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 2016  aprile 29 Venerdì calendario

COSA SUCCEDE IN AMERICA

Alla base di questo peculiarissimo anno elettorale statunitense c’è un grande risveglio. Per usare le parole di Bernie Sanders, gli americani di ogni corrente politica stanno respingendo trasversalmente «la politica e l’economia dell’establishment». La stragrande maggioranza ha compreso che la loro nazione – la prima nella storia a raggiungere una maggioranza della classe media dopo la Seconda guerra mondiale – ha ora perso quella stessa maggioranza. La gente si è resa conto che le regole economiche del gioco sono cambiate, e che tutto il reddito e la ricchezza prodotti negli ultimi 30 anni, dal 2008 sono finiti nelle tasche del cinque per cento più abbiente. E in particolare, dai Duemila in avanti, dell’uno per cento più facoltoso. Insomma: si è capito che è la ricchezza a controllare la maggior parte dei politici che stabiliscono le regole del gioco.
Non sempre, però, il risveglio produce chiarezza. Donald Trump, ad esempio, ha risvegliato ogni impulso razzista, xenofobo e sessista tra i suoi sostenitori – principalmente uomini bianchi appartenenti alla classe dei lavoratori – incoraggiandoli a incolpare persone che hanno ancora meno ricchezza e potere di loro del peggioramento delle prospettive di vita. Sono argomenti che i Repubblicani cavalcano da tempo, sebbene in modo più blando. Trump, da parte sua, ha rotto anche con l’ortodossia repubblicana. Per la gioia dei suoi sostenitori, inveisce contro la delocalizzazione in Paesi dove la manodopera è più economica, si oppone al taglio delle indennità di prepensionamento e respinge gli interventi militari che George W. Bush ha così ampiamente screditato.

Se Trump ha sconcertato gli osservatori politici e una buona maggioranza del popolo americano, Sanders li ha sorpresi. L’unica nazione del mondo industrializzato a non aver mai sviluppato un vero movimento socialista ha visto il senatore del Vermont – un dichiarato socialista democratico – tallonare l’ex segretario di Stato Hillary Clinton. Dato ancora più stupefacente: dalle votazioni emerge che ora oltre un terzo dei Democratici si autodefinisce «socialista», il che significa che vorrebbe che la sua nazione adottasse le politiche di benessere sociale tipiche dei Paesi nordeuropei. I sostenitori di Clinton, alla pari di quelli di Sanders, osteggiano il capitalismo finanziario che ha trasformato l’economia negli ultimi 35 anni.
Riassumendo, a parte i sempre più esigui e sconcertati difensori dell’ortodossia repubblicana, gli americani stanno rigettando la politica e l’economia dell’era reaganiana. E a ragione, dato che il reaganismo è costato all’America la sua prosperità di massa... Così come gli europei occidentali ripensano con nostalgia alla spettacolare crescita economica dei 30 anni successivi alla Seconda guerra mondiale – «Les trente glorieuses» come li chiamano i francesi – gli americani guardano all’ineguagliabile prosperità economica che hanno vissuto dal 1945 fino alla fine dei Settanta. Le politiche del New Deal ideate da Franklin Roosevelt hanno apportato sicurezza e reddito senza precedenti alla maggior parte degli americani. I sindacati, sostenuti dal New Deal, hanno raggiunto il culmine negli anni Cinquanta, quando potevano vantare al loro attivo più di un terzo della forza lavoro e grazie a loro i lavoratori hanno ottenuto aumenti di stipendio, copertura sanitaria e prestazioni previdenziali precedentemente impensabili. Un regime fiscale fortemente progressivo ha fornito ai governi i fondi per costruire scuole, università e infrastrutture. Le norme previste nel New Deal hanno limitato le speculazioni bancarie, aprendo la strada a un cinquantennio esente da crisi finanziarie.
Questo stato di cose ha cominciato a cambiare durante la presidenza di Ronald Reagan. Negli anni Settanta la concorrenza estera dell’Europa e del Giappone ha cominciato a erodere i margini di profitto delle principali società americane. Capi d’azienda, responsabili finanziari e importanti investitori cercavano di tenere alti i margini, fagocitandosi la fetta più grande della ricchezza nazionale a spese della maggior parte dei compatrioti. È proprio questa l’essenza del reaganismo.

Poco dopo l’elezione di Reagan nel 1981, il sindacato dei controllori del traffico aereo – uno dei pochi ad aver sostenuto Reagan nelle elezioni – scioperò. Reagan bloccò lo sciopero licenziandone i fautori e rimpiazzandoli con personale militare. Questa mossa diede un segnale forte ai principali attori dell’economia americana, che pur non approvando l’idea stessa dell’esistenza dei sindacati temevano di essere esposti alla censura pubblica se avessero agito contro gli operai. Reagan dissipò questa paura. Nel giro di un anno le grosse aziende cominciarono a istigare i loro operai a scioperare, così da poterli licenziare. Gli scioperi – che erano diventati il modo consueto per ottenere aumenti di stipendio – divennero un ricordo del passato, così come gli aumenti salariali. Mentre aumentavano i lavoratori che venivano licenziati per aver cercato di formare nuovi sindacati, il tasso di sindacalizzazione nel settore privato scese sotto il sette per cento della forza lavoro.
La battaglia contro i sindacati è stata solo un aspetto del reaganismo. L’altro era la forte riduzione delle tasse per i più abbienti, che provocò un «sottofinanziamento» cronico dei programmi governativi. Così, mentre le politiche antitasse del partito repubblicano divennero un dogma, le strade, i ponti, le ferrovie, gli aeroporti, le reti di distribuzione idrica e i servizi pubblici americani caddero in uno stato di semi-decrepitudine. Reagan ripeteva che il Governo era il nemico di prosperità e libertà, quindi i tagli al settore pubblico avrebbero svincolato le risorse necessarie alle imprese per creare un mondo migliore.
Ma le imprese non hanno fatto nulla di tutto ciò. I «regolatori» di Reagan deregolamentarono la finanza, che trasformò il tranquillo settore bancario americano in un colosso cresciuto sulla speculazione, che – in assenza di qualsiasi controllo governativo – arrivò quasi a distruggere l’economia mondiale nel 2008. Le banche incoraggiavano le aziende e i consumatori a contrarre debiti per ogni investimento. Mentre i loro redditi languivano, gli americani si vedevano costretti a indebitarsi sempre più per pagare i costi sanitari e scolastici ormai fuori controllo. Tutto questo debito non ha fatto altro che ingrassare ulteriormente le banche.

Gli istituti di credito e gli investitori facevano il bello e il cattivo tempo con le società più importanti, spingendole a chiudere gli stabilimenti negli Usa, dove i costi per il personale erano elevati, e trasferirsi in Paesi dove la manodopera era meno cara. Le finanze vacillavano, mentre l’industria manifatturiera era in crisi. Il Midwest industriale si trasformò in una regione di fabbriche fatiscenti e operai destituiti, obbligati a cercare lavoro in grandi magazzini dagli stipendi infimi come WalMart.
L’ultimo ingrediente della politica interna di Reagan lo ritroviamo in Trump. I Repubblicani dell’epoca non si stancavano di proclamare che erano le minoranze razziali a prosciugare le casse dello stato, causando i mali economici della classe lavoratrice bianca. Reagan condiva i suoi comizi con racconti di una «regina del welfare» apocrifa, una nera che usava i sussidi pubblici per acquistare beni di lusso. Quando il vicepresidente dell’amministrazione Reagan, George H.W. Bush, si candidò per la presidenza nel 1988, il suo più famoso spot televisivo mostrava un criminale nero scarcerato dall’avversario democratico che commetteva un nuovo omicidio.
Oggi la demonizzazione delle minoranze, iniziata a livello presidenziale con Richard Nixon e fortemente accelerata da Reagan, ha raggiunto un crescendo di violenza nella campagna di Trump. Ma sebbene questo aspetto del reaganismo abbia raggiunto proporzioni quasi grottesche, gli americani hanno gettato le teorie economiche di Reagan nel cestino della spazzatura della storia. I Democratici acclamano un ritorno alla regolamentazione del New Deal, la riaffermazione dei diritti dei lavoratori e il contenimento di Wall Street, il che spiega il successo di Sanders. Inoltre c’è un sostanzioso numero di Repubblicani che, se da un lato si crogiolano nell’odio razziale, dall’altro rifiutano la panacea del liberismo. Il che vale a dire che l’era di Reagan si sta finalmente avviando verso una morte ingloriosa.

Harold Meyerson è direttore esecutivo di The American Prospect, una rivista liberale di Washington, ed è stato per 14 anni editorialista di The Washington Post.