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 2016  maggio 25 Mercoledì calendario

Intervista a Pino Aprile

INTERVISTA A PINO APRILE – Milano, maggio Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, in piena trance agonistica da campagna elettorale, grida: «Faremo la rivoluzione! Napoli ribelle!». Intanto, si fa avanti un altro Masaniello, più educato, pacato e documentato. È Pino Aprile, che i lettori di Oggi conoscono bene, per aver lavorato nel nostro giornale 25 anni ed esserne stato vicedirettore. E che altre centinaia di migliaia di italiani hanno scoperto grazie ai suoi libri sulla riscossa del Sud, a partire da Terroni (un caso editoriale dal 2010, 250 mila copie in meno di due anni e da allora riproposto con decine di ristampe, risultando uno dei saggi più venduti di sempre). Ora Pino è in libreria con il suo sesto volume sull’argomento: Carnefici: ecco le prove (Piemme), in cui sostiene che fu un vero e proprio genocidio quello delle truppe sabaude nell’ex Regno delle Due Sicilie, per unificare l’Italia. Centinaia di migliaia di meridionali sterminati, deportati, incarcerati, derubati e con metodi che useranno poi i turchi con gli armeni. Nel suo libro, le prove dell’entità dei massacri emergono, per la prima volta, da ricerche demografiche negli anni a cavallo dell’Unità, da censimenti ordinati dai Savoia e dagli ultimi conteggi borbonici; da statistiche sulla distribuzione degli abitanti e sull’emigrazione; da rapporti sanitari e militari su mortalità ed epidemie; da documenti parlamentari e ministeriali sulla popolazione carceraria. Aprile, oltre che un bravissimo giornalista e ora anche storico e scrittore, è un grande amico. Per questo abbiamo voluto fargli un’intervista provocatoria. Pino, il tuo libro ha già acceso molte discussioni: per mostrare l’entità dei massacri, parti da una semplice sottrazione, e cioè che da un censimento all’altro sono sparite 390 mila persone. Embé? Avranno sbagliato uno dei due censimenti, qual è il problema? «Hai ragione, anche io ho avuto il dubbio che tutto fosse riconducibile a sciatteria: in tre mesi, indire e concludere un censimento, con quei mezzi, in un Paese appena nato e in guerra nell’ex Regno delle Due Sicilie. Ma la possibilità di controllare gli originali del censimento del 1861 e di quello del 1871 non c’è più: spariti, non si sa come. Però, ho recuperato documenti che spazzano via i dubbi: il ministro Giovanni Manna, nel 1863, in un rapporto sul censimento, scrive al re che, visto di quanto cresceva la popolazione nelle province conquistate, si aspettavano un certo numero di italiani, e ne hanno trovati meno, per le “gravi circostanze occorse durante il grande atto del nostro rinnovamento”». E quali sarebbero le “gravi circostanze”? «La guerra». E qual è la differenza in meno, a causa della guerra? «Be’, 458 mila persone. In poco più di un anno! Poi, i padri della statistica italiana, Pietro Maestri e Cesare Correnti scoprono che in un solo anno, per la reazione armata dei meridionali, spacciata per “Brigantaggio”, nel Sud la popolazione cala di 120 mila persone. E quando si analizzano i risultati del censimento del 1861, emergono 405 mila desaparecidos». Qualcuno potrà dire che si tratta di emigrati ormai “perduti”, perché all’estero da troppi anni… «Ma 105 mila sono meridionali e non esisteva emigrazione, dal Sud; non era mai esistita: apparve circa vent’anni dopo l’Unità, per la miseria che ne derivò. E quei 105 mila erano tutti maschi... Quindi: combattenti e morti? Alcuni anni dopo ecco altri 110 mila desaparecidos: tutti giovani, tutti maschi, renitenti alla leva: “morti”?, ipotizza l’estensore della statistica. E poi stragi di civili, 400 mila incarcerati in un solo anno». Ma non sono storie troppo vecchie? Molti, non solo al Nord, potrebbero dire: chissenefrega se 150 anni fa i piemontesi hanno maltrattato i meridionali. «Noi, figli di quelle vittime e di quei carnefici, siamo la conseguenza del nostro passato: se non sappiamo qual è, non sappiamo chi siamo. Il modo in cui si agì, 150 anni fa, ha non unito, ma diviso gli italiani. I fili vanno riannodati dove furono spezzati. Come in una cura psicanalitica, guarisci se prendi coscienza del tuo male. Noi, per malinteso spirito nazionalistico, lo abbiamo occultato». Però, da che mondo è mondo, i vincitori trionfano e i perdenti piangono, dove sarebbe la novità? «Giusto, non c’è la novità. Altri Paesi si sono uniti in un bagno di sangue, come noi e negli stessi anni: negli Stati Uniti, per la guerra di secessione Nord-Sud, morirono più statunitensi che nelle due guerre mondiali messe insieme, ma gli eroi del Nord e del Sud compaiono insieme nei libri di storia; in Giappone, l’ultima delle guerre fra samurai che portarono all’unificazione del Paese, fu un massacro, ma nella storia nazionale i vinti sono onorati più dei vincitori e ad alcuni di loro, deificati, sono stati eretti templi e monumenti. I vinti della nostra storia e i loro eredi continuano a essere cancellati o diffamati». È passato un secolo e mezzo. Un’obiezione è: i meridionali, se avessero voluto, avrebbero ben potuto crescere e moltiplicarsi, se non l’hanno fatto è colpa loro, altro che dei nordici. «Le circostanze determinano i comportamenti umani (lo spiega Amartya Sen, premio Nobel per l’economia). E il maggior potere, attraverso la politica, produce e impone le circostanze. Per non ripercorrere un secolo e mezzo di storia: dal 2013, la popolazione del Sud, invece di crescere, diminuisce e l’emigrazione è ripresa come negli Anni 50. Vuol dire qualcosa che i governi degli ultimi vent’anni hanno letteralmente depredato il Sud, mentre dicevano il contrario? Per limitarci al governo Renzi: i progetti europei sono co-finanziati al 50 per cento dallo Stato, se al Nord; solo al 25, in alcune regioni del Sud; i soldi destinati a creare posti di lavoro nel Mezzogiorno, 3,5 miliardi, sono stati dirottati per incrementare l’occupazione al Nord (togliere dove non ce n’è, aggiungere dove c’è di più); i 4.560 milioni per le ferrovie: 4.500 da Firenze in Su, 60 da Firenze in giù... Potrei continuare. Risultato, la gente se ne va, chi resta non fa figli, la popolazione cala». Anche se fosse tutto vero quello che scrivi, un secolo e mezzo non basta per dimenticare? Nel frattempo ci sono state due guerre mondiali e svariate guerre “locali”, decine o centinaia di milioni di morti, e noi stiamo ancora qui a discutere su 120 mila “scomparsi”? «Be’, 120 mila, furono i primi; la guerra durò, a scemare, una decina di anni; ci fu la rivolta siciliana del 1866, in cui caddero più soldati sabaudi che in qualsiasi battaglia contro gli austriaci e comportò una repressione con massacri inauditi. E si andò avanti a lungo: ancora nel 1892-93, in Sicilia, altre stragi, per distruggere la protesta dei senza-terra, i “Fasci”. Dimenticare è interesse del vincitore: cancella la sua colpa; e dei vinti: rimuove il dolore. Ma nascondere il male non ne elimina le conseguenze». Non ci può essere riconciliazione delle due Italie partendo da rivendicazioni come le tue. Anzi, la frattura può solo allargarsi ancora di più. Non temi di diventare un Masaniello fuori tempo massimo? Non temi di dare legittimità a quei meridionali che vorrebbero gestirsi da soli (mafie comprese)? «Sono giornalista e la mia professione è anche regola di vita. La prima norma è: “Quando sai una cosa, dilla”. Se mi interrogo sulle conseguenze, mi sto chiedendo se conviene dire o tacere. Legittimo, ma è compito del politico, non del giornalista. E, comunque, sono convinto che la menzogna divida, la verità unisca». Hai scritto sei libri sull’argomento. Non temi di essere tacciato come monomaniaco? «Dovrebbe stupire che non siano stati scritti prima, in un secolo e mezzo. Altri, migliori di me, lo hanno fatto, da Antonio Gramsci a Carlo Alianello, Nicola Zitara. Grave è che sia ancora necessario scriverli e queste cose appaiano sorprendenti, mentre dovrebbero essere conoscenze scolastiche. C’è un secolo e mezzo di silenzio, salvo rare e preziosissime voci, da recuperare. Il Paese si inchini dinanzi al dolore che ha inferto, rimedi alle iniquità imposte (ci sono ancora città senza ferrovia, incluso Matera, al Sud, niente alta velocità, pochi aeroporti, Salerno-Reggio Calabria che Renzi ha appena condannato a restare incompiuta). Il Paese dimostri di voler davvero essere uno, dando a tutti le stesse possibilità. O il rischio che si prenda atto di una divisione decisa e mantenuta da un secolo e mezzo, diventerà sempre più reale. Nessuno, in quel caso, potrà dirsi vincitore». Ma usi la parola genocidio! «“È un genocidio? È una deportazione? È una tragedia? È uno sterminio, è uno sterminio di massa? È un massacro? È un macello?”, chiedeva Hrant Dink, il giornalista e scrittore turco-armeno ucciso per aver chiesto che il suo Paese riconoscesse la strage. Etyen Mahçupyan, armeno, scrittore, disse ai musulmani: “Dategli voi un nome!”. Ma siate onesti».