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 2016  maggio 27 Venerdì calendario

METAMORFOSI DI MARIA ELENA

C’è chi dice è una strega / tanto lei se ne frega. / Ai giudizi degli altri / non fa neanche una piega...

Doveva essere una regina da favola e invece sta immalinconendo in una canzone di Vasco Rossi. Cos’è successo a Maria Elena Boschi, la giovanissima (35 anni) ministra uscita dal presepe vivente di Laterina (Madonnina azzurrovestita per 3.500 cristiani in provincia di Arezzo), germogliata come catechista figlia di probi genitori e presto fiorita come Biancaneve in mezzo ai nani di una provincia troppo stretta e quattrinara per una come lei, una che la fiaba della vita l’ha pretesa e ottenuta a Roma, accanto al premier Matteo Renzi? Bella e di gentile aspetto, dicevano, mostratasi non senza acume e forza di volontà dietro quella sua voce flautata da ingenua per studio e non certo per caso, e così l’avenao incoronata tre anni fa quando la Vergine s’era fatta tutta carne e ambizione per scalare fatalmente il ministero delle Riforme. Incoronata, adulata e fotoshoppata con dovizia botticelliana nello strapaese della servitù volontaria e compiacente che d’improvviso si proclamava sedotta dalle sue fattezze rinascimentali, al punto da trovare in lei la «narrazione» giusta: Biancaneve, appunto, morbidamente adagiata nel racconto di una secchiona che ce l’ha fatta senza troppo spettinarsi, senza mai sputtanarsi, alata promessa di più alti destini.

Alza sempre la voce, / sa sempre tutto lei. / E anche quando c’ha torto / non lo ammette mai.

Ma nell’Italia degli #adesso, nella penisoletta che #cambiaverso sennò arrivano i gufi a comandare, è sempre #lavoltabuona epperò bisogna acciuffarla subito, manco fosse una mela stregata. Ed ecco che il passaggio da Biancaneve alla Strega cattiva si fa brevissimo e dirupato. Nemmeno il tempo di uscire dalla radura incantata per farsi battezzare «Giaguara della Leopolda», e già s’indovinava il prologo in cielo della metamorfosi ultima in matrigna di se stessa: Grimilde, la nera regina assediata dalla vanità, mortificata da uno specchio neghittoso che d’improvviso le nega il privilegio d’essere la più e bella e buona del Reame. Perché di punto in bianco questo specchio s’è fatto fondo d’un pozzo fangoso, e la melma cresce a forza di gettarci dentro altro fiele.
Colpa di Banca Etruria, dicono. Quello il punto di non ritorno: dacché suo padre è finito nella gogna degli accusati per i noti pasticci che hanno affossato l’istituto a trazione familistica, dacché lei, perfino lei, è stata maculata dal sospetto d’averne favorito il salvataggio a spese d’incauti investitori, Maria Elena non è stata più la stessa. L’abbiamo rivista fremere ardente di collera, in Aula, per difendere le ragioni del così detto decreto «salvabanche». L’abbiamo compatita mentre, novella Antigone del Valdarno, cercava nell’aria i buoni motivi per seppellire la brutta vicenda paterna nella fossa di un oblio decoroso. E così, cacciata dalla sua nuvola di poesia falsamente stilnovista, neppure l’approvazione delle «sue» riforme costituzionali è bastata a ricreare riccioli biondi lì dove ormai soffiavano serpi elettrizzate. Al contrario, la ragazza delle Riforme s’è lasciata trascinare in fretta e furia dentro la stonatura wagneriana dello storytelling ultimo scritto da Renzi e musicato da Giorgio Napolitano: se non passa il referendum, ce ne andiamo a casa; dopo di noi, il diluvio dell’ingovernabilità; senza di noi, addio Reame e allora muoia Biancaneve con tutti i suoi sorrisi. Sicché la persuasione dell’eleganza è diventata retorica crepuscolare, sguardo limaccioso, sillogismo sgraziato (la minoranza della sinistra voterà no alle riforme, CasaPound voterà no alle riforme, la minoranza della sinistra è come CasaPound) e parola che offende o che annienta le parole altrui. Come all’Università di Catania, settimana scorsa, quando Maria Elena ha lasciato che il rettore spegnesse la voce critica di uno studente maldisposto a bersi certa «demagogia costituzionale» distillata a mezzo «tour propagandistici negli atenei». Doveva spargere polvere di stelle, Grimilde, e per obbligo d’onestà riconosciamo che ci ha provato, replicando al giovanotto insolente: «Apprezzo la passione nel sostenere le proprie idee, anche se ovviamente non condivido i contenuti». Ma di quella giornataccia sono rimasti soltanto coriandoli avvelenati e lugubri titoli di censura. Un disastro comunicativo, che è come dire un non trascurabile momento d’infelicità politica. Tant’è che poi, domenica, è sopraggiunto l’apice in diretta video con Lucia Annunziata: «Ci sono molti partigiani, quelli autentici, quelli che hanno combattuto, non le generazioni successive, che voteranno sì alla riforma». Un po’ come se Gianfranco Fini avesse declamato a suo tempo che i fascisti, ma quelli veri, avrebbero votato sì alla lista unitaria con Mario Monti (e mi sa che in privato l’avrà detto davvero). Boom. Mezza Anpi l’ha presa male, per non dire dei ruggiti sfiatati nella minoranza del Partito democratico, rianimati da tanta facile sconsideratezza. E dovuto intervenire Renzi, col fazzoletto rosso al collo e il Sol dell’avvenire sotto ai piedi: «Non vedo né gaffe né polemiche. Rispetto per tutti i partigiani». Ha ragione, il premier, non è un semplice infortunio. Gaffe è quando un ministro per le Riforme costituzionali si augura, «per la Sicilia e i cittadini siciliani, che non si debba arrivare a un commissariamento della Regione» (così Maria Elena Boschi nell’aprile 2015, ignorando che la Costituzione vieta di commissariare una giunta regionale, figurarsi se in regime di Statuto speciale). E dunque non di gaffe si tratta ma di metamorfosi. È il rivolgimento del messaggio scintillante che s’inceppa nel mezzo incupito, il tradimento di cento copertine patinate e paginate altrettante che volevano eternare «Il sogno del ministro» (Vanity Fair), la «Signorina grandi riforme» (Oggi), «La più bella dell’estate» (Chi). Una tosta (Alberto Ferrarese e Silvia Ognibene per Giunti editore), «La bella del reame» (Panorama) che s’impone «quando il potere ha i tacchi a spillo», come ha titolato Playboy in un articolo dedicato l’anno scorso a Maria Elena.

Lei è molto sicura / di essere sempre la prima, / ed è molto nervosa proprio come una diva.

E sì che doveva essere un volto da amare, quello della signorina Boschi, perfetto com’è per quella sottomarca di Germania merkeliana che si crede d’essere l’Italia. E lei i requisiti li mostrava eccome, compresa una classe dirigente dimezzata tutt’intorno per non farle ombra, al punto da renderla idealizzabile come la credibile prosecuzione del renzismo con altri mezzi. Proprio adesso il referendum s’accende come un’ordalia medievale, adesso che ogni giorno è un destino e c’è il rischio di scadere nella mascherata del neorealismo, nelle smagliature della baruffa, trucco che cola su arrabbiature lacrimose. Non è un bello spettacolo per Biancaneve, e perfino le streghe cattive sanno che non c’è specchio magico abbastanza grande per contenere l’ombra impopolare della vanità insidiata dalla sconfitta.