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 2016  maggio 27 Venerdì calendario

SVEZIA SE CI SEI BATTI UN COLPO


STOCCOLMA. Thomas corse a rete sulla smorzata dell’avversario, aprì il dritto, appoggiò la palla nell’angolo alla sinistra del russo Safin, e poi alzò lo sguardo per vedere dove andava a morire il pallonetto. Oltre la riga. Aveva vinto. Non si inginocchiò, non lanciò la racchetta, non baciò il cemento di Melbourne. Strinse banalmente i pugni e sorrise. Un gesto normale. «Non ebbi la sensazione che fosse qualcosa di storico». Nel gennaio 2002 la Svezia stava vincendo il suo ultimo Slam e non lo sapeva. Nella terra che dagli anni 70 associamo al tennis, non ci sono più campioni. Spariti in 14 anni. Non manca solo chi sia capace di vincere al Roland Garros, manca un titolo in un qualunque altro torneo, mai una finale negli ultimi 5 anni, neppure una semifinale, né un giocatore fra i migliori 100 al mondo. Ce ne sono in tutto due fra i primi 400. Come un Brasile senza calciatori.
Thomas Johansson – quel Thomas – oggi ha 41 anni ed è il direttore del torneo di Stoccolma. Il suo nome è nello staff della PeakTennis Academy, a Östermalm, zona residenziale della città, appartamenti per diplomatici e banchieri, 75 mila corone al metro quadro, al cambio fanno ottomila euro. Qui offrono pacchetti di cinque giorni ad amatori che per 5.300 euro vogliono provare il brivido di allenarsi nelle stesse condizioni dei professionisti. Il passeggio di Valhallavägen è alle spalle del circolo: solo il Valhalla è rimasto al tennis svedese, la memoria dei suoi eroi e delle loro battaglie. Il futuro dov’è? «Quando vinsi in Australia» racconta Johansson, «alla Svezia mancava un titolo da dieci anni. Eppure il mio successo non parve un’anomalia, avevamo molti giocatori da vertice». Otto fra i primi cento ancora nel 2000 e cinque nel 2004, dopo il picco toccato fra 1988 e 1990: tre fra i primi sei e ben dodici nei cento, dietro Edberg numero uno.
Per provare a capire il vuoto d’oggi bisogna grattare sotto la fama di ieri. L’età dell’oro è stata raccontata in un bel libro da Mats Holm e Ulf Roosvald, Game Set Match, ricostruzione con interviste delle vite di Borg, Edberg e Wilander: arriva in Italia in questi giorni (add editore, pp. 384, euro 16). A loro Edberg racconta che «oggi ci vogliono molti soldi per riuscire ad affermarsi, a 14 o 15 anni significa spendere dalle 500 mila a un milione di corone all’anno». Roosvald spiega che «è esistita una buona generazione anche dopo Edberg, ma senza numeri uno lo spirito di emulazione s’è abbassato. Il tennis era per tutti, compravi una racchetta e giocavi: i coach erano ovunque, oggi devi pagarteli. Essere il numero 300 al mondo costa e molti campi sono stati regalati al calcio a cinque».
Fra i parchi e i laghetti di Bromma, nel quartiere di Alvik, i 17 campi su due piani della Salk-hallen sono un buon punto d’osservazione. Holm e Roosvald spiegano che la Salk fu costruita negli anni Trenta, in risposta al Royal Club del re Gustavo, che aveva trapiantato il tennis nel Paese dopo un viaggio in Inghilterra. Uno sport dell’élite fino al luglio ’62, quando la tv trasmise un doppio, Lundqvist-Schmidt da una parte, dall’altra i nostri Pietrangeli e Sirola. 9-7 al quinto. La Svezia impazzì. Lo Stato costruì palestre nelle scuole, muri da palleggio alle spalliere, nei piccoli circoli si poteva provare questa cosa nuova chiamata tennis. Finché il signor Rune Borg, un commesso di Södertälje, vinse una racchetta e la regalò a suo figlio Björn.
È alla Salk-hallen che bisogna passare, dove il giovane Borg veniva a prendere lezioni da Percy Rosberg, il suo primo maestro, oggi 83enne, ancora qui. Dice Rosberg: «A Borg ho insegnato a essere libero lasciandogli il rovescio a due mani. Gli allenatori di tutto il mondo chiedevano: dicci il tuo segreto. C’era un’organizzazione. La federazione radunava i talenti fra i 12 e i 18 anni a Båstad. Stavano insieme, si confrontavano. È stato stupido cambiare. Ognuno si è rinchiuso nel suo piccolo club ed è finito tutto». Rosberg indica i campi vuoti. «I ragazzi potrebbero venire qui a giocare. Se il campo non è prenotato da un adulto, per loro è gratis. Ma non gli interessa. Se ne stanno attaccati a quei così elettronici che slogano i pollici o vanno in palestra a farsi i muscoli. Il tennis era un pretesto per vedere il mondo. Forse oggi vivono benissimo con i genitori. Dopo una sconfitta vogliono tornare a casa, noi cercavamo un torneo da un’altra parte per la rivincita».
È cambiata la Svezia, nel frattempo. Nel periodo in cui Borg si manifestava, il partito socialdemocratico era per il 44esimo anno alla guida del Paese. Olof Palme aveva introdotto l’assegno di maternità, gli stipendi crescevano del 30 per cento, la Svezia scavalcava gli Usa nel reddito pro-capite. Insieme all’abolizione dei voti alle elementari, nelle scuole il tennis entrava come attività ufficiale. Il Paese convertiva gli spazi dell’hockey alla nuova moda, mentre in questo maggio mite che Stoccolma si gode, il campetto pubblico di Kastellholmen è deserto. Ne restano 4.500 nel Paese, 900 al coperto. I club sono 423, 109 mila i tesserati, ma gli agonisti 11.440. Negli ultimi vent’anni la Svezia non ha avuto un challenger, i tornei di seconda fascia in cui i giovani fanno esperienza e punti. Ne hanno rimesso in piedi uno, mesi fa, a Jönköping, tremila spettatori al giorno. Martin Claesson ne è l’organizzatore, la federazione lo ha cooptato in Consiglio: «Forse si pensava non fosse necessario supportare i nostri giocatori. Da soli non hanno fatto il salto. Avviare un torneo è costoso, ma almeno proviamo a ridare un’occasione ai giovani. Il segreto forse è tornare a divertirsi, essere meno seriosi».
In questi anni di nulla, tracce di vita apparente sono arrivate dal doppio, che grandi e grandissimi evitano, e dove il trentanovenne Robert Lindstedtha trovato qualche consolazione in coppia con compagni stranieri: tre finali a Wimbledon, un titolo in Australia. Del doppio è stato interprete sublime Jonas Björkman, nove Slam fra 1998 e 2006, ex numero 4 in singolare. Dice: «Quando nel ’98 abbiamo vinto l’ultima Davis, nessun sondaggio di fine anno inserì la nostra impresa fra le prime tre. Sembrava scontato. Anche per la federazione. Siamo stati bravi finché le vittorie non sono parse normalità. Paghiamo gli errori commessi all’epoca. Nelle grandi città sono diminuiti i circoli, i ragazzi possono scegliere fra più passatempi. I genitori sono diventati folli, riempiono le giornate dei figli, i bambini si annoiano meno, ma hanno pure meno tempo per pensare a cosa vogliono da se stessi». Dopo sette Coppe fra il 1975 e il 1998 la squadra di Davis giocherà a settembre gli spareggi per evitare la serie C, e come dice il suo ct Fredrik Rosengren «tutti mi chiedono quando torneremo grandi, combattiamo pure contro la nostra storia, non so quale battaglia sia più dura».
Trentasettemila persone all’anno entrano al museo dello sport di Stoccolma per vedere in una teca la Donnay di Borg del 1980, 1’anno del tie-break a Wimbledon con McEnroe. Ma il vero tempio dei ricordi è a Kristineberg, dentro la Tennishall che fu Lundqvist a volere. Un romantico blocco di legno in un quartiere che si imborghesisce con delle pretese. I residenti ne chiedono l’abbattimento. Dicono che rovina la vista sul Målaren. Sette campi da tennis, tutti al coperto. Come fossero teste d’alce, sulla parete di sinistra dormono le racchette appartenute a Borg, compresa quella con cui da bimbo tirava palle al muro. Gli scatti in bianco e nero di Jacob Fossell. La stampa del match del ’62 con gli italiani. Christer Lundberg, uno dei titolari, gioca con Borg tre ore a settimana. Tramezzini, caffè, una piccola bottega in cui si vende il nuovo pantaloncino della linea d’abbigliamento che porta il nome di Björn. Qui giocano tremila persone a settimana. «Ma solo veterani, i nati nell’epoca dei campioni. A Björn piace questo clima riservato. Passa, si ferma, scambia due parole. I pochi giovani che vengono, spesso scappano senza fare la doccia, ignorando che si diventa buoni giocatori un’ora prima e un’ora dopo l’allenamento, condividendo passione e sogni. Se la Svezia ne vuole di affamati, dovrà pescarli nella working class, fra gli immigrati, ma qualcuno dovrà finanziarli, perché ormai le Academy sono private, inseguono i soldi, e i soldi veri non sono più in Svezia».
La Good to Great Tennis nella zona di Mjölnarvägen è tra le più celebrate al mondo. Qui cresce una nuova generazione di bravi coach. Magnus Norman ha portato lo svizzero Wawrinka a due Slam. Tillström allena il francese Monfils. Sostiene Thomas Johansson che «la federazione dovrebbe avere un’accademia sua», invoca un nuovo welfare dello sport. «Il tennis era ovunque, non può tornare uno sport per benestanti. È sparito dalle scuole e dalla tv pubblica. Al torneo di Jönköping ho incrociato ragazzi che non avevano mai visto una racchetta. Non riusciamo a sfondare nei sobborghi. Io sognavo una foto con Wilander, oggi sognano Ibrahimovic». I figli degli immigrati giocano a calcio, come Ssewankambo, Konate e Tankovic, che hanno portato la nazionale giovanile al titolo di campione d’Europa. Le speranze del tennis sono sulle spalle di Elias Ymer, figlio di etiopi, 120esimo al mondo ma già ventenne, e su quelle dei fratelli minori Mikael e Rafael. Papà Wondwosen correva, la mamma è medico. Immigrati e borghesi. Ma una famiglia non è un movimento. Bjorkman sorride: «Sarà dura eppure torneremo». Rosberg dice che serviranno anni «non per avere uno fra i primi 10 ma due fra i primi 100». Sorride pure lui. Ma preoccupato. Il prossimo Borg chissà dov’è. Ovunque, non in Svezia.
Angelo Carotenuto