Monza ma residente a Napoli dal 2006. Le elezioni a Torino Il favorito è il sindaco uscente Piero Fassino, del PD e sostenuto anche da diversi ex esponenti di Forza Italia, ma è improbabile che vinca al primo turno. Fassino, 66 anni, è stato ministro della Giustizia e del Commercio con l’estero e attualmente è presidente dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI). A sinistra di Fassino, Sinistra Italiana e Possibile sostengono l’ex segretario nazionale della FIOM Giorgio Airaudo, 55 anni, eletto deputato nel 2013 con SEL; ma un pezzo di SEL si è staccato e ha fondato una lista che sostiene Fassino. Secondo alcuni sondaggi la principale rivale di Fassino sarà la candidata del Movimento 5 Stelle Chiara Appendino, 31 anni, laureata in economia all’università Bocconi ed eletta in consiglio comunale nel 2011; a un certo punto era data quasi alla pari con Fassino, mentre oggi è tornata indietro. Come a Roma e Napoli anche a Torino il centrodestra è diviso. Forza Italia e NCD appoggiano Osvaldo Napoli, 62 anni, deputato per tre legislature con Forza Italia e attuale sindaco di Valgioie, una cittadina di mille abitanti in provincia di Torino. Lega Nord e Fratelli d’Italia, sostengono Alberto Morano, un notaio di 58 anni. Nessuno dei due sembra avere speranze di diventare sindaco. Le elezioni a Bologna A Bologna il PD ricandida il sindaco uscente Virginio Merola, 61 anni, vincitore al primo turno delle elezioni 2011. Dopo una serie di dure polemiche e trattative, il centrodestra ha deciso di unirsi dietro alla candidata della Lega Nord Lucia Bergonzoni. Al terzo posto nei sondaggi per il momento c’è il candidato del Movimento 5 Stelle Max Bugani, eletto al consiglio comunale nel 2011 e noto attivista e commentatore sul blog di Grillo. La sua candidatura è stata decisa da Grillo senza le consuete consultazioni online. Altri candidati rilevanti, dati al momento sotto il dieci per cento, sono l’ex leghista e ora candidato indipendente Manes Bernardini e Federico Martelloni, 41 anni, professore associato in Diritto del Lavoro all’Università di Bologna, candidato della sinistra. Dovrebbe rivincere Merola, ma secondo i sondaggi al secondo turno. Le elezioni a Bolzano A Bolzano si è votato lo scorso 8 maggio e ha vinto al primo turno il candidato del PD Renzo Caramaschi con il 55,2 per cento dei voti. In tutto si erano presentati 13 candidati sindaco, in buona parte esponenti di liste civiche di centro o di centrodestra. Renzo Caramaschi ha 69 anni e è un ex dirigente del comune. Il sindaco uscente era Luigi Spagnolli, eletto per un terzo mandato nel 2015 ma dimessosi poco dopo per l’assenza di una maggioranza in consiglio comunale. Negli ultimi mesi la città era stata governata da un commissario straordinario. Le elezioni a Cagliari Il centrosinistra appoggia il candidato uscente Massimo Zedda, 40 anni, esponente di SEL che nel 2011 vinse le primarie del centrosinistra battendo il senatore Antonello Cabras, candidato del PD. Zedda è sostenuto da 11 liste comprese quelle di Sinistra Ecologia Libertà, del Partito Comunista D’Italia e del Partito Democratico (il sui segretario regionale Renato Soru si è da poco dimesso dopo la condanna a tre anni di carcere per evasione fiscale). A sostegno di Zedda ci sono anche le liste dell’Unione Popolare Cristiana (che nel suo programma politico cita la CEI) e del Partito sardo d’Azione che raccoglie molti esponenti provenienti dalla destra. Il centrodestra sostiene il senatore di Forza Italia Piergiorgio Massidda, 59 anni, candidato con una lista civica ed eletto in Parlamento nelle ultime cinque legislature. Il M5S candida Antonietta Martinez, consulente informatica e titolare di un negozio di computer, che ha vinto le primarie online del movimento con 150 voti. A differenza che in altre città, nelle ultime settimane non sono circolati su Cagliari dei sondaggi ufficiali in vista delle amministrative: sui giornali locali (che hanno probabilmente avuto accesso ai sondaggi interni commissionati dai partiti) si dice che Zedda non vincerà al primo turno e che andrà al ballottaggio contro Massidda. L’unico candidato che oltre a quelli di centrosinistra e centrodestra potrebbe arrivare intorno al 10 per cento è Martinez, del Movimento Cinque Stelle, che secondo alcuni potrebbe però ottenere delle percentuali superiori. Le elezioni a Latina La città è governata da un commissario straordinario dopo il voto di sfiducia contro l’ex sindaco di destra Di Giorgio. Il centrosinistra ha candidato Enrico Forte, consigliere regionale PD nel Lazio, che ha vinto le primarie di coalizione dello scorso novembre. La destra presenta diversi candidati. Tra i principali ci sono Nicola Calandrini, appoggiato dalla Lega Nord, Alessandro Calvi, sostenuto da Forza Italia, Gianni Chiarato, sostenuto dal movimento Fare del sindaco di Verona Flavio Tosi e Marco Savastano di Casa Pound. Il Movimento 5 Stelle ha deciso di non presentare ufficialmente un proprio candidato. I sondaggi dicono che si andrà al ballottaggio. Le elezioni a Novara Il PD candida l’attuale sindaco di Novara, Andrea Ballarè, 49 anni, eletto nel 2011. Anche qui il centrodestra ha discusso a lungo, ma alla fine non è riuscito a presentare un candidato unico. Forza Italia e alcune liste civiche sostengono Daniele Andretta, mentre la Lega Nord appoggia Alessandro Canelli, che però è appoggiato anche da alcuni dissidenti di Forza Italia. Il M5S candida Cristina Macarro. In città ci sono state alcune polemiche, scrive l’ANSA, perché Macarro è mamma di cinque figli, uno di pochi mesi, e quindi secondo alcuni non avrebbe il tempo di fare il sindaco. Le elezioni a Ravenna Il centrosinistra candida Michele de Pascale, 30 anni, assessore al Turismo dal 2011 e segretario provinciale del Partito Democratico. L’attuale sindaco, Fabrizio Matteucci, ha già ottenuto due mandati, nel 2006 e nel 2011, entrambi vinti al primo turno, e quindi non può candidarsi per un terzo mandato. Il centrodestra appoggia Massimiliano Alberghini, candidato sindaco di Lista per Ravenna, Lega Nord, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Raffaella Sutter, 61 anni, sociologa, ex dirigente comunale si presenta invece per “Ravenna in Comune” che riunisce diversi movimenti e partiti di sinistra come Possibile, SEL, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, Altra Europa Con Tsipras, PSI e Radicali. Il Movimento 5 Stelle non presenta un proprio candidato; Michela Guerra, 43 anni, avvocata, è iscritta al Movimento ma si è candidata con la lista civica “Cambierà”. A Ravenna non sono circolati sondaggi ufficiali in vista delle amministrative: sui giornali locali si dice che probabilmente nessuno dei candidati vincerà al primo turno e che si andrà al ballottaggio, cosa che in città non accade dal 1993. Le elezioni a Rimini Il centrosinistra candida Andrea Gnassi, 47 anni, sindaco uscente eletto nel 2011. Il centrodestra si è unito dietro l’avvocato Marzio Pecci, candidato a sindaco di Riccione nel 2004, considerato vicino alla Lega Nord. Il M5S ha avuto diversi problemi in città, con lo scontro tra due liste rivali, e alla fine il movimento ha deciso di non presentare alcun candidato. Le elezioni a Salerno Il centrosinistra in città governa da molti anni – l’attuale presidente della Campania, Vincenzo De Luca, è un influentissimo ex sindaco – e il favorito alle prossime elezioni è proprio il candidato del centrosinistra, attuale sindaco e architetto Vincenzo Napoli, facente funzione di sindaco da quando De Luca è stato eletto in regione. Napoli è il candidato unitario del centrosinistra e ha l’appoggio anche dell’UDC, del NCD e di Scelta Civica. Forza Italia, il Nuovo PSI e Rivoluzione Cristiana di Gianfranco Rotondi appoggiano Roberto Celano, esponente di una lista civica, dopo che il candidato di Forza Italia Gaetano Amatruda ha ritirato la sua candidatura. Fratelli d’Italia candida Antonio Iannone, ex presidente della provincia di Salerno e storico dirigente del partito. Iannone è appoggiato anche dal movimento Noi con Salvini, che è in pratica il nome della Lega nel centro e sud Italia. Il M5S non presenterà candidati in città. Le elezioni a Trieste Il centrosinistra candida il sindaco uscente Roberto Cosolini, appoggiato, oltre che da PD e SEL, dai Verdi, UDC e dal PSI. Nel 2011 la sinistra si era presentata compatta a sostegno di Cosolini ora invece parti della sinistra hanno invece propri candidati. Il centrodestra, invece, che alle amministrative precedenti aveva sostenuto quattro diversi candidati, ha trovato un accordo sul consigliere regionale del Friuli Venezia-Giulia eletto con NCD Roberto Dipiazza, che è già stato sindaco di Trieste per due mandati, dal 2001 al 2011: è appoggiato da alcuni liste civiche e da Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia. Il Movimento 5 Stelle ha candidato Paolo Menis, 39 anni, impiegato di una società di informatica, che lo scorso febbraio ha vinto con 108 voti le primarie online del movimento. Il più importante quotidiano locale, Il Piccolo, dice che quello del prossimo 5 giugno sarà un “triangolare”, che la sfida tra Cosolini e Dipiazza rischia di essere «disturbata» dal candidato del Movimento 5 Stelle che potrebbe arrivare anche al ballottaggio. Sempre il Piccolo dice che nei sondaggi i tre candidati sono attorno al 25 per cento. *** *** JACOPO IACOBONI, LA STAMPA 9/5  – «Siamo triplicati in cinque anni. Il virus dell’onestà si sta diffondendo lento, ma inesorabile. E gli effetti sono tangibili», ha scritto Grillo sul blog. Il fatto è che per ora questi effetti non sono confermati da un dato clamoroso, che ieri circolava tra molti attivisti del Movimento cinque stelle: alle prossime elezioni amministrative il M5S avrà liste solo in 251 comuni su 1368. Resteranno a guardare in 1117 comuni, tra cui città importanti come Caserta, Latina, Ravenna, Rimini e Salerno. Insomma, la seconda forza politica d’Italia è al momento in grado di coprire complessivamente appena il 18 per cento dei territori locali. Il problema qui non sono le liste escluse (come nel caso Fassina), ma proprio il fatto che il secondo partito d’Italia – per le dinamiche interne di certificazione da partito azienda che abbiamo tante volte descritto – non riesce a diventare ciò che diceva di essere, un movimento della base, dei meet up e dei territori. Resta, tutto al contrario, un grosso movimento fondato su voto d’opinione, un partito azienda al vertice, e tante liti nelle periferie. Jacopo Iacoboni, La Stampa 9/5/2016 *** JACOPO IACOBONI, LA STAMPA 26/5 –  L’avvertimento apparso sul blog di Beppe Grillo ieri suonava come l’ammissione di un problema serio: «Il Movimento 5 Stelle non appoggia altre liste oltre quelle certificate e non stipula alleanze con nessuno. Pertanto invitiamo gli elettori dei Comuni dove non è presente una lista certificata Movimento 5 Stelle a diffidare di qualsiasi indicazione di voto o di sostegno esterno a candidati di liste civiche o partiti, anche se proveniente da meetup locali». Insomma, se c’è un movimento-azienda ci sono anche le imitazioni: è la legge della politica proprietaria, e un effetto collaterale del conflitto d’interessi. Alle prossime elezioni il Movimento si presenta solo in 251 comuni su 1368: possibile che sia questa la capacità della seconda forza politica d’Italia? È chiaro che tanti militanti cinque stelle, alcuni anche storici, esistono anche laddove non c’è una lista ufficiale: ma esistono pure militanti che – vistasi negata la certificazione – si sono candidati lo stesso con un mare di liste civiche, e vanno in giro drenando il voto del M5S, sostenendo di essere dei cinque stelle, e magari avendo anche qualche ragione soggettiva per farlo. Immaginate una situazione del genere alle elezioni politiche: il Movimento ci rimetterebbe diversi punti. Prendete una città importante come Salerno, 150 mila abitanti, senza contare l’hinterland. Il direttorio e la Casaleggio hanno negato la certificazione a uno storico meet up locale, che aveva già scelto a grande maggioranza Oreste Agosto come candidato. Agosto è un avvocato, stimato in città, conosciuto per storiche battaglie politiche contro Vincenzo De Luca. Fu un suo esposto ad aprire la pratica della decadenza dell’allora sindaco; fu sempre lui a dar battaglia a De Luca sul Crescent, il discusso affare urbanistico della città. Bene: siccome Agosto non faceva parte della cordata M5S vincente (che a Salerno ha come proconsole locale Angelo Tofalo, uomo di stretta osservanza-Di Maio), «hanno creato – ci dice – una lista ad hoc contro di me, presentata peraltro dopo i termini regolari del 7 marzo, usandola per fare confusione e poi per negarmi la certificazione». Agosto ha scritto a Di Maio, «gli ho detto “in base a quali regole date o negate la certificazione? Non è affatto chiaro”». Ma si sente uomo del Movimento, e perciò non si è candidato contro. Invece un altro militante, Dante Santoro, uscito dal M5S, si è fatto una lista civica, e con una decina di altri ex grillini correrà alle elezioni. Santoro punta a entrare in consiglio comunale, e se prende voti grillini ce la fa anche. In pratica, il Movimento ha creato un meccanismo-monstre che può anche essere usato contro di lui. I casi possono essere tanti, ripensate al dato iniziale: il M5S che corre solo in 251 comuni su 1368. Prendiamo un’altra città: Rimini. È un caso interessante. Anche qui c’era un candidato, che aveva affrettato un po’ i tempi, ma aveva un’investitura di non pochi attivisti locali, l’avvocato Davide Grassi. Fu messo in discussione dall’ex moglie di Grillo, Sonia Toni. Morale: nessuna certificazione a Grassi e a nessuno; ma un ex grillino – Luigi Camporesi – s’è candidato lo stesso, facendosi due liste civiche, che tra l’altro sono alleate anche con i seguaci riminesi dell’ex leghista sindaco di Verona Flavio Tosi (oltre che con la lista di un altro ex grillino, Marco Fonti). A Rimini come leader locale c’era la deputata Giulia Sarti, una a cui hanno davvero fatto ogni torto, nel M5S, ma da quando è caduta in disgrazia domina un europarlamentare, Marco Affronte. Moltiplicate tutte queste storie ovunque non ci sia una lista M5S e avrete lo spaccato di un rischio tremendo, per la Casaleggio: che i voti M5S siano usati contro il M5S. Può succedere a Caserta, a Latina (terre dove oltretutto il voto ha componenti di inquinamento molto forti), a Ravenna. E chissà in quanti altri posti. Una nostra ottima fonte romana confida: «A Roma hanno creato un caso con espulsioni immotivate, e illegali, secondo il tribunale. Non ci sono casi di gente che si è candidata con liste civiche extra M5S, ma di gente che dice di non votarli più ce n’è eccome; anche influenti; e lo vedrete dal risultato dalla Raggi». Jacopo Iacoboni, La Stampa 26/5/2016 *** GALLIONE E MONTANARI, LA REPUBBLICA 25/5 – Campagna “low cost” per le amministrative di giugno. Con budget e spese ridotte rispetto a cinque anni fa. Scelte obbligate, spesso. Tra crisi economica e disaffezione dalla politica, praticamente ovunque le cifre stanziate dai candidati sindaco e dai partiti che li appoggiano sono in calo. E comunque lontani dalle spese milionarie delle tornate precedenti. In alcune città le previsioni di spesa sono dimezzate in confronto al 2011. Milano si riconferma capitale economica. Eppure, anche qui, si sta assistendo a un ridimensionamento. Un abisso, se si considera che l’ex sindaco Letizia Moratti investì solo per la sua riconferma (mancata) circa 7 milioni di euro, anzi 12 milioni sommando anche tutte le liste che allora la appoggiavano. Altri tempi, sicuramente faraonici. Questa volta, tra i due principali aspiranti a Palazzo Marino, Giuseppe Sala per il centrosinistra e Stefano Parisi per il centrodestra, sembra esserci un testa a testa anche sul fronte delle spese. Lo staff dell’ex Mr Expo – ieri anche il Consiglio di Stato ha giudicato inammissibile il ricorso del Movimento 5 Stelle sulla sua ineleggibilità – aveva previsto inizialmente un budget per l’intera campagna «inferiore al milione di euro». Una stima che, dicono dal quartier generale, è già stata ridotta del 20 per cento. Al massimo, quindi, si arriverà a 800mila euro: un traguardo da conquistare anche puntando su cene con potenziali grandi finanziatori (Sala è volato a Londra per un appuntamento organizzato dal finanziere Davide Serra, ne ha un altro sponsorizzato dal patron di Eataly Oscar Farinetti) e che rimarrà al di sotto degli 874mila euro di Giuliano Pisapia cinque anni fa. Un segnale: a oggi, a poco più di dieci giorni dal voto, le cifre investite si aggirano attorno ai 400mila euro. Si punta (molto) sui volontari che distribuiscono materiali porta a porta. O, come ha fatto una delle liste che lo appoggiano, si fa ricorso a colpi di inventiva: Sinistra x Milano ha messo all’asta i calzini rossi portafortuna indossati proprio da Pisapia durante la precedente campagna. L’acquirente, manco a dirlo, lo stesso Mr Expo per 550 euro. Sull’altro fronte, anche Parisi finora è sotto quota 500mila euro: 150mila in manifesti e affissioni, altri 100mila per eventi, altrettanti in merchandising e ulteriori 50mila in analisi e ricerche. Decisamente più “francescano” il candidato del Movimento 5Stelle Gianluca Corrado, che dichiara 25mila euro, e quello di Milano in Comune, lo storico volto della sinistra Basilio Rizzo, che non arriva ai 20mila euro. Passiamo a Torino. Tutti i candidati spenderanno complessivamente quasi due milioni di euro. Di questi, 810 mila euro sono da intestarsi al sindaco uscente Piero Fassino del Pd e alla coalizione che lo sostiene. La quota riservata al solo candidato sindaco è di 370mila euro. A Roma, il partito che investe di più è Fratelli d’Italia, con 360mila euro a sostegno di Giorgia Meloni. La lista che appoggia l’imprenditore Alfio Marchini conta di arrivare, tra manifesti e altro, a 220mila euro. Il Partito democratico a sostegno del vice presidente della Camera Roberto Giachetti ha messo a bilancio 202mila euro. Arriva a 150mila euro la spesa del comitato elettorale dello stesso candidato. Il Movimento 5Stelle per la campagna di Virginia Raggi finora ha previsto 160mila euro. I Radicali si fermano a 15 mila euro. A chiudere la classifica, c’è il Popolo della Famiglia che per Mario Adinolfi stanzia di 5mila euro. Anche a Bologna budget più magri rispetto al passato. Il totale si aggira sui 600mila euro: circa la metà della precedente tornata quando i candidati di allora, Cazzola e Delbono, dichiararono rispettivamente 1,2 milioni di euro e 400mila. Il budget più alto è del sindaco uscente Virginio Merola del Pd. Le liste della sua coalizione spendono complessivamente 225 mila euro, a lui sono dedicati 95mila euro che probabilmente saliranno a 110mila da qui al 5 giugno. «Meno della metà comunque rispetto al 2011», sottolineano i democratici di Bologna. Alessia Gallione e Andrea Montanari, la Repubblica 25/5/2016 *** SALVATORE MERLO 18/5 – E certi accenni di Giorgia Meloni al lepenismo che poco s’incastrano con il Campidoglio, certe sue pizzicate a Silvio Berlusconi, ma pure un certo fraseggio per così dire colorito di Luigi de Magistris nei confronti di Matteo Renzi (“ti devi cacare sotto”), come gli occhiolini podemisti di Stefano Fassina, o l’identicomachia di Milano, ovvero la battaglia degli uguali tra Beppe Sala e Stefano Parisi, ciascuno di questi dettagli di campagna elettorale nelle grandi città italiane rivela la strana natura di un voto che dovrebbe essere comunale ma in cui tutto viene vissuto e rigiocato con lo stesso manicheismo della politica nazionale, e con lo stesso cicaleccio. E insomma i candidati al comune di Roma, di Napoli, di Torino e di Milano si offrono ai massimi sistemi, alla risoluzione di nazionali assilli, a far barriera a destra, a far argine al centro, a dar lezioni a sinistra, ciascuno metafora di qualcos’altro: chi di un nuovo Nazareno, chi d’una destra più dura e grillina, chi d’un grillismo più duro e di destra, comunque nuovi orizzonti e diversi equilibri. Sui manifesti che inesorabilmente sporcano da alcune settimane i muri e i mezzi di trasporto pubblici delle città d’Italia, i candidati sindaco fanno lo sguardo pensoso, assassino, gravoso, meditativo, amicale, talvolta poco sveglio, spesso estremamente photoshoppato. E allora Gianni Lettieri promette a Napoli telecamere in ogni angolo della città, il raddoppio del numero degli autobus e l’addestramento di trecento super poliziotti, mentre De Magistris sventola una delibera sul reddito di cittadinanza, e Meloni, Marchini e Fassina, a Roma, quasi ripetono lo stesso slogan eletorale – “una scelta d’amore” (Meloni), “amo Roma” (Fassina), “il cuore” (Marchini) – con Roberto Giachetti che dice “Roma torni Roma”, Virginia Raggi che invita al “(Co)Raggi(o)”, e Chiara Appendino che invece a Torino dice che “si riparte”. Ed è certo la politica che si mostra, il duello che si annuncia, ai sindaci è richiesto di sagomare una qualche forma di rinnovamento municipale, di occuparsi di monnezza e di buche per le strade, di autobus stracolmi e di metropolitane incompiute. Eppure la campagna elettorale di queste amministrative non sembra si stia giocando troppo sulle zone a traffico limitato, e non è soltanto sulla sicurezza o la pedonalizzazione delle vie del centro storico che si accelera il metabolismo di elettori e candidati, i quali si animano soprattutto quando Meloni accusa Marchini (dunque Berlusconi) di voler favorire Renzi, o quando De Magistris, ignorando il suo avversario Lettieri, passeggia sul palco d’una pubblica iniziativa a Napoli, e impettito, camicia fuori dai pantaloni, urla: “Renzi, vai a casa. Devi avere paura. Ti devi cacare sotto!”. E c’è dunque latente, o strisciante, o persino palese, o addirittura orgogliosamente dichiarata un’identità che al di là degli interessi locali e cittadini si specchia invece nella politica nazionale, nei suoi orizzonti, nelle sue sempre più inafferrabili strategie e nei suoi incerti equilibri. Così tutti percepiscono, a cominciare dai protagonisti sul palcoscenico girevole delle elezioni, che votare Raggi a Roma significa anticipare il sapore che avrebbe Luigi Di Maio installato a Palazzo Chigi, e che invece Sala e Parisi a Milano sono i candidati che alludono alle carinerie nazarene, a una destra e a una sinistra che hanno sperimentato, e forse continueranno a sperimentare, qualcosa che va oltre la normale convivenza, quella cosa che il giornalismo, con la sua tendenza a nutrirsi di formule entro cui comprimere le proprie bieche semplificazioni, chiama patto del Nazareno, o altrimenti Partito della nazione. Ed è letteralmente un groviglio, un garbuglio, uno gnommero, un sauté, una sbrisolona politica, un pasticcio di senso che in qualche modo rivela forse la campagna elettorale più ideologica della recente storia italiana, ma paradossalmente nel tempo meno ideologico che ci sia mai stato. A ogni candidatura, in ogni città, si fa corrispondere infatti un diverso e non compatibile orizzonte nazionale, destinato a gonfiarsi o a perdere peso a seconda dell’esito di queste strane elezioni. E d’altra parte basta osservare gli attori, i candidati: ognuno ha i suoi modi, i suoi argomenti, le sue specialità, le sue parole magiche e segrete che travalicano l’antropologia e la logica cittadina per farsi qualcos’altro. E allora Fassina a Roma fa la sinistra sociale, tendenza Podemos, alternativa e restauratrice dei vecchi e forse irrottamabili equilibri nel Pd, quella che coltiva il gusto chissà un po’ autolesionista dei “pochi ma buoni”, mentre al contrario Giachetti, come Renzi, a Roma espone idee solidali e genericamente di sinistra, ma si presenta dicendo che “io cercherò di prendere anche i voti della destra”. Così a quanto pare si deve scegliere tra Renzi e la vendetta dei rottamati, o tra un grande centro e l’imperium di Casaleggio, o tra il lepenismo amatriciano di Meloni e una forma di destra più compos sui rappresentata da Marchini. Tutto un fecondo ma imprevedibile marasma che ridisegna confini, allude a ipotesi nazionali che sembravano superate o finora semplicemente adombrate, o comunque sempre possibili e incerte. E tutto si gioca sull’eccesso di senso, a destra come a sinistra, persino nella competizione interna agli schieramenti spappolati, anche dove non si corre per vincere ma per contarsi: non si vota Roma, ma la scalata di Salvini al berlusconismo declinante contrapposta all’alternativa alfabetizzata cui il Cavaliere si affida per resistere. Non si vota Napoli ma il partito del Nazareno che assedia il partito del sud, quello di De Magistris, con il suo alterno alleato Michele Emiliano, quel meridionalismo un po’ arruffato eppure di successo che è ancora un altro modo di stare a sinistra, lontano da Renzi ma pure lontano da Fassina. Le urne più pazze del mondo si aprono il 5 giugno, e forse mai s’erano viste tante Italie diverse concorrere in un elezione sola. E comunale. Salvatore Merlo, Il Foglio 18/5/2016 *** MONTESQUIEU, IL SOLE 24 ORE 27/5 – La legge che prevede l’elezione diretta dei sindaci dei comuni con oltre quindicimila abitanti ?fu approvata dalle Camere sull’onda di due referendum in materia elettorale, del 1991 e del 1993. I giovani di oggi ricordano poco o nulla, ignorano o quasi chi sia Mario Segni, che quell’ondata referendaria promosse con tenacia e testardaggine sarda, trasformando l’iniziale irrisione delle forze politiche in un’adesione tanto massiccia quanto calcolata ed autoconservativa. Il carro del vincitore si affollò come non mai di migranti e rifugiati politici di qualsiasi provenienza e mediocre prospettiva. Rimase a terra, orgoglioso del suo carattere controcorrente, il solo Bettino Craxi, tra i cui difetti non rientrò mai quello del muoversi per convenienza al seguito di altri. Assieme alla legge chiamata Mattarellum, ma ben più di questa,la legge sui sindaci iniettò nel pigro e comodo proporzionalismo del nostro ordinamento dosi massicce di spirito maggioritario, non disgiunte da un’evidente e non dissimulata tendenza presidenzialistica: che lì, al livello dei sindaci, si arrestarono, dopo avere influenzato l’elezione dei presidenti di regione. Non a caso da quel giorno chiamati pomposamente governatori, a pedissequa emulazione dei presidenzialissimi Stati Uniti. Che la ventata maggioritaria sia stata subita, anzichè promossa dalle forze politiche, lo rivelò la deriva partitocratica che, con una legge elettorale regressiva, portò la coalizione berlusconiana a confinare la sovranità degli elettori nell’adesione passiva ed umiliante ad un intangibile elenco di persone confezionato dalle segreterie dei partiti. Elenco da prendere o da lasciare per intero: con l’effetto della recisione chirurgica di qualsiasi legame diretto tra elettori ed eletti. Rappresentati e rappresentanti, da allora, non si conobbero più. Il legame diretto è rimasto, sulla carta integro, tra i cittadini ed il proprio sindaco, ed ha il significato di trasferire il potere sull’eletto e sulla sua sorte dal partito che lo ha candidato agli elettori che lo hanno votato. Con una deroga: la via per riprendere il controllo da parte del partito è prevista e disegnata, ma richiede la trasparenza di un dibattito pubblico e di una decisione in sede di consiglio comunale. Procedura ben diversa da quella adottata, per fare un esempio, dal partito democratico per sbarazzarsi dell’ultimo sindaco eletto,con una motivazione generica, indimostrata e soggettiva; ed attraverso atti singoli e privati dei propri docili consiglieri. Ancora più differente, quella procedura, dalle scomuniche con finale espulsivo in uso disinvolto, anche nei confronti di sindaci, eletti presso il movimento cinquestelle, ad opera di soggetti o organismi del tutto anonimi e giuridicamente clandestini. Nel più plateale disprezzo per le istituzioni. Eppure, se la legge sull’elezione diretta non piaceva, bastava che qualcuno proponesse di cambiarla, cercando una maggioranza che peraltro non si sarebbe mai configurata. Perché violare una legge, e tanto più una legge “popolare”, è più facile, silenzioso e meno compromettente che non dichiarare di volerla cambiare e agire di conseguenza. A meno di due settimane dal voto, non vi è alcuna garanzia che Raggi, Giachetti, Meloni e Marchini- i possibili sindaci della capitale, stando ai sondaggi -, una volta eletti siano al sicuro da atti di forza dei rispettivi partiti. Si preferisce far credere ai cittadini che, almeno nel caso dei sindaci, la politica concede loro quello che ha tolto nell’elezione di deputati e senatori: anziché mostrare che, di quel potere generosamente riconsegnato, la chiave deve rimanere ben stretta nelle mani dei partiti. Che oggi hanno l’occasione per assicurare che il sindaco eletto lo sia, per quel che li riguarda, per l’intera durata del mandato. A scanso di abusi. Così come i candidati hanno la simmetrica occasione per dichiarare sospesa, per l’identica durata, la loro dipendenza dai partiti di appartenenza. È troppo chiedere, agli uni ed agli altri, un gesto che ridia un minimo di credibilità ad una politica in debito di legittimità? Montesquieu *** STEFANO FOLLI, LA REPUBBLICA 25/5 –  Dopo aver difeso a caldo la sua collaboratrice, la ministra Maria Elena Boschi, rimasta impigliata nell’imprudente polemica sui partigiani, il premier Renzi ieri ne ha corretto le affermazioni. Per meglio dire, ha chiuso la polemica con un tono rispettoso verso i superstiti combattenti della Resistenza, sia quelli che voteranno Sì al referendum sia quelli che voteranno No. E non ha insistito sul tema anagrafico, ignorando la distinzione fra i “veri” partigiani e gli iscritti onorifici all’Anpi nati nel dopoguerra. Sembra che Renzi sia consapevole che l’oltranzismo polemico produca più danni che vantaggi. Nell’intervista a “Repubblica tv” ha misurato le parole e si è prodotto in un maggiore sforzo pedagogico, consapevole che d’ora in poi la riforma ha bisogno soprattutto di essere spiegata agli italiani. A oggi si è privilegiato l’attacco verbale come unico registro, quando invece il problema è come riempire i cinque mesi che mancano alla domenica del voto, si suppone a metà ottobre. È stata una scelta temeraria quella di cominciare la campagna con tanto anticipo e sarebbe un errore fatale ridurla al cannoneggiamento quotidiano degli avversari, comprese alcune figure simbolo della Repubblica come sono i vecchi partigiani. Non sono pochi i fautori del No convinti, magari per amor di paradosso, che Renzi e i renziani siano i loro imprevedibili alleati: troppo immersi nella campagna; troppo irruenti nel martellare i loro argomenti nella testa degli italiani; troppo nervosi di fronte alla prospettiva di una partita meno facile del previsto. Forse è questo che il presidente del Consiglio ha finalmente avvertito, magari consigliato da qualcuno abbastanza autorevole per farsi ascoltare da lui. Non a caso Giorgio Napolitano sta aiutando il fronte del Sì: senza aspettare gli ultimi trenta giorni, ma accettando la strana logica dei cinque mesi prima. Napolitano parla entrando nel merito della riforma e la colloca nella cornice del dibattito sul modello “monocamerale” che data dalla Costituente. Fra le righe, si chiede a Renzi di fare lo stesso, deponendo la clava e ottenendo che i suoi stretti collaboratori si adeguino. Aquesto punto può darsi che qualcosa cambierà, se non altro per la buona ragione che un lungo “stress” sarebbe insopportabile per tutti. Renzi non rinuncia a prendersela con i cosiddetti “poltronisti”, i difensori a suo dire del privilegio e quindi della conservazione, ma si tratta delle solite schermaglie elettorali. Il punto è un altro. Da un paio di giorni, Palazzo Chigi cerca di legare insieme qualche filo e di connettersi al passato attingendo nel patrimonio politico- culturale del centrosinistra, sia quello di ispirazione cattolica sia quello di derivazione comunista. In fondo è questo che ha reso insidiose le frasi della Boschi. Rappresentavano, certo in modo involontario, un’ulteriore frattura simbolica con la memoria storica del centrosinistra in un momento in cui il gruppo Renzi è accusato di aver troncato tutte le radici e di essere solo un’alleanza di potere che vive in un eterno presente. L’accusa è pericolosa perché il premier, l’uomo della rottamazione, fin qui aveva fatto poco per intestarsi una tradizione costituzionale. Ora corre ai ripari. Ed ecco i personaggi del dopoguerra presentati come fautori di una riforma più o meno analoga a quella che il governo Renzi ha fatto approvare. Anche in questo caso non mancano i rischi, perché si tratta di annettersi una serie di personalità scelte e citate come se fossero le figurine di un album. Nessuno può sapere che giudizio darebbero oggi della riforma Berlinguer, Ingrao, Fanfani, Dossetti, Nilde Iotti eccetera. Però, al di là delle forzature, è evidente il tentativo di ricostruire un passato per collocarvi la riforma. È uno sforzo che richiederà maggiore spessore e coerenza, ma il tempo di qui a ottobre non manca. Quanto a Piero Calamandrei, anch’egli citato da Renzi, è noto che favoriva un sistema presidenziale. Un sistema ricco di “pesi e contrappesi” per bilanciare il potere dell’esecutivo. Non tutti sono d’accordo che la riforma più l’Italicum garantisca tale equilibrio. *** GIOVANNA VITALE, LA REPUBBLICA 28/5 – Alla fine ha deciso che sì, pure sulla campagna per le amministrative, da cui per mesi s’era tenuto a debita distanza, era giusto metterci la faccia. E così, pressato dai “suoi” candidati, il premier Matteo Renzi ha deciso di scendere in campo per sostenere gli aspiranti sindaci del Pd. Con una scelta tuttavia in controtendenza rispetto al passato: le manifestazioni non si terranno in piazza, luogo simbolo delle kermesse elettorali del centrosinistra, bensì in uno spazio chiuso. Si parte lunedì da Torino, al teatro Alfieri insieme a Piero Fassino. Il giorno successivo toccherà a Milano, al centro sociale Barrio’s con Beppe Sala e Giuliano Pisapia. Anche se poi l’appuntamento clou è previsto a Roma mercoledì sera, allorché il capo del governo perorerà la causa di Roberto Giachetti all’Auditorium della Conciliazione. La partita più importante di tutte. Anche in chiave nazionale, qualora si dovesse verificare ciò che solo fino a qualche giorno fa pareva impensabile: la sconfitta della grillina Virginia Raggi al primo turno. Un blitz, maturato nelle ultime 24 ore, che ha fatto andare su tutte le furie gli avversari. In particolare l’avvocata pentastellata che vuole scalare il Campidoglio. La quale, per sovrappiù, ieri ha dovuto incassare la defezione di Beppe Grillo alla chiusura della sua campagna, il 3 giugno, in piazza del Popolo: ci saranno, a sorpresa, l’attore Claudio Santamaria e il Nobel Dario Fo, ma non il capo indiscusso del MoVimento. Impedito da non meglio precisate “ragioni personali”. Da qui il nervosismo della Raggi: «È scandaloso. Il premier non sta facendo il premier. Deve capire che ha un ruolo istituzionale e deve svolgerlo in modo imparziale perché l’ha giurato sulla Costituzione », ha subito tuonato. Suscitando il sarcasmo dem. «Pensasse quello che vuole, poi lo decideranno i romani se è scandaloso o meno», ha tagliato corto lo sfidante. «Unico scandalo è una candidata teleguidata da Milano», ha rincarato Ernesto Carbone: «Ieri diceva che Giachetti si teneva alla larga dal Pd, oggi vorrebbe impedire al segretario del Pd di fare campagna per un candidato del partito. Evidentemente da Milano suggeriscono male». Con Laura Coccia a twittare: «Ma invece è normale dimettersi se lo chiede Grillo?». Il fatto è che pure gli altri candidati non hanno gradito. «La presenza di Renzi è un segno di debolezza», scandisce Stefano Fassina di Si. «Uso vergognoso delle istituzioni», denuncia la leader di Fdi Giorgia Meloni, la quale invece concluderà la sua battaglia elettorale giovedì, tutta sola, nella periferia di Tor Bella Monaca. «È evidente che c’è il partito di palazzo Chigi che si identifica con il Pd ed è un tutt’uno», ha fatto eco il civico Alfio Marchini, pronto a chiudere venerdì a Ostia al fianco di Berlusconi. Polemica che fa il paio con il presunto appoggio di Verdini a Giachetti, tradito da una cena organizzata da alcuni esponenti di Ala per Francesco Romeo, in corsa nella sua civica. «Il Pd ha calato la maschera, governerà con Verdini», l’accusa della solita Raggi. «Macché, nessun accordo », smentisce il renziano. «Il professor Romeo è stato strumentalizzato » si difendono i coordinatori della lista. Che però ieri ha rischiato l’implosione: «Io, di Verdini non voglio neanche sentire l’odore », l’ira fredda della capolista Maria Fida Moro: «Se le cose stanno così, mi ritiro». *** ORIANA LISO, LA REPUBBLICA 28/5 – La sfida dei due manager, come dice chi non accetta né l’uno né l’altro. Ma soprattutto la sfida tra la destra a trazione leghista-lepenista in cerca di un riscatto e un centrosinistra in bilico tra l’arancione e il renzismo arrembante. E così Milano diventa il vero laboratorio politico italiano. Nove candidati, con un frastagliamento a sinistra che sta lì a testimoniare come neanche un nemico comune — mister Expo — riesca a mettere d’accordo ex comunisti, possibilisti, riformisti e radicali. E un candidato del centrodestra, scelto con abilità ad Arcore, che spera che il suo azionista di maggioranza, la Lega, non spaventi troppo la borghesia ambrosiana. Perché per ogni giorno che passa è sempre meno facile per Stefano Parisi, il manager che ha sgretolato le speranze del centrosinistra di una vittoria sul velluto, arginare le dichiarazioni di Matteo Salvini. Che vuole trasformare le amministrative in una battaglia all’ultimo sangue contro il referendum costituzionale, e per questo ha vincolato la presenza di Parisi sul palco della manifestazione di domani a una sua presa di posizione per il No. Che assicura che i “suoi” sindaci faranno gli obiettori sulle unioni civili. Che non vuole moschee a Milano e alza ogni giorno il tiro sull’emergenza profughi. Una manna, per Beppe Sala, che sfoggia le mostrine delle primarie dei 60mila e affonda: «Se Parisi diventasse sindaco sarebbe ostaggio di una maggioranza litigiosa che esploderebbe il giorno dopo». Una lettura che il centrosinistra rilancia compatto, anche perché lo scenario è ormai disegnato: Sala e Parisi al ballottaggio, con un terzo sfidante, l’astensionismo. Se la campagna elettorale è stata, finora, quasi “loffia” (copyright Anita Pirovano, coordinatrice di Sel che si candida con la lista di sinistra con Sala, voluta e benedetta da Giuliano Pisapia), potrebbero essere i leader nazionali a rianimarla in quest’ultimo miglio. Matteo Renzi — che di Sala ha sempre parlato bene, salvo dire, pochi giorni fa, che non sa se vincerà, «perché mica sono il mago Otelma» — arriverà martedì a Milano per una chiacchierata a tre, con Sala e Giuliano Pisapia, al Barrio’s di don Gino Rigoldi. Sala, in diretta sulla pagina Facebook di Repubblica, tenta l’allungo: «Spero sia un simbolico passaggio di testimone tra me e Pisapia». Parisi invece protesta — come la 5 Stelle Virginia Raggi a Roma — per il doppio ruolo di presidente del Consiglio e segretario Pd. «Renzi deve incontrare anche me», dice. Ma nella strategia di allargamento dell’ex commissario Expo c’è attenzione anche alla minoranza Pd: le foto con Pierluigi Bersani, Gianni Cuperlo che assicura che «a Milano c’è il centrosinistra che vorremmo». E insomma: se è ancora vero che soltanto Pisapia avrebbe potuto replicare se stesso, gli sforzi di Sala di presentarsi non come un compagno, ma come un borghese illuminato e progressista, hanno avuto qualche risultato. Le cadute ci sono state: qualche complimento di troppo a Nicolò Mardegan, candidato che mette assieme ex Dc e Casa Pound; militari e droni per la sicurezza, come da ricetta dello storico leone della destra milanese Riccardo De Corato; un’apertura al mondo ciellino che a sinistra non piace, ma porta voti. La borghesia ambrosiana, quella del fare, osserva e distribuisce lodi e critiche in egual misura: c’è chi si schiera apertamente e per tradizione, come Piero Bassetti. Ma tanti, nei salotti e a margine dei convegni, preferiscono mantenere il basso profilo: il profilo del civil servant si attaglia sia a Sala che a Parisi, la differenza la fanno le coalizioni. Così l’Assolombarda di Gianfelice Rocca e la Confcommercio di Carlo Sangalli: con entrambi i candidati hanno rapporti rodati nel tempo, scegliere apertamente non sarebbe lungimirante. Gli ultimi confronti si consumano in questi giorni: ieri quello organizzato dai sindacati, lunedì sera quello di Sky, tra Sala, Parisi e il grillino Gianluca Corrado. Ma poi ci saranno, il 3 giugno, due piazze da pesare: quella di Sala alla Darsena e quella di Parisi tra i nuovi grattacieli. Avrà con sé sul palco Salvini e Berlusconi: il quarantenne rampante e l’anziano leader che potrebbe voler dire ancora una volta, nella sua città, «il centrodestra c’est moi». Una lotta per la leadership che rischia di nuocere a Parisi: la sfida nel centrodestra è nazionale, come la partita contro Renzi di Salvini, che promette un avviso di sfratto al premier in caso di vittoria. Si deciderà al ballottaggio, quando peseranno le scelte della sinistra radicale di Basilio Rizzo e di quei 5 Stelle che, guidati da Gianluca Corrado, puntano al terzo posto. Nulla in confronto a Roma e Torino, ma abbastanza per far preoccupare chi sa che la pancia leghista e quella grillina a volte si nutrono degli stessi piatti. *** ALBERTO MINGARDI, LA STAMPA 28/5  – Il giornalista inglese Matt Ridley sostiene che cresciamo perché «le idee fanno sesso»: il motore del cambiamento risiede nel fatto che scoperte scientifiche, innovazioni produttive, idee di prodotto mi mescolano, costruendo novità l’una sull’altra. Se «le idee fanno sesso», «dove» lo «fanno»? La risposta è: sicuramente nelle città. La città è il centro degli scambi. Le istituzioni che tutt’ora consideriamo indispensabili a garantire lo sviluppo economico sono nate al suo interno: il riconoscimento dei diritti di proprietà, la tutela dei contratti, le mura che preservano l’integrità delle persone e dei loro beni. Oggi il 54% della popolazione mondiale vive nelle aree urbane: nel 2050 dovrebbero essere il 66%. Che succederà nelle nostre città? Riusciranno ad attrarre intelligenze e persone, saranno laboratori d’innovazione, o diventeranno cartoline dal passato, luoghi che vivono solo di memoria? Sapranno «crescere», anche per dimensioni e popolazione? Le città prosperano o decadono a seconda di quanto sanno dare ossigeno all’energia imprenditoriale. Le imprese di successo producono esternalità positive, creano opportunità, sono una calamita per altre attività. Ma se il nostro Paese oggi è una selva impenetrabile di regole, lo stesso si può dire dei suoi Comuni, che di delibera in delibera, di regolamento in regolamento, scoraggiano l’investimento privato: si tratti di un nuovo impianto produttivo o di rifare una veranda. Le decisioni politiche «sul territorio» in Italia sono tradizionalmente pensate in un’ottica di «distribuzione» della ricchezza, di garanzie e favori offerti a specifici gruppi. Vogliamo tornare a creare ricchezza? Allora anche i Comuni devono fare la loro parte: semplificando e rimuovendo i troppi vincoli all’attività economica. Se la crescita passa dalle città, allora passa anche dalle elezioni del prossimo 5 giugno. Per questo abbiamo cercato di leggere i programmi dei maggiori candidati alla ricerca non dei dati politici, di appartenenza, ma delle loro ricette per lo sviluppo.