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 2016  aprile 30 Sabato calendario

IL LUSSO DEL PIANTO

Che cos’hanno in comune Barack Obama, Boris Johnson, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini e l’ex material girl Madonna? Le lacrime in tasca. Il presidente Usa ha pianto un paio di volte in pubblico - ai Kennedy Center Honors - mentre ascoltava Aretha Franklin cantare A natural woman (i lucciconi però sono venuti a quasi tutti i presenti) e quando ha commemorato i bambini della scuola Sandy Hook di Newtown uccisi dalle armi da fuoco. Il sindaco di Londra era una patriottica fontana zampillante alle cerimonie di apertura e di chiusura delle Olimpiadi. Lady Pesc si è commossa per le vittime degli attentati di Bruxelles e Ms Ciccone, sul palco, per quelle di Parigi (o anche perché suo figlio Rocco non ne può più di lei). In realtà questi personaggi condividono altre caratteristiche, che a loro volta spiegano meglio questa loro “disinvolta” emotività: sono cittadini del mondo ricco, individualista, influente e democratico, hanno le spalle coperte da una relativa parità di genere (dunque di comportamenti), vivono in climi temperati, sono cresciuti in una modernità estroversa, disinibita e confortevole, non subiscono il morso dei basic needs (al massimo attraversano momenti di stress o dispiacere quotidiano) e, soprattutto, sono stati istruiti a potenziare i legami sociali, a evocare una cultura e un senso di supporto e soccorso comuni, a comunicare un’identità di gruppo e idee. Senza nulla togliere, ovviamente, a eventuali buone fedi e cuori teneri. Tali constatazioni ribaltano parecchi nostri luoghi comuni, come quello, di darwiniana memoria, secondo cui più un popolo è “primitivo”, poco influente, accogliente e “meridionale”, e meno riesce a tenere a bada i singulti e i turbamenti. A divulgarle è oggi un giovane e piacente accademico inglese, Thomas Dixon, direttore del Queen Mary Centre for the History of the Emotions di Londra, autore del bestseller Weeping Britannia: Portrait of a Nation in Tears (Oxford University Press). Chi l’avrebbe detto, un’Inghilterra frignona. E noi che la pensavamo la patria del British stiff upper lip, del contegno a tutti i costi: una presunta caratteristica nazionale che non è nient’altro che un sedimento storico, sostiene adesso il professor Dixon. Che passa poi a spiegarci altre cose interessanti. Per esempio che i nostri sentimenti, senza screditare il ruolo dei circuiti neuronali, sono prodotti squisitamente storici e culturali - altrimenti come avrebbe potuto la nostalgia evolversi da grave stato patologico a piacere morbosamente cool? - e che ogni stilla sgorga sì dalle nostre ghiandole lacrimali, ma molto di più dai nostri pensieri. Di conseguenza, va da sé che una storia delle emozioni, che guardacaso solo negli esseri umani generano il pianto, è una storia delle idee. E a questo punto arrivano le più moderne di tutte, quelle divulgate da Ad Vingerhoets, docente di scienze sociali e comportamentali dell’Università di Tilburg, in Olanda (un altro abitante del Nord, dunque): il quale ha intervistato persone provenienti da ben 37 paesi e ha concluso che i maschi - sì, i maschi - più piagnucoloni del mondo sono gli statunitensi e gli australiani. Non per niente anche il premier di questi ultimi Malcolm Turnbull si è platealmente sciolto in lacrime ascoltando una ninnananna aborigena; mentre quelli più a ciglio asciutto sono i nigeriani, i bulgari e i malesi. Ancora più clamoroso il versante femminile, comunque universalmente più pronto al pianto di quello maschile, con le svedesi a stropicciare montagne di kleenex, l’esatto contrario di quanto sono abituate a fare le ghanesi e nepalesi. Altre ricerche di Vingerhoets hanno considerato un campione di studenti: sul podio dei frignoni c’erano, dalla medaglia d’oro in giù, americani, italiani e tedeschi. Che ci sia qualcosa di vero in tutto ciò lo dimostra l’Estremo Oriente, contrada allergica all’emotività, soprattutto maschile, dove oggi pare che singulti, invito alla complicità e Pil galoppanti abbiano cominciato a camminare sugli stessi sentieri. In Cina sono appena stati picconati in diretta due tabù, l’uomo che piange e il dolore per gli eccidi della Rivoluzione Culturale, con il flautista Yang Le che racconta singhiozzando l’omicidio di suo padre, in un reality show seguitissimo. Forse ancora più complesso è commuoversi in Giappone, benché a inizio 2016 Akira Amari, il ministro delle Finanze e principale artefice dell’Abeonomics, abbia clamorosamente rassegnato dimissioni piuttosto “umide”, dopo un’accusa di corruzione. L’aveva preceduto di poco il collega Ryutaro Nonomura, figura di minor spessore politico ma ben più rumoroso nell’esternare l’umiliazione; tanto da meritarsi un giro di giostra e di sfottò su tutti i social media del pianeta. Ma gli esempi autorevoli non sono bastati. Agli apparentemente imperturbabili e sessisti giapponesi, molti dei quali hanno però fatto un recente coming out (su 405 professionisti di medio-alto livello, quasi il 25% ha confessato di chiudersi spesso nei bagni dell’ufficio a piangere in orario di lavoro), dev’essere venuto in mente che lacrimare in stile western è un’arte da imparare. Difficile ma remunerativa, connessa, ricca di valori condivisi. E così i nipponici stanno andando ai rui-katsu, eventi a pagamento, durante i quali i clienti sono accompagnati al singhiozzo colletivo tra pari, con l’aiuto di trainer ed escort. Paesi ricchi, paesi poveri, paesi che stanno diventando potenti. Che strano, torna improvvisamente attuale il vecchio adagio italico che sintetizzava l’indigenza nella definizione «Non aver neanche gli occhi per piangere». E, per dirla tutta, concludono, con parole e tempi diversi ma all’unisono, Dixon e Vingerhoets: il pianto è un bene di lusso contemporaneo, è un credibile nuovo indice di privilegio, è l’ulteriore benefit goduto dai membri delle nazioni più vivibili, comode, istruite. Non solo. Vingerhoets, che ha pure lui scritto un bel saggio per la Oxford University Press, Why only humans weep, ritiene che le lacrime oggi facciano parte delle cosiddette «ultra-social skill».

Tanto più che le emozioni capaci di scatenare un’imbarazzante ma socievole singhiozzata in pubblico (quella in privato, che i dati dicono essere più frequente dalle ore 19 alle 22, è in effetti meno consapevole e corroborante, ammette il docente olandese) dipendono più da quello che abbiamo imparato a provare (la nostra corteccia visiva primaria è specializzata nel processamento delle informazioni) che da ciò che ci sta capitando. La coppia Dixon-Vingerhoets è tra l’altro in buona compagnia accademica nella teorizzazione di quella che è stata appena definita, con un’inusuale benedizione del magazine The Economist, «la nuova socioeconomia del pianto». Gli analisti di YouGov, società londinese di sondaggi globali, hanno rilevato che (ancora!) i giovani inglesi ambosessi (18-24 anni) piangono tantissimo e spessissimo, ingolfati tra scarsa autostima e tanta ansia, fondamentalmente perché “autoprogrammati” a eccellere in uno dei sistemi più competitivi d’Europa. Del resto è inglese pure il neurologo Michael Trimble (National Hospital Queen Square, Londra), tra i primi a segnalare che ogni lacrima, oltre a essere chimicamente diversa dalle altre, è un preciso segnale di empatia tra individui. Almeno tra quelli che abitano nelle democrazie avanzate e hanno il tempo e il censo per immedesimarsi vicendevolmente - per esempio ascoltando musica, tra le attività che meglio accompagnano una fulminea capacità di comprensione “dell’altro”. «Un rapidissimo capovolgimento, in effetti. Probabilmente dovuto al cambiamento della funzione del pianto», riflette Bernardo Cattarinussi, docente di Sociologia dell’Università di Udine, studioso di emozioni e sentimenti. «Era molto cerimoniale, ora è più espressivo. In questo senso la spinta è venuta dalla società postmoderna, che è assai comunicativa». Quand’è iniziato questo processo? «Da neanche una decina d’anni. Ancora a metà degli ’80 il pianto del lutto, per fare un esempio vistoso, era qualcosa che divideva l’Occidente dal resto del mondo», risponde Cattarinussi. E a tale proposito ricorda, assai vicini nel tempo (1986 e 1989), due funerali sconvolgenti, di forte impatto simbolico: «Quello del premier svedese Olof Palme, che forse ha segnato l’inizio della fine dell’utopia scandinava, era accompagnato da una folla paralizzata da un dolore silenzioso. Quello dell’ayatollah Khomeini a Teheran è stato un’apocalisse con incidenti di piazza, lamentazioni, morti». E dunque? Parrebbe che il Mediterraneo abbia esportato con successo nelle contrade protestanti non solo la sua dieta sana, ma anche la sua emotività. O no? Cattarinussi sorride cauto, ma ammette: «Quantomeno modalità di espressione meno fredde e calcolate». A patto che non si parli delle lacrime in politica, «una scena per l’esibizione, dove si pesa ogni parola e ognuno sa di essere osservato». Accanto a tante ricerche nuove, qui il docente ricorre al capolavoro del sociologo canadese Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, in cui tutto è teatro, e attore e spettatori si osservano e si scelgono reciprocamente Nulla di male, per carità. Ma perché gli spettatori trovano più empatiche le lacrime dei leader maschi, mentre le potenti del mondo, in caso di occhi lucidi, sembrano impreparate? Testosterone contro prolattina? Abitudine a giudicare il pianto femminile manipolatorio? La risposta più militante ci arriva da una famosa giornalista Usa, Anne Kreamer, guru di femminismo e business (e comportamenti: un suo successo editoriale è stato Io non mi tingo. In difesa dei capelli grigi), ora invece ha scritto It’s always personal: navigating emotion in the new workplace. Occorre liberalizzare lo scoppio di pianto sul lavoro, dice. Per tutti, donne e uomini. Fa bene, non discrimina. Contribuisce ad abbassare il Gender Pay Gap, dal momento che i manager maschi abituati a perdere le staffe (equivalente ormonale delle lacrime piante dalle pari grado emotive) sono generalmente i più stimati e pagati, e considerati più efficienti delle executive femmine di altrettanto brutto carattere. Ma che piangano un po’ anche loro.