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 2016  aprile 29 Venerdì calendario

VIETATO PIANGERE


MADRID. Arrivando in anticipo all’intervista con Pedro Almodóvar, vado a prendermi un caffè in un baretto nei paraggi del Deseo, la sua casa di produzione dove abbiamo appuntamento. Mentre fumo in terrazza, l’occhio mi cade su una Bmw parcheggiata. Al posto di guida c’è una ragazza in tailleur; seduto accanto, un operaio in tuta da lavoro chiazzata di vernice. Pomiciano con ardore tutt’altro che clandestino. Pago e mi allontano prima di ruzzolare nel voyeurismo.
La manager e l’imbianchino. Potrebbe essere la scena di uno qualsiasi tra i film di Almodóvar. Tutti tranne quest’ultimo, Julieta, il più atipico di venti che l’ex niño terrible ha girato in trentasei anni di carriera su sessantasei anagrafici. Eccetto i toni cromatici del famoso rosso Almodóvar, dentro non ci troverete nessuna delle sue griffe abituali: «Niente umorismo, zero parodia o miscuglio di generi». Lo definisce un drama seco, sin gritos. Sobrio, senza strepiti. Asciutto a tal punto che durante le riprese lui ha vietato alle attrici di piangere: «Potevano farlo soltanto nelle pause». Dalle valorose Adriana Ugarte e Emma Suárez – che interpretano la protagonista da giovane e nella maturità – voleva maschere paralizzate nell’afflizione, lacrime trattenute sulla soglia dell’occhio: «Lo strazio non doveva coinvolgere i muscoli facciali. Entrambe hanno controllato le emozioni come soldati».
Presentato così, Julieta può raggelare. Ma non spaventatevi: restiamo pur sempre nell’emisfero almodovariano, ossia in un continente sferzato da tempestose passioni. Stavolta vorticano tra i campi magnetici della disgrazia, del destino antico (guarda un po’ tu: Julieta insegna letteratura greca nei licei), della perdita e della colpa; di un dolore annoso che si calcifica fino a diventare una specie di catatonia, inebetimento afasico. «È la tragedia di una donna che senza capire perché si vede abbandonata di colpo dalla figlia amatissima. Per decenni convive con la prostrazione e non riesce a trovare le parole per esprimerla». Cosa diavolo ha fatto per meritarsi questo? Lo scopriremo in un flashback lungo quasi quanto tutto il film. Che ha una sua cupa malia e ti resta addosso per un bel po’. Ma in Spagna (salvo eccezioni: «È la migliore sceneggiatura mai scritta da Almodóvar») ha raccolto recensioni ispide, e al botteghino è andato maluccio. In tempi indignati, qualcuno l’ha letta come una rappresaglia del pubblico al putiferio dei Panama Papers, il listone dei conti offshore dal quale sono spuntati pure i nomi di Pedro e Agustin, suo fratello e associato. Comunque i due hanno fatto pubblica ammenda e il film andrà a Cannes. Da favorito, giurano gli scommettitori.
Dopo un filotto di prove suggestive ma zoppe (Gli abbracci spezzati, 2009; La pelle che abito, 2011) o sbalestrate e basta (Gli amanti passeggeri, 2013), l’impressione è che Almodóvar abbia ripreso con Julieta un certo controllo di quel che vuole dire e soprattutto di come, all’età sua, gli preme dirlo. Lo ha fatto in un film dalla gestazione tortuosa. La storia – che avrebbe dovuto chiamarsi Silenzio se Mart in Scorsese non avesse già messo il cappello su quel titolo per il suo prossimo lavoro – è ispirata a tre racconti del Nobel canadese Alice Munro. Ma assai liberamente. Almodóvar, grande tifoso della scrittrice, avrebbe voluto esserle più fedele girando direttamente in Canada. Però i sopralluoghi laggiù, e poi negli States, non l’hanno convinto. Anzi l’hanno gettato in depressione nera: «L’idea di trascorrere mesi in quei posti mi uccideva di tristezza». Così, pur di non rinunciare al progetto, se l’è riportato a casa e l’ha spagnolizzato. Vale a dire trasposto «in un mondo dove i rapporti genitori figli non assomigliano neanche un po’ a quelli dei Paesi anglossassoni. Lì, appena i ragazzi vanno all’università, le famiglie si scindono. Da noi il cordone non si rompe mai. Tutto questo in Munro non c’è, non può esserci».
A parlare è uno che se ne scappò di casa a 17 anni: «Mio padre la prese malissimo. Voleva farmi riacchiappare dalla Guardia civil». Sobre su madre – che si chiamava Francisca Caballero ed è scomparsa nel ’99 – Pedro ha raccontato se non proprio Todo diciamo parecchio. Mentre del padre Antonio sappiamo pochissimo. Chi era? «Uno degli ultimi arrieros, mulattieri della Mancia. A dorso d’asino trasportava olio e vino fino in Andalusia. Caricava tutto sulle bestie in viaggi impervi attraverso la Sierra Morena che lo tenevano lontano da casa per settimane. Le automobili già esistevano. Ma mio nonno, che produceva il vino, voleva che il figlio continuasse a venderlo così. L’autorità degli anziani pesava ancora molto sull’economia familiare». Antonio Almodóvar è morto nel 1980 – «nella stessa stanza in cui era nato» – e senza aver mai visto un solo film del figlio. Sospetto che non gli sarebbero piaciuti. «Mio padre apparteneva alla Spagna che puoi trovare nei resoconti di viaggio di Théophile Gautier o nella Carmen di Mérimée. Era un uomo dell’Ottocento cui toccò vivere nel Novecento. Ci separavano un paio di secoli. In paese mi aveva trovato un posto in banca. Ma se fossi rimasto sarei stato un infelice. Parliamo del 1969-70: all’epoca, per fare la tua vita dovevi rompere con quella dei tuoi. Oggi non è più così». Sicuro sicuro? «La famiglia mediterranea può ancora opprimere e diventare repressiva. Però adesso – a meno che i genitori non siano fanatici integralisti o, che so, adepti di una setta – la frattura con loro è provvisoria. Necessaria, non dico di no, ma prima o poi la ricomponi. È successo perfino a me che venivo da una cultura della ribellione. A un certo punto, anche se la tua vita è ormai un’altra, scopri che il vincolo di sangue è importante e va protetto». Sbarcato a Madrid, Almodóvar lavorò per dodici anni alla compagnia telefonica. Ma non era lo stesso che dietro uno sportello di banca. Alle cinque del pomeriggio staccava e là fuori c’era tutta Madrid. Col suo sottosuolo ruggente, al crepuscolo del franchismo.
Pedro è il terzo di quattro figli. Le sorelle maggiori, Antonia e María Jesus, vivono fuori città. Agustin, il più piccolo, si aggira per gli uffici del Deseo. Calvo, brevilineo, schivo, è la mente tecnica della società creata nell’85 su misura per Pedro. La traiettoria di Agustin – detto Tinín – è stata solo un po’ meno irregolare di quella del fratello. A Madrid si è laureato in chimica, ha insegnato scienze, ma per poco: il tornado Almodóvar se l’è subito inghiottito. «In uno dei suoi Super 8, un pastiche di episodi biblici, ero l’angelo sterminatore». Da allora non c’è film di Pedro nel quale Agustin non abbia fatto una comparsata. È stato postino, bancario, poliziotto, immobiliarista, farmacista, fabbro ferraio, tassista, prete, pulitore di piscine, commesso di ferramenta, giardiniere, controllore di volo... In Julieta appare in uniforme da capotreno. Ma cosa sono i suoi camei? Un omaggio di Pedro – seppur per interposta persona – al venerato Hitchcock («È il padre del cinema»)? O una specie di rituale scaramantico? «Adesso sono diventati una tradizione. Ma iniziai a farne per il semplice motivo che sul set mancavano sempre comparse. Comunque mi considero il più costoso degli attori almodovariani. Non in termini di cachet, ma di pellicola: con tutte le scene che sbaglio, gliene faccio sprecare una montagna».
La sua educazione sentimentale al cinema è stata speculare a quella del fratello: «Ho cominciato ad andarci a quattro/cinque anni. Mi ci trascinavano le mie sorelle por non restare da sole col fidanzato. Insieme a Pedro ricordo le proiezioni estive all’aperto. Vivevamo in campagna, i film arrivavano con un anno di ritardo. Ma si divorava di tutto. La fontana della vergine di Bergman l’ho visto che non avrò avuto nemmeno diec’anni. Film durissimo per un ragazzino. Non credo che in un cinema di città mi avrebbero lasciato entrare».
Spigolando, ho letto che una volta, per festeggiare un anniversario di matrimonio, i coniugi Almodóvar portarono tutta la covata a vedere Guerra e pace. Ma al secondo bacio, il capofamiglia ordinò dietrofront, a casa. Agustin sorride: «I miei non sapevano vedere un film, non ne capivano il linguaggio: flashback, dissolvenze, stacchi li disorientavano. E ’sti cavalli adesso che c’entrano? Da dove sbucano? Sono veri o di cartone?». Meglio la narrazione orale: «Passavamo serate ad ascoltare Pedro che ci raccontava i film. Spiegando quello che sullo schermo non si vedeva, e aggiungendoci molto di suo».
Poster, foto, cimeli... Nelle stanze del Deseo tutto grida: Pedro, Pedro, Pedro! Uno staff di 24 persone, nel 2014 la società presentava attivi per 45,2 milioni di euro. Agustin possiede il 15 per cento delle azioni, il resto è del fratello. Producono le creazioni di Pedro e occasionalmente quelle di qualche nuovo virgulto. Vedi l’argentino Damián Szifrón che con Storie pazzesche (2014) è stato candidato agli Oscar. Tinín è l’uomo che vende i film di Almodóvar all’estero – lo raccontano come un negoziatore duro – e che ci mette la faccia nei momenti storti: «Questa di Panama è la terza crisi grave che ci troviamo ad affrontare. Nel 2004 ci furono gli attacchi animalisti a Parla con lei. Due anni dopo, all’epoca della Mala educación e degli attentati di Madrid, lo scontro con il Partido Popular. Avanti così e da tutte queste vicende ricaveremo una serie per Netflix». Su Twitter si è definito «il lato oscuro del Deseo». Ironizzava? «Volevo dire che se in questo film panamense c’è un cattivo, quello sono io» sghignazza criptico.
Ma che tipo di produttore si considera? «Sono un autodidatta assoluto e nel mondo del cinema continuo a sentirmi un intruso. Quando mettemmo su questa società, Pedro subiva molte pressioni dai finanziatori. Erano attriti continui. Per ciò ho cercato di organizzargli il lavoro e le risorse in modo da garantirgli totale libertà. Trent’anni dopo, è ancora quello che faccio». Cinematograficamente, Agustin Almodóvar si ritiene fermo a un anello precedente dell’evoluzione tecnologica: «Sono rimasto alla fase analogica. L’universo del digitale è meraviglioso. Ma, quando con Pedro abbiamo iniziato, nel cinema c’era ancora un rapporto con la materia, con la manipolazione manuale che ormai si è perso. Ora viviamo nella simulazione. Mentre a noi le cose piace filmarle, non ricrearle. Vogliamo che i film siano pieni di realtà». In che senso? «Le faccio un esempio. Forse ricorderà la scena finale di Matador: una specie di orgia suicida davanti a un caminetto. Amore, sesso, morte. Beh, quel fuoco era vero. Io facevo l’assistente alla regia e mi toccava star lì ad alimentare la fiamma. Oggi persino la legge non lo permetterebbe. Oggi il fuoco si simula. La vedo ancora l’attrice Assumpta Serna che nelle pause di lavorazione usciva a prendere aria tutta nuda. Non aveva nessun pudore fisico. Ed era letteralmente arrostita. Ma era proprio quello che volevamo: per la fusione tra fuoco e passione la fiamma deve essere vera. Era un inferno star dietro a quel caminetto. Però credo che, rivista oggi, quella scena rappresenti ancora bene la nostra idea di cinema. Nel senso di filmare il reale, ricreare la realtà filmandola. Non rifacendola a posteriori».
Ma oggi sarebbe possibile far decollare qualcosa come El Deseo? «Ci ho pensato tante volte e mi sembra difficile. Se avessimo cominciato adesso, con Pedro faremmo magari corti su YouTube, ma robe molto marginali, molto underground». Ammesso e per niente concesso che la parola abbia ancora senso. Però al di là del lato produttivo, il clan Almodóvar venne definito una Factory. Serraglio con le sue muse divinizzate e poi magari ripudiate: Carmen Maura, Victoria Abril, Marisa Paredes, Rossy de Palma, Penélope Cruz e le altre ragazze del mucchio. Con i suoi chicos, da Banderas a Bardem, e con il suo codazzo movidesco di comprimari più o meno balenghi e scoppiati. «Negli anni 80, come etichetta mediatica, la parola Factory ebbe la sua efficacia» ricorda Pedro. «Anche perché Warhol era ancora vivo. Venne in Spagna per la sua ultima grande mostra. Ci si incrociava in almeno due feste al giorno. Era un uomo di pochissime parole. Ma una volta riuscì a chiedermi: Perché dicono che sei il Warhol spagnolo? A me quella storia del Warhol spagnolo era sempre sembrata una sonora stronzata. Però risposi: Forse perché i miei film sono pieni di omosessuali e di trans. Lo vidi perplesso». Puntualizza Agustín: «Se però per Factory si intende una realtà produttiva di tipo artigianal-familiare, che non si muove secondo piani industriali standardizzati, allora per El Deseo la formula calza ancora». Lui, lo scienziato, definisce il sodalizio con il fratello «un legame chimico, misterioso come quello tra idrogeno e ossigeno che nell’acqua sono difficilissimi da separare». Di Almodóvar, Tinín continua a essere anche il primo lettore, spettatore, critico. «Appena comincio a scrivere un film gli faccio leggere le prime pagine» racconta Pedro. «Perché, pure se siamo diversi, lui capisce le mie storie meglio di chiunque altro. E perché è molto raro che le persone che ho intorno mi dicano quello che pensano davvero di una mia nuova idea».
Se non si conta Lucio, il gatto ex randagio che gli venne regalato sul set qualche tempo fa, Pedro Almodóvar vive solo da anni. Come Philip Marlowe. Agustin è invece al secondo matrimonio e ha due figli. «Con mio fratello ci vediamo tutti i giorni» continua Pedro. «Lui ha la sua famiglia e le sue abitudini, però quando vanno tutti al cinema nel fine settimana io mi aggrego». Fino a che punto il doloroso Julieta rispecchia lo stato d’animo di Almodóvar a sessantasei anni? «Se lo avessi girato a trenta o a quaranta lei non sarebbe stata così sulle sue. Giocoforza si sarebbe portata in casa una marea di gente. Come in Donne sull’orlo... Anche lì c’è una tizia che vive da sola. Soltanto a quest’età posso concepire un personaggio isolato dentro un appartamento. Forse perché sto diventando un mezzo misantropo, un asociale» ride. «Magari non un antisociale, anche se in società ormai funziono malissimo». Oltretutto è reduce da una brutta operazione alla spalla. Esce poco la sera: «Non ci sento più da un orecchio e mi è difficile seguire le conversazioni. Soffro di iperreattività bronchiale, il semplice odore del fumo mi ammazza, qualsiasi sbalzo di temperatura mi spegne la voce».
Ha detto più volte che gli sarebbe piaciuto avere figli. Però è andata altrimenti e Almodóvar – che alla nascita pesava cinque chili – continua a fare film pieni di madri.

Marco Cicala