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 2016  aprile 29 Venerdì calendario

ECCO COME INCASTRO I FURFANTI DI PANAMA


[Gustavo Gorriti]

Il peruviano Gustavo Gorriti è una leggenda del giornalismo sudamericano: con le sue inchieste ha minato la reputazione di un paio di presidenti, che a loro volta l’hanno ricoperto di attenzioni così particolari che solo il suo prestigio internazionale gli ha impedito di lasciarci la pelle. All’inizio degli anni Novanta Gorriti denuncia la contiguità tra il narcotraffico e l’entourage del presidente peruviano Alberto Fujimori: viene rapito dalle milizie governative, e dopo una repentina liberazione richiesta e quasi imposta da decine di colleghi di tutto il mondo si rifugia prima negli Stati Uniti e poi, dal 1995, a Panama. Che ci fa nella città del Canale vent’anni prima della più grande fuga di notizie della storia del giornalismo? Nella metropoli centramericana Gorriti ha un compito preciso: «Dovevo portare a Panama la tecnica e la passione del giornalismo d’inchiesta» spiega da Lima, dove è tornato da qualche anno per dirigere il sito IDL-Reporteros. Nel 1996 proprio a Panama Gorriti impallina il presidente Ernesto Pérez Balladares scoprendo l’ennesimo intreccio tra narcotraffico e alta politica; nel 2016 è a capo di una delle 107 testate giornalistiche che stanno decodificando i 2,7 terabyte di dati hackerati ai maghi panamensi dell’offshore finanziario-Fonseca. Dopo tanta attualità, Gorriti si lascia andare ai ricordi: «Quando dall’ICIJ, l’International Consortium of Investigative Journalists, mi hanno proposto di collaborare all’analisi dei documenti usciti dallo studio Mossack-Fonseca pensavo a un caso limitato».
Perché?
«Perché li conoscevo. Sapevo che erano uno studio specializzato in società offshore, ma non potevo immaginare la quantità e la qualità del materiale recuperato».
Cosa sapeva di loro?
«Negli anni Novanta ho incontrato entrambi i titolari. A Panama non mancano i legali specializzati nella creazione di società di comodo, ma Ramon Fonseca era il solo ad avere una doppia vita: di giorno macinava codici e fatturati, di notte scriveva. Stiamo parlando di una città in cui fino a pochi anni fa i libri si vendevano solo in farmacia, quasi che uno dovesse proprio star male per aver voglia di leggere. In un ambiente del genere Fonseca era una mosca bianca: scriveva romanzi e parlava solo di letteratura».
Che genere di romanzi?
«Diciamo il genere che inizi a leggere, e dopo poche pagine ti dici che la vita è troppo breve per continuare».
E l’altra metà dello studio che stando ai Panama Papers ha creato 300mila società fantasma per centinaia di Paperoni globali?
«Per Panama è fondamentale la rispettabilità di facciata, e così in città non sono mai mancati i convegni sulla trasparenza finanziaria. Nel ’96 a uno di questi fu invitato l’avvocato statunitense Jack Blum, che negli anni Ottanta aveva collaborato con il senatore John Kerry per svelare i traffici di cocaina dei guerriglieri nicaraguensi finanziati dalla Cia. Ovviamente Blum si scagliò contro l’opacità del sistema panamense che favorisce riciclaggio ed evasione fiscale».
Il pubblico non l’avrà presa bene...
«Dopo di lui prese la parola Jürgen Mossack, che si lanciò in un’energica e applauditissima difesa di Panama, delle sue leggi e dei suoi studi legali. La tesi di Mossack era che l’offshore non protegge criminali ed evasori, ma il diritto alla privacy e la libertà d’impresa: fu un momento di sublime ipocrisia».
Ma perché proprio Panama è al centro di questo sistema di occultamento di fortune globali?
«Si sbaglia, il sistema non ha centro, e la forza di Mossack Fonseca è stata proprio la diffusione capillare dei loro servizi ovunque nel mondo, dal Brasile al Liechtenstein, dalle Isole Vergini alla Cina.
L’unico centro reale è il sistema informatico da cui è uscita questa massa incredibile di informazioni».
La sorprende una concentrazione del genere nelle mani di un’unica società?
«Pensavo che Mossack-Fonseca fosse una boutique per gli happy few, e invece più lavoro ai documenti e più mi sento di fronte al Walmart dell’offshore globale».
Ma insisto: secondo lei perché proprio a Panama?
«Una sera di fine anni Ottanta in un esclusivo night club di Panama City entra un celebre poliziotto messicano. Gli uomini del narcotrafficante colombiano Gonzalo Rodríguez Gacha, che si stava godendo la serata, mettono subito mano alle pistole. La tensione è massima, finché il proprietario si precipita in sala ricordando la legge del luogo: calma signori, siamo a Panama, è territorio neutrale. Da allora le cose sono cambiate, ma la storia e la geografia contano sempre: nel mondo sono in molti ad avere bisogno di luoghi neutrali come questo».
Una sorta di camera di compensazione delle malefatte globali...
«Senza però dimenticare che Panama ha due facce: da un lato è il regno dell’ipocrisia, dall’altro la patria di un popolo magnifico, straordinariamente aperto e trasparente».
Vent’anni fa lei per le sue inchieste rischiava la vita. Oggi lavora in tutta sicurezza: vuol dire che il mondo è diventato un posto migliore?
«No, solo che il rischio è suddiviso tra centinaia di colleghi che collaborano allo stesso obiettivo. Ma a livello locale continua a essere difficile: pensi solo a Khadija Ismayilova, grande reporter azera che per aver denunciato gli affari panamensi del presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliev da un anno e mezzo è in carcere con accuse totalmente pretestuose».
Eppure il giornalismo investigativo sembra più che mai in salute.
«Per anni mi sono sentito inutilizzabile, sembrava che il mio mestiere non interessasse più a nessuno. Allora ho messo su una redazione online e mi sono dedicato ad azioni di guerriglia giornalistica: inchieste importanti ma che per mancanza di fondi non avevano possibilità di essere approfondite. Tutto questo è durato finché l’ICIJ non ha cambiato le regole del gioco».
Qual è la novità?
«I fronti di guerriglia si sono uniti e, grazie al coordinamento della piccola ma efficientissima newsroom di Washington, hanno fatto quello che Mao o il generale Giap avrebbero chiamato il salto dalla guerriglia alla guerra strategica».
Con che conseguenze?
«Centinaia di reporter che lavorano insieme sono una potenza: la vicenda dei Panama Papers dimostra che nell’era del giornalismo collaborativo nessun furfante può più dormire sonni tranquilli».