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 2016  maggio 25 Mercoledì calendario

MELANIA TRUMP

Nel luglio 2002, due anni prima di fidanzarsi con la modella slovena Melania Knauss, Donald Trump si recò per tre ore nel Paese in cui lei era nata. La coppia si trovava a Londra. Verso le otto di un lunedì sera, il Boeing 727 di Trump atterrò all’aeroporto Brnik di Lubiana. Ad aspettarli c’erano Viktor e Amalija Knavs, i genitori di quella che in passato si era chiamata Melanija, ma che da tempo aveva cambiato nome. Il gruppo salì a bordo di due Mercedes nere. Mezz’ora dopo arrivarono al Grand Hotel Toplice, un lussuoso albergo affacciato sul lago di Bled. Entrati nel ristorante da un ingresso laterale, furono accompagnati a un tavolo con vista. Trump e Knauss si sedettero da un lato, i Knavs e Foerderer dall’altro, come in seguito avrebbero fatto i concorrenti di The Apprentice. Il ristorante era stato chiuso per loro. Fra cocktail analcolici (Trump prese una Coca Light) e scaloppine alle cipolle con patate fritte e mirtilli selvatici, Melania faceva da interprete. Trump non volle il caffè. Secondo i giornalisti Bojan Požar e Igor Omerza, mentre uscivano chiese al futuro suocero: «Questo posto è in vendita?». Prima di mezzanotte era già all’aeroporto.
Donald Trump, vale la pena sottolinearlo, è sposato con un’immigrata. Se fosse eletto, Melania diventerebbe la prima First Lady straniera dopo Louisa Adams (moglie di John Quincy Adams, sesto presidente degli Stati Uniti), anche se Adams in realtà non conta, perché il padre era americano e di una famiglia politicamente inserita che faceva la spola fra l’Inghilterra e le sue colonie da poco liberate.
Louisa Adams suonava l’arpa, scriveva drammi satirici e allevava bachi da seta. Melania Trump, come lei stessa ha dichiarato a People, fa pilates e legge riviste. Nata nel 1970 a Novo Mesto, in quella che allora era la Jugoslavia, è cresciuta in un palazzone sovietico di Sevnica, una graziosa cittadina sulla riva di un fiume dove una Coca-Cola di contrabbando era un lusso. In seguito, come si evince dal suo sito Internet, ha cominciato «a volare da un servizio fotografico a Parigi a uno a Milano». Trump l’ha conosciuto nel 1998 al Kit Kat Club di New York, durante una festa organizzata da Paolo Zampolli, titolare di un’agenzia di modelle. La storia del loro corteggiamento è casta almeno quanto è equivoco il suo sfondo: Donald vede Melania, le chiede il numero di telefono, ma è arrivato con un’altra donna – Celina Midelfart, ereditiera norvegese – perciò Melania declina. Donald insiste. La scintilla scatta al Moomba (esclusivissimo ristorante di Manhattan, ora chiuso).
Si lasciano per un certo periodo nel 2000, quando Donald accarezzava l’idea di candidarsi alla presidenza per il Reform Party fondato da Ross Perot – Trump scarica la Knauss, titola il New York Post – ma presto tornano insieme. Lui le chiede di sposarlo la sera del Met Gala 2004, e oggi Melania, che un tempo faceva vita tranquilla nelle Zeckendorf Towers di Union Square, fa vita tranquilla nelle Trump Tower di Fifth Avenue. In casa, gli ospiti devono calzare copriscarpe per non lasciare segni sui pavimenti di marmo.
Anche la madre di Trump era un’immigrata, venuta dalla Scozia. La sua prima moglie, Ivana Zelníčková, è nata a Zlín, nell’ex Cecoslovacchia. Se – come dice – è preoccupato da tutta la «gente arrivata da non si sa dove che ammazza e stupra e viene in questo Paese», forse dovrebbe pensare di costruirsi un muro intorno ai pantaloni. Melania è sbarcata a New York per fare la modella. Per un’anomalia delle leggi sull’immigrazione, le modelle – quasi la metà di loro non possiede un diploma di scuola superiore – possono entrare negli Stati Uniti con il visto H-1B, quello per i lavoratori specializzati, lo stesso che spetta a scienziati e programmatori informatici, che devono però dimostrare di possedere un titolo universitario. «Il programma H-1B non c’entra niente né con la specializzazione, né con l’immigrazione: sono lavoratori stranieri temporanei, importati dall’estero al preciso scopo di sostituire lavoratori americani a prezzi più bassi», ha dichiarato Trump a marzo, prendendosela con «lo sfrenato, generale abuso che si fa dell’H-1B».
Melania ottenne la green card nel 2001, e cinque anni dopo divenne cittadina americana. La famiglia Trump poteva permettersi di regolarizzarla. Con gli immigrati meno fortunati di lei si mostra poco solidale: «Sono venuta qui per lavoro, e mi è andata così bene che mi sono trasferita», ha dichiarato a Harper’s Bazaar. «Non mi è mai passato per la mente di vivere qui senza i documenti. C’è chi è fatto così. Segue le regole. Rispetta la legge. Ogni tot mesi deve tornare in Europa a farsi timbrare il visto».
Nella sezione «Il mio mondo» del suo sito, si definisce ex studentessa di design e architettura, «presenza magnetica di fronte all’obiettivo», «bellezza dagli occhi acquamarina», moglie, madre, benefattrice, newyorkese e protagonista di «varie pubblicità televisive, l’ultima delle quali per le assicurazioni Aflac», dove appare «accanto a una delle più famose icone americane, il papero Aflac». Eppure è una presenza enigmatica, spesso silenziosa, con quegli occhi perennemente socchiusi. Dalla campagna elettorale è stata perlopiù assente, preferendo, come dice, stare a casa con Barron, il figlio di dieci anni avuto da Donald. Ultimamente è apparsa un po’ più spesso, nella speranza di attirare il voto delle donne, visto che più di una su tre non ama Trump. Si attiene a un repertorio di risposte standard: «È bravissimo a negoziare», «Siamo due persone molto indipendenti». Ha una linea di gioielli, una di prodotti per la pelle (ingrediente chiave: uova di storione) e un debole per l’espressione «dalla A alla Z» («Seguo tutto dalla A alla Z», «Sono coinvolta dalla A alla Z», «Mi occupo dei gioielli che creo dalla A alla Z»).
Il marito sembra considerarla principalmente per le sue doti fisiche: «Dov’è la mia top model?», gridò dal palco di un incontro alla University of Pennsylvania nel 1999, poco dopo essersi fatto accompagnare da Melania al talk show di Howard Stern per parlare del loro «sesso incredibile» e del fatto che lei non aveva la cellulite.
Si sarebbe tentati di liquidare Melania come un manichino, da apprezzare più per le proporzioni che per la personalità. Un manichino, però, le cui scelte di abbigliamento vengono perlopiù ignorate dal pubblico americano. Monica Lewinsky fece esaurire le scorte di un rossetto, Sarah Palin scatenò la corsa a una linea di occhiali, ma non si registra un «effetto Melania». I suoi abiti sono sorprendentemente casuali. Il suo look più memorabile resta quello pelle d’orso, bracciali di diamante e nient’altro sfoggiato per Un letto fra le nuvole, il servizio di GQ del gennaio 2000.
Melania Trump è insomma il corpo perfetto cui appendere un brand. Abbiamo ammirato le braccia di Michelle perché ci sembrava di poterle avere anche noi, se solo ci fossimo impegnate quanto lei, ma delle gambe di Melania non parla nessuno (a parte il marito). Diversamente da una Teresa Heinz Kerry, che si sperticava sulla sua infanzia in Mozambico, Melania è una straniera che non mostra affinità con il suo Paese. A differenza di una Carla Bruni entrata all’Eliseo dopo quattro decenni di vita mondana, è una fotomodella con un passato da suora. Si è tenuta alla larga dalla «vita di società», e non ha avuto «precedenti fidanzati», ha spiegato al Washington Post il fotografo Antoine Verglas. Sul sito Yonder News il giornalista di origine slovena Andrej Mrevlje si chiede se Melania possa vivere una trasformazione simile a quella di Veronica Lario, l’ex moglie di Silvio Berlusconi: «Aveva dato tre figli a Berlusconi e viveva nel lusso, come Melania. Poi ha conosciuto un intellettuale, il filosofo ed ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari, e si è radicalizzata. Stanca dei comportamenti del marito, ha chiesto il divorzio e dato inizio al tramonto dell’era berlusconiana, dopo che un intero Paese non era riuscito a sbarazzarsi di lui».
A Melania, Trump ha dato il suo cognome. Per le schiere di americani che si eccitano davanti agli omonimi grattacieli, bistecche e videogiochi, questo fa di lei una vincitrice. Non potendolo sposare, per diventare dei Trump dovrebbero essere suoi figli. L’infatuazione per Donald Trump è di fatto una fantasia d’adozione collettiva. I contorni dell’albero genealogico della famiglia Trump, comunque, sono molto fluidi. Parlando di Ivanka, la figlia maggiore, Donald ha dichiarato: «È alta un metro e ottanta e ha un fisico strepitoso». (Lei definisce il padre «uno dei più grandi difensori delle donne»). Ivanka, vicepresidente esecutivo della Trump Organization, ha svolto il ruolo di coniuge sostitutiva per buona parte della campagna elettorale. Ha accompagnato il padre sul palco quando a giugno ha annunciato la candidatura – mentre Melania stava a guardare –, lo consiglia sulle strategie e viaggia con lui per il Paese.
Melania, nel frattempo, parla «dei miei due bambini, quello grande e quello piccolo». Degli otto nipoti di Trump, due hanno suppergiù la stessa età dello zio Barron. Donald alimenta questa dinamica paterna ribadendo il desiderio di «proteggere» la gente. Il suo slogan «Facciamo tornare grande l’America» vuole dire «facciamola tornare ricca». E quale modo migliore per battere cassa che attaccarsi a un parente ricco?
Quella serata sul lago di Bled rimane l’unica visita di Trump in Slovenia. Si è scritto che, dei 450 invitati al matrimonio dei Trump, solo tre – Viktor, Amalija e la sorella di Melania, Ines – fossero sloveni. «Lui parla inglese, punto. E va bene così», ha detto Melania a Harper’s Bazaar parlando del marito. «Io non sono il tipo di moglie che ti dice impara questo o impara quello. Non sono una rompiscatole». Eppure Melania sembra aver introiettato molti aspetti della cultura di Donald: il suo antistoricismo, l’imperturbabile sfacciataggine, le false dicotomie fra delinquenti e cittadini meritevoli, fra donne che non chiedono nulla e mogli rompiscatole. Come Donald, anche lei non beve. Non esce mai dalle righe, nemmeno con qualche critica scherzosa. «A me lui piace così com’è», dice dei capelli del marito. Ha perfino fatto suo il caratteristico broncio di Donald. Melania è l’incarnazione estrema del patto con gli americani. Se la promessa di Obama era «io sono voi», quella di Trump è «voi siete me».
Nel suo libro Hidden Power: Presidential Marriages That Shaped Our History (Il potere nascosto - Le coppie presidenziali che hanno segnato la nostra storia), Kati Marton sostiene che, visto che la presidenza comporta un grande isolamento fisico, il ruolo della First Lady – la prima persona con cui il presidente parla al mattino e l’ultima con cui parla la sera – è fondamentale. Marton definisce la presidenza un mestiere a due, un connubio di vita e lavoro. «Se di colpo ci ritrovassimo con una First Lady fotomodella, alla quale guardare solo per gli abiti che indossa, sarebbe una svolta rilevante, con conseguenze credo serie», mi dice Marton. «Se il Presidente ha una compagna brillante e inserita, in grado di farsi ascoltare e dirgli cosa succede nel Paese, o se sta facendo stupidaggini, come hanno fatto le First Lady migliori, siamo noi a giovarne». Una First Lady passiva, a detta di Marton, può danneggiare non solo il marito, ma il Paese. E Melania Trump, conclude, sarebbe «la First Lady più inesperta e meno preparata della storia».
Se si prende sul serio il ruolo della First Lady, allora vale la pena tentare di capire chi sia Melania come persona. Il resoconto biografico più approfondito è rappresentato da Melania Trump: The Inside Story (Melania Trump - La storia segreta), un libro di Bojan Požar e Igor Omerza pubblicato in inglese a metà febbraio per Kindle (la versione cartacea esce a giugno), libro che un portavoce di Trump ha definito «menzognero e fazioso, un cumulo di bugie».
Požar è il più importante giornalista scandalistico della Slovenia, Omerza un ex politico ed editore, e insieme hanno rivoltato ogni sasso di Novo Mesto, Sevnica, Lubiana e oltre.
Melania ne emerge come una ragazza tranquilla e sicura di sé che, malgrado il fermento politico che ha circondato la sua tarda adolescenza – la Slovenia divenne indipendente nel 1991 –, non ha mai voluto fare altro che la modella. «Le interessava tutto ciò che aveva a che fare con la moda e con la bellezza, e ha scoperto presto di possedere un talento per il design e la creatività», scrivono Požar e Omerza.
Per lei la svolta arrivò nel 1992, quando la rivista femminile slovena Jana organizzò il suo Look of the Year. Pare che la competizione fosse feroce e la posta in gioco altissima. Jana prometteva che le vincitrici avrebbero «preso posto fra le modelle europee più celebri e amate, dividendo con loro il mercato, la fama… e i soldi». Le prime tre classificate avrebbero firmato contratti in Europa (a Parigi, Milano e Vienna). Melania, che aveva già girato lo spot di uno shampoo, arrivò seconda. I dettagli della sua carriera da modella fra il 1992 e il 1996, anno in cui si trasferì a New York, sono un po’ nebulosi, ma ottenne comunque un discreto successo, lavorando per le riviste.
I due giornalisti hanno una relazione conflittuale con Melania: un avvocato di Trump ha minacciato di far causa a Požar dopo un articolo in cui sosteneva che si fosse rifatta il seno. Ma il loro resoconto è esaustivo, e supportato da documenti e fotografie. Malgrado alcuni eccessi di dubbio gusto («Pare che Donald sia il primo uomo con cui è andata a letto»), sono convincenti nel sostenere che ha la tendenza ad abbellire la biografia come Trump fa con i palazzi. Sua madre, ha dichiarato alla giornalista Mika Brzezinski, ha lavorato «nel mondo della moda» come «fashion designer». Ma come dimostrano Požar e Omerza, la donna era in realtà una dipendente dello Jutranjka, stabilimento tessile di Stato, dove stampava tessuti. I due smentiscono altre frottole: ha dichiarato di essere arrivata prima al concorso The Look of the Year, e sul suo sito sostiene di essersi laureata in Architettura e Design all’Università di Lubiana, che abbandonò al primo anno.
Melania ha la stessa maestosità del marito, se non di più. La maggior parte delle aspiranti First Lady vuole così tanto piacere alla gente da rasentare l’assurdo – rivolgendosi a un pubblico di neri, Teresa Heinz Kerry si definiva «afroamericana» –, ma lei preferisce apparire come un modello aspirazionale. Non solo evita di scherzare sul marito, ma si prende molto sul serio. La cosa meno americana di Melania è proprio questa. Non tenta di accattivarsi il prossimo ridendo di sé. Sfoggia orgogliosa il diamante da 25 carati (regalo di Trump per il decimo anniversario), lo stile di vita formale («Non è un bambino che gira in tuta», ha detto del figlio Barron), le sue tante case («Ciao ciao! Vado nella mia residenza di #campagna»).
Nel 2011, quando Donald si è unito a chi contestava l’americanità di Barack Obama, è apparsa al Joy Behar Show:
Behar: «Ma cos’è quest’ossessione per il certificato di nascita? Quando vi siete conosciuti l’ha chiesto anche a lei?».
Melania: «Be’, il mio l’ho dovuto mostrare comunque, perché se si vuole diventare cittadini americani il certificato di nascita ci vuole. Io ne ho uno sloveno. Lei lo vuole vedere il certificato di nascita del presidente Obama o no?».
Behar: «Io l’ho visto».
Melania: «Quello non è un certificato di nascita».
Behar: «È un certificato di nascita in vita, che è quel che rilasciano alle Hawaii. Se suo marito avesse ragione, nessun hawaiano potrebbe mai candidarsi alla presidenza».
Melania: «Comunque sarebbe tutto molto più semplice se il presidente Obama lo mostrasse e basta. Mica è solo Donald a volerlo vedere. È il popolo americano!».
E il fatto che lei abbia ancora un accento sloveno, e che per un periodo l’abbia avuto persino suo figlio Barron, che è bilingue, non impedisce a Trump di ironizzare su Jeb Bush che «parla messicano», lingua del Paese d’origine di sua moglie Columba, così da lui furbamente accomunata agli immigrati clandestini.
Ci vuole fegato a fare «la Melania», come la definiva il programma. Riuscite a immaginare, anche solo per un momento, la sicurezza di sé che occorre per proporsi come First Lady degli Stati Uniti?
In privato, a detta di molti, Melania è una persona piacevole. Nel suo libro The Fortune Hunters: Dazzling Women and the Men they Married (Le cacciatrici di dote: donne straordinarie e gli uomini che hanno sposato), Charlotte Hays riporta commenti che la vorrebbero «troppo gentile per New York». Dobbiamo quindi concludere che questa sua immagine distaccata è voluta. A volte sembra persino che prenda in giro i genitori americani che lavorano. «Io non ho una tata», ha dichiarato a Harper’s Bazaar. «Ho uno chef, ho il mio assistente e basta. Faccio da me» («Una ragazza che si occupa di Barron c’è», ha ammesso Donald al Post).
Il matrimonio ostentatamente non egualitario dei Trump – dove il predominio maschile salta all’occhio tanto quanto i mobili Luigi XIV nel loro attico – può anche essere interpretato come uno strumento di marketing. È l’annuncio della riscossa ai maschi che si sentono bistrattati. «Di loro non mi occupo direttamente», ha dichiarato Donald, parlando dei figli. «Io ci metto i soldi, poi tocca a lei. Non è che adesso prendo e li porto a Central Park». In termini aziendali, è una società a responsabilità limitata, dove Donald è il socio che dirige. La sua visione della donna corrisponde alla sua visione del mondo: nessuna reciprocità. Un volo di sola andata.

(traduzione di Matteo Colombo)