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 2016  maggio 27 Venerdì calendario

SEGRETI E POESIA DI UN GENIO AL CREPUSCOLO

Marco Cicala

GINEVRA. Siccome il cimitero di Plainpalais non è grande e siamo pur sempre in Svizzera, trovare l’ultimo domicilio terreno di Borges è operazione semplicissima. Come in certi residence ben organizzati, all’entrata c’è l’elenco alfabetico degli inquilini e le coordinate per localizzarli sulla mappa. Bonnet, Bonnetton, Borel... Borges: settore D6, tomba 262. In omaggio alla sua passione per le saghe nordiche, il sepolcro è in stile celtico, un filo pompier. L’iscrizione And ne forthdon na significa Giammai con timore in paleo-inglese. Chissà se lui voleva che la lapide fosse proprio così. Una volta disse: «Metteteci su giusto le due date e poi dimenticatemi». Ma le estreme volontà di Borges furono un bel po’. E tutte in colluttazione tra loro.
Trent’anni fa venne a morirsene a Ginevra per motivi sui quali biografi e fan ancora si scervellano. Di certo amava la città di antico amore. Da adolescente ci aveva vissuto con famiglia. Era il 1914, suo padre andava perdendo la vista e in terra elvetica sperava di trovare un luminare in grado di impedirlo. Ma non ci fu niente da fare. Oltretutto la sindrome era ereditaria e qualche decennio più tardi avrebbe condannato al black out anche il figlio. Comunque in Europa scoppia la Grande guerra, i Borges vorrebbero riguadagnare Buenos Aires ma resteranno bloccati a Ginevra per tutta la durata del macello. Notoriamente la Svizzera è neutrale, cioè non si schiera con nessuno però fa affari con tutti. Non deroga tuttavia alla vocazione filantropica: accoglie rifugiati d’ogni dove e quell’intarsio cosmopolita di storie, memorie, idiomi suona dolce all’orecchio del giovane Borges che oltre allo spagnolo parla già anche l’inglese. Ha 15 anni. Con genitori, nonna e sorella abitano al 17 di Rue Malagnou, che adesso è il 7 di Rue Ferdinand-Hodler. Lui lo ricorderà come un edificio di foggia haussmanniana, «solido, decoroso, un po’ noioso». È rimasto esattamente così.
L’antico Collège Jean Calvin conserva invece un aspetto a metà tra maniero e convento. Ci si arriva passando davanti alla chiesa russa con le cupole dorate a meringa. Rispetto a quando Borges ci studiava francese, tedesco o latino, il liceo si è democratizzato: «meno elitario, ma sempre ambitissimo» mi spiegano. Tappa seguente, Place du Bourg-de-Four. È l’epicentro dello struscio ginevrino. Bar, gelaterie, boutique. A inizio Novecento l’offerta commerciale includeva pure qualche lupanare. A quanto pare, papà Borges – un avvocato che insegnava psicologia ma forse non ne era stupendamente dotato – portò qui il figlio per iniziarlo al sesso con una maîtresse di sua conoscenza. Come spesso le cose imposte, l’approccio andò maluccio. E chi crede a roba del genere situa in quel flop l’origine dei geroglifici rapporti di Borges con le donne.
Ma, smacchi virili a parte, JLB votò a Ginevra un’eterna devozione sentimentale. Dopotutto era la città dove aveva deciso di diventare scrittore. Anche quando non riusciva più a vederla se non nel ricordo, cercava sempre un pretesto per tornarci. «En Ginebra me siento misteriosamente feliz» assicurava per lettera all’agenzia stampa Efe il 6 maggio 1986, ossia un mese prima di morire. Con quello strano comunicato – una cartella dattiloscritta firmata con calligrafia illeggibile – Borges voleva mettere fine «all’assedio dei giornalisti», «alle telefonate e alle domande» di quanti si interrogavano sul suo stato di salute e sul suo prolungato soggiorno in Svizzera. Gli enigmi erano cominciati sei mesi prima.
Il 28 novembre dell’85 Jorge Luis Borges vola improvvisamente via da Buenos Aires, la città-universo dove è nato 86 anni prima. Nessuno lo sa ancora, ma non ci tornerà mai più. Con lui c’è Maria Kodama, la «buena amiga» che nel giro di poco diverrà la sua seconda moglie. Fanno tappa in Italia, per un giro di conferenze a Milano e dintorni. Borges parla di poesia senza stancarsi. «Rimase oltre il previsto. Non aveva l’aria sofferente» racconta al Venerdì l’avventuroso psicanalista Armando Verdiglione, che in veste di editore aveva organizzato quegli incontri e presto si sarebbe ritrovato al centro di lunghe saghe giudiziarie. «Da Ginevra Borges mi disse che era pronto a tornare in Italia per testimoniare al processo». Aveva manifestato una qualche intenzione di stabilirsi in Svizzera? «Che io ricordi no. Mi parlò di un ritorno a Buenos Aires previsto in gennaio, ma evidentemente cambiò idea».
A Ginevra Borges e Kodama alloggiano dapprima all’Hotel l’Arbalète. Oggi trasformato in gioielleria, era l’albergo preferito dallo scrittore durante i soggiorni sul Lago Lemano. In seguito la coppia si trasferisce in un appartamento affittato al civico 28 della Grande Rue, nel cuore della città vecchia. In quelle stanze Borges muore il 14 giugno dell’86 per un tumore al fegato già diagnosticato in Argentina. Secondo le parole del dottor Jean-François Balavoine, il medico che lo assiste, si spegne «con serenità e dignità». Una morte olimpica, da saggio antico, dopo mesi che tutto erano stati fuorché olimpici.
«Mesi nei quali Borges cambia testamento, Paese, medici, avvocati e stato civile» riassume Juan Gasparini. È un giornalista argentino residente a Ginevra da oltre trent’anni. Ai «misteri crepuscolari» di Jorge Luis Borges ha dedicato nel 2000 un libro-inchiesta, Borges: la posesión póstuma, per il quale María Kodama gli ha intentato un processo in Argentina. Accompagnate addirittura da un mandato di cattura internazionale, le accuse erano di calunnia e ingiurie. Per Gasparini si richiedevano una pena detentiva più risarcimenti. Ma nel 2004 i giudici di Buenos Aires lo hanno assolto. E nello stesso modo sono finiti appelli e ricorsi. Ciononostante, l’eredità Borges rimane terreno pericolosissimo. Forse è il lascito più litigioso nella storia letteraria del Novecento. Una piedigrotta di battaglie legali, recriminazioni, gelosie, rancori, querele sempre in agguato. Juan Gasparini – un ex montonero riparato in Svizzera nei primi anni Ottanta – si è addentrato nella palude muovendosi tra Ginevra e Buenos Aires, Parigi e Barcellona. Ha interrogato parenti, amici, avvocati, medici, infermiere, biografi. Pur non essendo benevolo nei confronti di Kodama – che per via delle ascendenze giapponesi è definita nelle prime pagine «la Yoko Ono» di Borges – il suo libro è sfaccettato quanto il complicato personaggio che ne è protagonista. Borges era già una personalità indecifrabile da giovane (per dire: a metà degli anni 20 spacciava di essere nato nel 1900 invece che nel 1899), figuriamoci nella fase solitaria y final. Quanto al versante giudiziario, c’è poco da dire: Maria Kodama-Schweizer, nata a Buenos Aires nel ’37, è stata designata e riconosciuta unica erede universale. Punto. Tutto il resto è congettura. María Kodama
Ma allora da dove nasce la leggenda nera di un genio al tramonto perso appresso a una pimpante compagna, poi dipinta come una moglie avida e scaltra? Nasce da un testamento discusso, da un matrimonio discusso e da una sepoltura discussa. Tutto discusso. Secondo quanto ricostruito da Gasparini documenti alla mano, nell’85, poco prima di abbandonare l’Argentina, JLB cambia a favore di Kodama – che non ha ancora sposato – un precedente testamento redatto nel 1979. A rimetterci è, tra gli altri, Epifania Uveda de Robledo, la fedele domestica che è rimasta accanto allo scrittore cieco per quasi quarant’anni. A Fani, come viene chiamata in casa, era stata promessa la metà dei soldi che JLB avrebbe lasciato in contanti o depositati in banca. Ma dopo la riscrittura il gruzzolo si riduce a un pugno di australes – la valuta argentina di allora. Non solo. Accusata di essersi presa eccessive libertà con gli averi di JLB, Fani viene cacciata dall’abitazione bonaerense di Borges con ingiunzione piovuta da Ginevra. A corto di risorse, la servante au grand coeur si ritrova per strada. «E pensare che con Borges aveva condiviso tutto» sottolinea Gasparini. «Lui le faceva nascondere nei libri le banconote prelevate in banca. E quando ne aveva bisogno, le ricordava: Les fleurs du mal, circa a tre quarti».
26 aprile 1986: è la data con cui viene registrato il matrimonio tra Jorge Luis Borges e Maria Kodama. I due si trovano a Ginevra; il comune che ne certifica l’unione a più di 10 mila chilometri da lì, in uno sperduto borgo paraguayano dal nome molto borgesiano: Colonia Teniente Coronel Adolfo Rojas Silva. Se smanetti su internet fatichi a trovarlo. Poi salta fuori che è un posto frontaliere di 400 abitanti. Gli argentini ci si andavano a sposare quando da loro il divorzio era ammesso, ma un secondo matrimonio no. Per procura, Kodama e Borges – separato nel ’71 dalla prima moglie Elsa Astete Millán – andarono a sommarsi a quella corrente clandestina. A Ginevra, nell’86, gli uffici diplomatici del Paraguay si trovavano proprio di fronte all’hotel l’Arbalète. E il console era tale Gustavo Gramont Berres, al secolo Benjamin Levy Avzarradel, tipo oscuro, ammanicato col dittatore Stroessner e finito in aggrovigliati scandali di frode. Su di lui, online, c’è molto.
Se il nuovo testamento sorrideva a Kodama, col matrimonio – che è giudicato regolare – la sua posizione si blinda. E i parenti di JLB cominciano a preoccuparsi. Guerra di telegrammi dopo le nozze di Borges, titolava lo spagnolo El País il 16 maggio ’86, raccogliendo lo sdegno di Norah, la sorella dello scrittore: «La famiglia accetta questi malefici. È qualcosa di diabolico del quale non vogliamo sapere nulla». Nello stesso articolo, l’avvocato dei coniugi, Osvaldo Vidaurre, precisava che «Borges non va considerato un uomo dal gran patrimonio». E che non ci sono in gioco «questioni di interesse, ma un riconoscimento morale dello scrittore alla sua amica e compagna inseparabile». È d’accordo Franco Maria Ricci, che di Borges fu in Italia l’editore e tra gli amici più stretti: «Durante il periodo ginevrino andai a trovarlo spesso. Era provato, ma diceva che non riusciva più a immaginarsi senza Maria. Viveva per lei». Ricorda Juan Gasparini: «La giustizia ha stabilito che non ci fu plagio, manipolazione. E anch’io lo credo. Quelle dell’ultimo Borges furono decisioni deliberate, una scelta di vita». Nel libro scrive: «Ammesso che fosse prigioniero, non invocava la liberazione». D’altronde gli avevano sempre attribuito un debole per le dominatrici. Ma voleva davvero appartarsi in Svizzera ed essere sepolto li? Se sì, perché aveva disposto la risistemazione della tomba di famiglia nel glorioso cimitero bonaerense della Recoleta? E perché nell’84 Borges compra nella città natale un appartamento facendolo attrezzare con campanelli in ogni stanza come se volesse abitarci? E, se mai è esistito, che fine ha fatto il documento in cui esprimeva il desiderio di essere cremato? Alla fine gli fecero un funerale religioso, mezzo cattolico e mezzo protestante. Giudicando – in assenza di disposizioni esplicite – che avrebbe preferito quel rito a un’anemica cerimonia laica. «La chiesa argentina disse che in punto di morte si era convertito. Ma dopo aver ascoltato i testimoni, mi sento di escluderlo» dice Gasparini.
Sul finire che faceva, chi vedeva? «Pochissima gente. L’emissario di Gallimard che preparava l’edizione nella Pléiade. Lo scrittore franco-argentino Héctor Bianciotti. Un giorno andò a trovarlo Marguerite Yourcenar». Tra i ricoveri, si faceva leggere Novalis. Disse che voleva imparare l’arabo. «E di notte sognava scene vichinghe, cariche della cavalleria islandese. Me lo raccontò una delle infermiere».
Quando si parla dei generi nei quali Borges fu maestro si citano sempre il racconto, la poesia, il saggio letterario. Ma se ne dimentica uno: le interviste. Affabulatore vertiginoso, JLB sosteneva di detestarle, però ne concesse a bizzeffe («Solo in Argentina oltre 700»). E non ce n’è una dalla quale non spunti almeno una frase memorabile. Nel 1984, lo stesso Gasparini riuscì a farlo sbottonare per più di un’ora davanti a un registratore nell’albergo ginevrino. Per quanto improvvisata («Un amico, fotografo uruguayano, mi avvisò che Borges era in città e mi precipitai») è una conversazione magnifica. La trovate negli archivi del País. JLB parla dell’amore per la Svizzera: «Qui la politica è efficace e praticamente segreta. Il governo quasi impercettibile». Si definisce goethianamente Weltbürger, cittadino del mondo: «Cerco di avere una patria in molte parti della Terra». Liquida l’epoca dell’odiato Perón: «Spaventosa». E si descrive come un «anarchico inoffensivo». Ma molti ancora gli rimproverano un pranzo col dittatore Videla, un encomio di Francisco Franco o le decorazioni ricevute da Pinochet («Dei soldi non gliene importava niente, ma agli onori era estremamente sensibile» rammenta Franco Maria Ricci). Vanità e ammiccamenti politici che, seppur variamente ritrattati, gli preclusero il Nobel. Sul tema della morte, da vecchio lo sollecitavano spesso. A Gasparini disse: «Per me la morte è una speranza. Non ci penso con timore. Però forse quando arriverà sarò abbastanza codardo. Come tutti». Non lo fu, garantisce Gasparini. Giunto alla fine, «nessun panico lo fece saltare dalla cerchia degli stoici a quella dei cattolici o dei protestanti».
Confessava: «Spero di morire interamente, corpo e anima, e di essere dimenticato». Quel desiderio non sarà esaudito. A Ginevra – con concessione di 99 anni – JLB riposa accanto alle tombe del riformatore Giovanni Calvino, del pedagogista Jean Piaget. E di una signora poco nota da noi, ma celebre da queste parti. Si chiamava Grisélidis Réal. Sulla lapide c’è scritto: Scrittrice. Artista. Prostituta.
Perché, come sapeva Borges, la Svizzera può essere un posto sorprendente. Anche se, certo, mai quanto lui.

Marco Cicala