Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  maggio 27 Venerdì calendario

LA PRIVACY È MORTA


Molti anni fa ho incontrato un amico. Frank, così lo chiamerò, mi chiese se avevo ricevuto una mail che mi aveva mandato qualche giorno prima. Risposi che l’avevo vista ma non ancora aperta (in realtà l’avevo fatto ma non l’avevo guardata, motivo per cui gli avevo detto una piccola bugia innocente). Al che Frank brontolò qualcosa che mi fece pensare: «Guarda, lo so che l’hai letta. Mercoledì alle 16,36, nel computer ho un software che mi dice quando le mie mail vengono aperte».
In quel momento capii che il mondo digitale e l’umanità in generale avrebbero preso una strada strana e irreversibile. «Whoa», risposi, «mi stai spiando?».
«No», disse, «controllo solo quando i miei messaggi vengono letti».
Da quel momento in poi, la nostra vita è cambiata. La conversazione è avvenuta più o meno quindici anni fa: quindici anni fa il mio amico Frank è diventato una spia e, da allora, altri milioni – forse miliardi – di persone del tutto normali hanno fatto altrettanto.

Forse siete d’accordo con lui, in fondo non mi stava spiando. Ma pensateci un attimo: ha utilizzato un software in grado di verificare quando e se io avessi aperto la sua mail. Quindi stava osservando il mio comportamento. A mia insaputa e senza consenso, ovviamente. Questo si chiama spiare.
Frank non è sempre stato una spia, certo. L’avevo conosciuto dieci anni prima che lo diventasse e sono certo che, fino ad allora, non m’avesse mai spiato. Prima di internet e delle mail, se davvero avesse voluto sapere quando avevo aperto una sua corrispondenza avrebbe dovuto compiere una serie di operazioni molto più elaborate. Facciamo finta che sia successo, che mi abbia scritto una lettera e voglia sapere se l’ho ricevuta. Dovrebbe attendere almeno dieci giorni, venire a casa mia, nascondersi dietro a un cespuglio, aspettare che esca a ritirare la posta dalla cassetta e sperare che apra la busta proprio lì, dove mi può vedere. Solo in questo caso Frank avrebbe la soddisfazione di sapere esattamente quando l’ho letta. Ma non l’avrebbe fatto. Questo tipo di comportamento – cioè nascondersi fra i cespugli dietro la casa di un amico per aspettare che esca e apra una lettera – sarebbe quanto meno strano. Decisamente fuori dalla norma. Ossessivo, invadente, assurdo e totalmente irrispettoso della privacy altrui.
Poi sono arrivate le mail e, con loro, questo strumento che permette a Frank di scoprire il momento esatto in cui le sue comunicazioni vengono lette. Lo ha attivato sul computer, lo usa ogni volta che riceve un messaggio e, improvvisamente, un comportamento che mai sarebbe accettabile nella vita reale lo diventa nel mondo digitale, grazie a dispositivi facili da utilizzare e sempre a portata di mano. Così una persona del tutto normale si trasforma in spia.
Come ho detto, l’episodio è avvenuto circa quindici anni fa. Da quel giorno ho cominciato a prendere appunti per un romanzo in cui raccontare i meccanismi e fare satira sul futuro del mondo digitale. Ogni volta che mi è capitato di osservare un attacco alle nostre consolidate nozioni di privacy, di proprietà privata ma anche di decenza, ho preso nota. Questi appunti sono diventati Il cerchio.

Quando è stato pubblicato sono andato in diversi college, in varie università e ho parlato con gli studenti per sapere qualcosa di più delle loro vite digitali. Durante la prima di queste visite ho scoperto un “dettaglio” piuttosto sconcertante: molti, almeno la metà, mi hanno raccontato di essere costantemente sorvegliati dai genitori. I quali, grazie agli smartphone, sono in grado di seguire i loro spostamenti e ciò che fanno ora per ora di ogni singola giornata. Magari l’ateneo è in Virginia ma dovunque essi siano, in California per esempio, sanno sempre in quale posizione si trovino i figli. Se per caso questi si allontanano, ricevono un messaggio: perché non sei al campus? Se tornano tardi o saltano una lezione, padri e madri lo sanno.
Senza dubbio, questi genitori sono persone normali e sane di mente. Ma, altrettanto senza dubbio, prima dell’era degli smartphone e dei vari strumenti di localizzazione non avrebbero mai potuto sorvegliare così i figli. Per riuscirci avrebbero dovuto raggiungere il college, indossare un impermeabile e seguire furtivamente i ragazzi, nascondersi dietro agli alberi e alle porte, sbirciare dalle finestre, accertarsi che fossero in classe quando dovevano esserci o che dormissero nei loro letti, non altrove. Ma questo sarebbe stato considerato un comportamento del tutto anomalo, ben al di là dei limiti delle convenzioni sociali.
Oggi invece, visto che questi strumenti di sorveglianza sono alla portata di tutti e non costano nulla, quei genitori sono diventati delle spie. Tengono sotto controllo la prole ormai adulta, anche se si trova a migliaia di miglia di distanza. Come Frank, hanno deciso che il loro diritto di sapere è più importante del diritto alla privacy dei figli.

Ho recentemente espresso queste preoccupazioni a un’amica sposata, che chiamerò Sophie. Lei è, nel complesso, una delle ragazze più normali del mondo: la conosco da quando avevamo dodici anni ed è sempre stata sensibile, equilibrata, dotata di solidi valori morali. Le ho raccontato queste storie di sorveglianza quotidiana e m’ha risposto: «Allora anche io sono una spia! Controllo mio marito ogni giorno...».
Lo smartphone del consorte è collegato al suo, com’è ovvio, e ogni pomeriggio appena lui lascia il lavoro lo controlla per capire quando arriverà a casa. Sa quando esce dall’ufficio, quando entra in macchina e, grazie a una app che fornisce informazioni aggiornate sul traffico, riesce persino a prevedere quando dev’essere pronta la cena, con circa un minuto di approssimazione.
Prima Sophie avrebbe semplicemente chiamato suo marito e gli avrebbe chiesto: quando sarai a casa? Se avesse sospettato di lui, avrebbe assoldato un detective privato e l’avrebbe fatto pedinare. Ma sarebbe stato costoso, avrebbe significato la perdita definitiva della fiducia del coniuge e, di conseguenza, la fine del matrimonio. Oggi invece Sophie può sorvegliarlo e fare tutto quello che farebbe un detective privato restando a casa. Gli strumenti che lo consentono sono ormai così economici e facili da usare che non ha neanche più bisogno di fidarsi di lui o di chiamarlo. Lo controlla e basta.
Ho fatto tre esempi di sorveglianza quotidiana, che certo non vi sconvolgeranno più di tanto, come del resto non hanno turbato nessuno, negli Stati Uniti, quando mi è capitato di raccontarli. Ma al contrario sono convinto che queste vicende, all’apparenza così innocue, rappresentino l’inizio di qualcosa di molto più grave, che potrebbe diventare una vera e propria divergenza evolutiva della nostra specie: siamo così abituati a essere osservati e controllati, da non considerare più alcun tipo di sorveglianza come un’inaccettabile violazione della privacy.
Questo è il motivo per cui, quando qualche anno fa è stato scoperto il livello assolutamente inquietante di controllo a cui sono sottoposti i cittadini americani da parte della Nsa, la National Security Agency, non ci sono state rivolte per le strade. Qualche protesta, sì, richieste di cambiamento, qualche episodio isolato di indignazione ma niente di esagerato.
Perché? Perché permettiamo alle macchine di Google di leggerci le mail, ai siti web di inserire cookies nei nostri server e, più interessante, perché lasciamo che gli amici e le persone che amiamo ci spiino? Forse per questo lo sdegno nei confronti della sorveglianza da parte del governo è piuttosto tiepido. Ammesso e non concesso che addirittura esista.
Sono convinto che questa mancanza di indignazione – persino di qualsiasi interesse – sia dovuta alla convinzione della maggior parte di noi che il diritto a sapere sia più importante di quello alla privacy. Crediamo di avere il diritto di essere informati quando le nostre lettere vengono aperte come di sapere dove si trovano i nostri mariti, le mogli e i figli in ogni momento della giornata. Lo accettiamo come se fosse un privilegio basilare il diritto di sapere tutto quello che vogliamo sapere su chiunque e in qualunque momento e istintivamente accettiamo che Washington faccia lo stesso.
Se siamo noi, per primi, a spiare gli amici più cari e i nostri parenti, come possiamo disapprovare il governo quando ci spia?




Dave Eggers è uno scrittore, editore e curatore letterario nato a Boston nel 1970. Secondo di quattro fratelli, è rimasto orfano di ambedue i genitori nel 1991 e 92: questo evento, che ha sconvolto la sua vita, è narrato nel primo libro L’Opera struggente di un formidabile genio, finalista al premio Pulitzer, del 2000. Il secondo, un romanzo del 2002, è intitolato Conoscerete la nostra velocità.
Dopo aver scritto la sceneggiatura del film Nel Paese delle creature selvagge di Spike Jonze, ha fondato il giornale McSweeney’s, il progetto letterario 826 Valencia. l’organizzazione umanitaria non profit Voice of Witness e il progetto di sostegno scolastico Scholar Match. Tra i suoi ultimi grandi successi c’è il romanzo futuristico Il cerchio, pubblicato negli Usa nel 2013 e in Italia un anno dopo.