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 2016  aprile 29 Venerdì calendario

PADOAN VA SUL MONTE

Nel giro di poche settimane il Monte dei Paschi di Siena potrebbe fregiarsi di un nuovo primato. Oltre ad essere la banca più antica del mondo fra quelle rimaste in attività, potrebbe diventare la prima in cui lo Stato italiano tornerà ad essere il principale azionista. Tutto dipende dagli approfondimenti in corso su come pagare gli interessi dovuti sull’ultima tranche del prestito da 4 miliardi di euro che l’istituto senese aveva ottenuto dal Tesoro qualche anno fa, ai tempi del governo di Mario Monti. Il capitale è già stato rimborsato per intero ma, per chiudere il conto, resta un fardello piuttosto consistente. Quel prestito, infatti, era stato concesso a tassi d’interesse oggi fuori da ogni realtà, attorno al 9 per cento annuo. Se dovesse pagare in contanti, la banca guidata dal neo-presidente Massimo Tononi e dall’amministratore delegato Fabrizio Viola dovrebbe versare al ministro Pier Carlo Padoan una cinquantina di milioni di euro, pari agli interessi maturati nel periodo da gennaio a giugno del 2015, quando il prestito è stato estinto. L’operazione, tuttavia, prevedeva alcune condizioni che permettevano di girare al Tesoro una quota del capitale del Monte. Un’opzione che, se avranno il via libera, i manager della banca intendono certamente sfruttare. Risultato: con il nuovo pacchetto azionario che si ritroverebbe tra le mani, lo Stato aumenterebbe la propria quota di partecipazione, portandola dall’attuale 4 per cento al 7 circa, superando tutti gli azionisti privati e diventando il socio più importante.
Con le forti tensioni che si sono abbattute sul mondo del credito negli ultimi mesi, tra banche commissariate e altre alle prese con difficili piani di salvataggio, un tre per cento di capitale del Monte in più o in meno nelle mani del Tesoro potrebbe sembrare una cosa da poco. In realtà, basta tornare a pochi giorni fa per intuire la forza delle ripercussioni politiche che sono destinate ad accompagnare ogni mossa dell’istituto, una volta che verrà percepito come una banca nell’orbita del governo. Lo scorso 11 aprile la Bluebell Partners, una piccola società che da Londra fa da consulente agli investitori internazionali, ha scritto una lettera di fuoco al premier Matteo Renzi e al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Tre giorni dopo, a Siena, si sarebbe tenuta l’assemblea dei soci del Monte e la Bluebell ha voluto mettere nel mirino l’operato di Viola, arrivato al vertice della banca nel 2012 per porre rimedio ai disastri compiuti dai precedenti amministratori.
Nella lettera Giuseppe Bivona, uno dei due fondatori italiani della Bluebell, è partito dalla delicata vicenda della struttura finanziaria nota come Alexandria, sottoscritta dal Monte con la banca d’affari giapponese Nomura nel 2009, ai tempi della gestione di Giuseppe Mussari. Quando Mussari viene costretto a lasciare la banca e a Siena inizia a lavorare Viola, affiancato nel ruolo di presidente da un banchiere di fama come Francesco Profumo, sulla natura di Alexandria si apre presto un dibattito. Il prodotto viene infatti accusato di essere stato utilizzato per mascherare delle perdite di bilancio ma, nella sua contabilizzazione, Profumo e Viola decidono di seguire una strada più favorevole ai conti del gruppo. La questione tecnica è un po’ complessa ma, semplificando al massimo, si può dire che Alexandria viene trattato come se fosse un più sicuro pacchetto di titoli di Stato, invece che un prodotto derivato.
Lo scorso autunno, però, il Monte deve prendere atto che nelle indagini condotte dalla procura di Milano su Alexandria, emergono fatti che, al di là di ogni dubbio, fanno considerare Alexandria un derivato. I magistrati chiedono il rinvio a giudizio di Mussari e altri dirigenti per falso in bilancio. E il Monte, il 16 dicembre, è costretto a correggere tutti gli ultimi bilanci, anche quelli firmati dai nuovi amministratori. Qui scoppia il putiferio: nel fiume di documentazione prodotta dal Monte e dalle autorità di vigilanza su Alexandria c’erano numerosi elementi che già da tempo potevano far giungere alla stessa conclusione, anche se Viola ha sempre opposto il fatto che la sua impostazione era avvalorata da una relazione della Consob. Il cui parere è cambiato solo dopo la conclusione delle indagini da parte della procura di Milano, come afferma con grande attenzione nella scelta dei vocaboli una nota del Monte, diffusa lo scorso 16 dicembre: «Consob è stata in grado di superare i profili d’incertezza interpretativa connessi alla rilevazione contabile dell’operazione Alexandria solo alla luce dei nuovi elementi informativi acquisiti per il tramite della procura di Milano nel corso del 2015».
A queste argomentazioni, tuttavia, nella lettera scritta a Renzi e Padoan l’11 aprile, Bluebell non ha dato alcun credito, sostenendo che tutti gli ultimi bilanci della banca sono falsi e domandando che nell’assemblea tenuta il 14 aprile il governo-azionista intervenisse per chiedere le dimissioni di Viola e un’azione di responsabilità nei suoi confronti e dell’ex presidente Profumo, sostituito nel frattempo da Tononi. Ed è qui che la situazione si fa, dal punto di vista politico, estremamente delicata. I verbali dell’assemblea non sono ancora disponibili. Di fatto, però, dall’analisi dei dati delle votazioni si può dedurre che il Tesoro non solo ha approvato tutti i punti all’ordine del giorno (tra cui il bilancio 2015 e la relazione sulla retribuzione degli amministratori) ma ha, pure, bocciato l’azione di responsabilità nei confronti di Viola e Profumo proposta da Bivona (bocciata dai titolati del 99,9 per cento dei titoli depositati). Una scelta interventista che si scontra con quella fatta alla fine della scorsa estate, quando il Tesoro decise di non votare nell’assemblea che portò alla nomina del nuovo presidente Tononi. E che ora, Bluebell potrebbe rinfacciare al governo, come Bivona sembrava preannunciare fin dal sua lettera: «A mio parere sarebbe un gravissimo errore politico e un pessimo segnale per il mercato in una fase certamente delicata per il nostro sistema bancario».
È con queste premesse, dunque, che il Monte dei Paschi si avvicina al momento in cui il suo maggiore azionista potrebbe diventare lo Stato, un fatto che già di per sé basterebbe per scatenare polemiche infinite tra i partiti. Al di là dello scontro con Bluebell, per la banca non sono stati certamente momenti facili. Se lo si guarda dall’esterno, il Monte non è che un lontano parente del colosso che dominava l’economia e la politica senese, grazie all’intreccio di interessi coagulati attorno all’ex azionista forte, la Fondazione Mps. Oggi la Fondazione ha una quota azionaria ormai ridotta all’1,5 per cento, quasi ininfluente, mentre la banca stessa è diventata molto più piccola. Le risorse raccolte dalla clientela sotto forma di depositi, obbligazioni, pronti contro termine, sono scese dai 146 miliardi di euro del 2011 ai 119 miliardi del 2015 (vedi figura qui sotto). Nello stesso periodo di tempo, i prestiti alla clientela - i cosiddetti impieghi, o crediti - sono diminuiti in misura ancora più consistente, passando da 146 a 111 miliardi di euro: un taglio voluto e controllato, si è detto, proprio per ridurre i rischi a cui la banca era esposta. Negli anni passati al vertice, poi, Viola ha profondamente riorganizzato la struttura. Il numero di dipendenti è diminuito di quasi seimila unità, scendendo a 32 mila circa. Il numero degli sportelli è stato ridotto di un terzo, passando da tremila a duemila, e altri trecento dovrebbero chiudere nei prossimi tre anni. La banca ha effettuato due aumenti di capitale, nel 2014 e nel 2015, raccogliendo circa 8 miliardi di euro ma ritrovandosi, oggi, con una capitalizzazione di Borsa molto compressa, che viaggia poco sopra i due miliardi di euro. Per la reputazione dell’istituto ci sono stati diversi giorni bui, a cominciare da quando nel 2014 la Banca centrale europea ha bocciato i conti e chiesto un maxi aumento di capitale, condotto con successo l’anno successivo. Una fase particolarmente delicata è stata poi nel gennaio scorso, quando il sistema creditizio - complice il fallimento dei quattro istituti del centro Italia e l’entrata in vigore delle procedure europee per i salvataggi bancari - si è ritrovato nell’occhio del ciclone. A un certo punto qualcuno ha anche paventato il rischio di una corsa agli sportelli da parte dei clienti per ritirare i risparmi.
Ha raccontato lo stesso Viola, in un’intervista pubblicata il 29 gennaio: «Il nostro livello di liquidità ci ha permesso di gestire qualche caso in cui la preoccupazione dei clienti si è trasformata in richieste di trasferimento di fondi. Dopo una fase di accentuazione del fenomeno, vista la settimana scorsa, c’è stata via via una riduzione significativa degli effetti. Penso che con la diffusione dei dati (cioè del bilancio 2015, ndr), i nostri uomini in filiale abbiano gli elementi per gestire al meglio la situazione e riportare a casa nuova raccolta, come abbiamo dimostrato di sapere fare nelle crisi precedenti». Proprio la presentazione del bilancio 2015, avvenuta una settimana prima del previsto, sembra aver arrestato anche la caduta del titolo in Borsa, grazie al miglioramento dei risultati operativi e ai livelli di liquidità dichiarati dall’istituto, superiori a quelli richiesti dalla vigilanza. L’attesa è ora per il prossimo 5 maggio, quando si vedrà se i segnali di miglioramento dell’attività bancaria troveranno conferma nei risultati relativi al primo trimestre del 2016.
Il nodo, tuttavia, è quello delle prospettive che ora il management dovrà dare al gruppo. Si era molto parlato, nei mesi scorsi, di un possibile matrimonio a tre con la banca bresciana Ubi e con la Popolare di Milano (Bpm). Poi, però, quest’ultima si è sfilata, unendosi invece al veronese Banco Popolare. Sul naufragio del progetto, che era stato al centro di diversi incontri informali tra le parti e a livello governativo, sono circolate molte indiscrezioni. Si racconta che abbiano provato a mettersi in mezzo in tanti, dal sindaco ex leghista di Verona, Flavio Tosi, al vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerrini, per arrivare al numero uno di Mediobanca, Alberto Nagel, tutti pronti a tifare per le nozze Bpm-Banco Popolare. Un’altra idea che circola è quella di un possibile spezzatino, suddividendo il gruppo tra gli eventuali compratori interessati solo a una delle aree geografiche dove Mps è più presente, dalla Toscana al Veneto. Anche qui, però, i contrari sarebbero molti, compreso il governo, che teme ulteriori tagli occupazionali a Siena. Senza contare il fatto che questa soluzione non risolverebbe il problema principale del Monte, quello delle sofferenze, come vengono chiamati i prestiti che i clienti non restituiscono più.
È proprio su questo fronte che, nelle ultime settimane, si è vista la novità più interessante. In Borsa infatti, nell’ultimo mese il titolo Mps ha recuperato una piccola parte del terreno perduto, risalendo del 20 per cento circa. Nessuno parla di svolta ma resta il fatto che la "ripresina" si è consolidata dopo l’annuncio della nascita del fondo Atlante, che le banche hanno finanziato per fare da paracadute agli istituti a corto di capitali. Per Mps non si parla di un ingresso tra i soci ma della possibilità che Atlante compri una parte delle sofferenze a prezzi meno stracciati di quelli che sono disposti a pagare i fondi specializzati. Certamente Atlante, da solo, non basta per risolvere i problemi del Monte. Al momento, però, non ci sono grandissimi dubbi: prima che i contatti fra la banca e il fondo diano qualche risultato, grandi margini di manovra per fare altro non sembrerebbero esserci. Anche per il governo, nuovo socio forte.