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 2016  aprile 27 Mercoledì calendario

TONY E FULMINI– [Tony Cairoli] Il cielo è bianco e nel piazzale della metropolitana, fermata Anagnina, le bancarelle sono colorate e così la pelle di chi vi sta dietro a tentare la vendita, lo sguardo annoiato e forse rassegnato

TONY E FULMINI– [Tony Cairoli] Il cielo è bianco e nel piazzale della metropolitana, fermata Anagnina, le bancarelle sono colorate e così la pelle di chi vi sta dietro a tentare la vendita, lo sguardo annoiato e forse rassegnato. Il traffico sulla Tuscolana si avvia al picco dell’ora di punta e già le macchine stanno incolonnate le une dietro le altre. Sullo sfondo uno dei moderni monumenti di Roma, il Grande Raccordo Anulare, e a un centinaio di metri lo studio fotografico dove scenderà uno dei più grandi piloti italiani di motociclismo di tutti i tempi. Di più: una superstar dei motori, il più vincente pilota della sua epoca. Un cannibale. Macché Rossi, Márquez, Vettel. Battuti per distacco. Solo il rallysta Loeb lo avvicina, con una vittoria ogni due gare e lo stesso, incredibile numero di titoli iridati vinti negli ultimi dieci anni: sette. È il re del motocross. È Tony Cairoli. Strano attenderlo qui, in questo luogo che sta a metà tra Pasolini e Los Angeles, uno di quegli spicchi di mondo che hanno ancora un odore oltre quello dello smog e uno squallore che, per un meccanismo un po’ crudele, incuriosisce star System e photo editor. Eppure no, non è strano affatto, perché Cairoli è il campione di queste istantanee di vita ai margini, di luoghi come questo che sono simili a quello da cui è venuto lui: Patti, un paesino della Sicilia dove a dire moto si pensava alla Vespa, dove non c’erano vere piste dove correre, ma solo i sogni di un bambino che a quattro anni s’è innamorato della moto, c’è salito sopra per non scendere più, per vincere otto mondiali di cui sei consecutivi nella classe regina – 2009-2014 –, diventando il più grande fenomeno del suo tempo, e aspirando, legittimamente, al titolo di più grande di tutti i tempi, dato che al traguardo di Stefan Everts, dieci titoli, manca poco, quasi nulla. Tuttavia, con quel cinismo insopportabile che distingue gli addetti ai lavori di tutti i lavori, qualcuno, nell’ambiente, sottovoce avanza dei dubbi su Tony. È bastato un passo falso, l’anno scorso, una stagione buttata via per un brutto incidente, e poi una serie di infortuni recenti, a far nascere il sospetto che il suo fisico stia mostrando i limiti. Il motocross è uno sport devastante, in cui i piloti si allenano tantissimo in moto, su piste che sottopongono muscoli e tendini a stress senza pari, nel mondo dello sport. E Tony non ha più vent’anni, anzi lo scorso 23 settembre ne ha compiuti trenta, un’età che fa di un uomo, un uomo maturo, ma di un pilota, spesso un pilota vecchio. Inoltre, oggi Tony è solo. Non c’è più mamma Paola, scomparsa nel 2011, e neppure papà Benedetto, che se n’è andato nel 2014. Rimane Jill, la sua bellissima fidanzata olandese, ormai parte della sua vita. Che i malpensanti abbiano ragione? Che Tony sia davvero a un bivio: da un lato la grandezza estrema, dall’altro la fine del sogno? Il rumore di un motore pieno di cavalli interrompe il ragionamento. È un’auto nera e piccola, anonima fuori. Mancano cinque minuti all’appuntamento. Non è ancora arrivato neppure il suo addetto stampa, Lorenzo. Dall’auto scende prima Jill, Tony parcheggia e scende anche lui. «Ciao, Tony» dice presentandosi come se fosse uno qualunque. Un sorriso genuino, affatto piacione. È questo che la gente ama di lui, ancor più delle vittorie: il fatto che sia sé stesso. Com’era Simoncelli, come sono stati tutti i più grandi. Cairoli è un tipo semplice, modesto, non s’è montato la testa. Arriva agli appuntamenti in anticipo, non cerca di piacere: vuole stupire solo in pista. Se deve dare un consiglio ai giovani, parla di sacrificio «perché non esistono scorciatoie per fare meno fatica». È venuto dal niente e ce l’ha fatta, ma non lo fa pesare. Un esempio. E non ce ne sono tanti, nel motociclismo, per non parlare degli altri sport, dove i soldi vengono sperperati nei più inutili dei modi, relegando i campioni a un’immagine di successo, non di bravura, com’era un tempo, dove s’ammiravano le capacità prima dei guadagni. Dentro lo studio lo attendono, con Jill, per il servizio fotografico. Jill ha accettato di posare con lui nel remake di una famosa foto di James Hunt, in cui una modella si esibiva in una posa sexy accanto al pilota sciupafemmine per antonomasia. Un gesto di grande intelligenza e garbo, da parte sua, come a sottolineare di essere uniti sempre. Dopo il rito della preparazione – Tony a torso nudo: i suoi muscoli normali, poco vistosi – i flash cominciano a scattare. La mano di Jill sul petto di lui, lo sguardo di Tony nell’obiettivo, imperscrutabile. Si avverte una tensione tra loro, qualcosa che comunica il reciproco desiderio. Tony fissa l’obiettivo, immobile, distante, irraggiungibile. E la sua bellezza, ora, è lampante. La sua bellezza, sì. Il naso grosso, il sorriso eccessivo, la dentatura importante, la testa vasta, stempiata. Bello della bellezza più vera, che è quella della bravura, dell’autenticità: il vero fascino. Cairoli è il nostro Lionel Messi, il nostro Maradona, il nostro Alain Prost. È l’anatroccolo che in sella diventa cigno. Come Coppi, sgraziato nella camminata, ma divino sulla bici. Ma se ti fermi ai volti da copertina, se rimani ammaliato da gente come Guy Martin o altri campioni di social network, non puoi capire. Durante una pausa per il cambio d’abito di Jill, Tony si siede su un divanetto e si apre, partendo proprio dalla défaillance del 2015. «Quest’anno sarà una rivincita», dice. «L’anno scorso, per colpa mia, per l’incidente che ho avuto, ho buttato la stagione, ora voglio rifarmi. L’obiettivo è il titolo. Ho avuto un piccolo infortunio, in prova, le prime gare non sarò al top, imposterò un campionato sulla distanza, cominciando più regolare che aggressivo. Ma non sarà un problema». Di un pugile si dice che diventa completo solo dopo la prima sconfitta. È lo stesso per i piloti? «Non lo so. Direi di no. Però è esperienza e ti fa crescere, serve per vedere a che punto stai con la preparazione». Vincere è difficile, ma anche perdere. Anzi, forse lo è di più. «Accettare la sconfitta è molto difficile. Quando si perde ad armi pari è difficile, quando è per infortunio è ancora più duro. C’è un rimpianto perché non hai potuto lottare. Cominci a chiederti: se non fossi caduto? Ma fa parte anche quello delle corse, del nostro sport». È rabbia? «Sì, perché la mentalità di un pilota è quella di vincere e se scende in gara con un handicap fisico, perché sta male, se c’è qualcosa che lo frena, perché non riesce a fare quello che gli dice la testa, ci si innervosisce». Hai compiuto 30 anni. Cosa è cambiato in te? «La voglia di andare in moto è la stessa di un tempo. Ovviamente i tempi di recupero oggi sono diversi da quando avevo 18 anni, quindi cambia l’impostazione dell’allenamento, sono più metodico di prima. La mentalità però è sempre la stessa». Che differenza c’è tra il Tony Cairoli di adesso e quello di 10 anni fa? «Ho molta più esperienza e quindi rischio meno. L’esperienza mi consente di gestire meglio la gara rispetto a prima. Certo, gli azzardi di quando avevo 18 anni oggi cerco di non farli più. Quando hai 18 anni guidi in modo più istintivo, e questo è meglio, in certe occasioni». I campioni degli sport motoristici si comportano spesso come bambini viziati. Guarda la MotoGP, la Formula 1. Tu invece hai fatto della modestia la tua cifra. Otto volte campione e non te la tiri affatto. «In pista puoi essere un grande, ma fuori sei come gli altri, non sei diverso solo perché sai correre più forte. Io la penso così. Altri colleghi di altre discipline forse si sentono qualcosa in più rispetto agli altri anche fuori della pista. Cerco sempre di rimanere con i piedi per terra. È anche una cosa che il nostro sport richiede, perché montandosi la testa è facile perdere la concentrazione e cadere. Credo sia la chiave del successo a lungo termine, l’umiltà. Tanti piloti vincono uno o due anni, poi cadono in picchiata. Anche tanti giovani che vedo, purtroppo, soprattutto in Italia: fanno risultati, ma poi fanno anche un po’ le star. È il problema delle nuove generazioni». Un campione dello sport deve essere d’esempio per il pubblico, per la gente? Oppure sono due cose distinte, il campione e l’uomo? «Secondo me dipende dal personaggio. Per quanto mi riguarda, sono una persona abbastanza umile, sono nato in una famiglia che non aveva soldi, quindi ho dovuto guadagnarmi tutto. So come funziona la vita quando non hai denaro, quando hai difficoltà a tirare la fine del mese. Mi sento una persona fortunata, perché con il mio sport sono riuscito ad arrivare dove sono arrivato, faccio quello che mi piace e guadagno pure, ma ho profondo rispetto per chi è costretto a fare un lavoro che non gli piace». Però nel modo di porsi, di essere, un campione è sempre un esempio, buono o cattivo, a seconda dei casi. I giovani seguono voi campioni, vi emulano. «Un campione dovrebbe essere un esempio positivo, ma in Italia siamo abituati un po’ male, specialmente col calcio. Spesso i calciatori non danno il buon esempio. Molti di loro, almeno». È quasi una responsabilità, essere un campione. «Sì, perché sei in tv, la gente copia quello che fai, i ragazzini ti vedono... Quando sei in vista bisogna dare il buon esempio, sicuramente ai giovani». Qualche anno fa, in un’intervista, hai detto una cosa sorprendente per un pilota: è stupido spendere soldi in macchinoni. Sono soldi buttati, hai detto precisamente. «È così. Bisogna passarsi qualche sfizio, perché si fanno comunque tanti sacrifici, però ci sono tanti modi migliori di investire i soldi, che buttarli in giro così, sperperarli nel modo più sbagliato. Poi noi nel motocross non abbiamo gli stipendi che hanno in MotoGP o anche i calciatori italiani di Serie B, non è che abbiamo la possibilità di sperperare più di tanto. È anche una cosa che rode dentro, questa, perché noi crossisti non ci facciamo il mazzo grosso ogni giorno, ma ancora di più. Rischiamo la vita ogni giorno, perché andiamo ogni giorno in moto. Quelli della MotoGP non lo fanno, hanno test programmati e poi fanno solo le gare. Noi dobbiamo per forza allenarci in moto tutti i giorni, e tutti i giorni uno si diverte, ma rischia anche la vita, perché è uno sport molto difficile. Questo un po’ dà fastidio, soprattutto in Italia, dove il motocross non riesce a decollare». Il motocross è una disciplina così bella ma così difficile, così pericolosa. Nei salti, voi volate alti, ma se sbagliate e cadete male morite, o vi fate comunque molto male. «Sì. È uno sport difficile, che richiede concentrazione e allenamento, perché più allenato sei, più riesci a stare concentrato, a sbagliare meno. È uno sport che richiede tanta attenzione». Perché è così bello? Perché ti piace tanto? «Perché chiunque può praticarlo a livello professionistico, anche uno che alla mattina si sveglia e decide di fare il mondiale. Vai dal concessionario, compri la moto e l’abbigliamento e puoi correre senza nessun problema. Se hai le doti puoi anche fare bene. Non dico arrivare primo secondo o terzo, per quello ci vuole qualcosa in più, ma finire nei primi dieci del mondiale lo puoi fare tranquillamente. La moto del concessionario è già competitiva, le gomme che compri dal gommista vicino a casa sono competitive. Il casco è lo stesso che uso io. Nel motocross tutto è alla portata di tutti. Questa è la parte straordinaria di uno sport dove la persona fa molto di più del mezzo. In tutti gli altri sport motoristici è vero il contrario. Dalle auto alle moto di velocità, il mezzo, le gomme, il setting contano tantissimo e se non hai soldi non puoi fare bene». E per quanto riguarda la guida, qual è la bellezza del cross? «La partenza, dove si parte tutti sulla stessa linea, a differenza degli altri sport. Arriviamo alla prima curva in quaranta. L’adrenalina che ti dà tutto questo è incredibile. Poi i salti, la pista che cambia giro dopo giro. È una disciplina molto varia». La guida nel motocross è fatta di talento, applicazione o istinto? «Il talento serve, grazie a lui riesci a sopperire anche a un allenamento un po’ più scarso. Uno che ha talento può andare forte come chi si allena il doppio. È fondamentale, se si vuole emergere, ma anche la costanza nell’allenamento lo è». Usi spesso la parola talento. «È una parola che mi piace. Io non ho mai avuto un istruttore, qualcuno che mi insegnasse il motocross. Ho fatto sempre di testa mia, finché sono arrivato al mondiale nessuno mi ha dato consigli. Il talento è fondamentale, nel mio caso. Altri piloti, meno talentuosi, devono allenarsi di più per arrivare dove sono io o altri». Se ripensi al Tony di cinque anni che scorrazzava sulla motoretta in Sicilia, quella da cui tuo padre diceva «Non scendeva mai, non scendeva mai», cosa ti viene in mente? (sorride, ndr) «Sono felice, perché ero felice in quel periodo. Stavo sempre in moto, dalla mattina alla sera. Da quando avevo quattro anni fino ai dodici o tredici, penso che non ci sia stato un giorno nel quale io non sia salito in sella. Lo facevo anche quando ero malato. Con la febbre, con la pioggia: ero sempre in moto. Quei primi anni in moto sono sicuramente qualcosa che mi è rimasto impresso». Perché il motocross è pericoloso? «È pericoloso come altri sport motoristici dove ci sono velocità e contatto. Se si è allenati è pericoloso. Ma se non si è allenati, allora diventa molto pericoloso. A livello amatoriale c’è sempre qualcuno che vuole strafare e si rischia spesso il dramma. Quando si è stanchi i tempi di reazione non sono quelli di quando si è freschi, e le cadute avvengono sempre quando si è in apnea col cervello. L’allenamento è fondamentale. Per stare lontani dagli infortuni bisogna cercare di allenarsi bene, aumentando il ritmo gradualmente». È curioso che molti piloti della MotoGP come Rossi e Márquez, spesso si fanno male alla guida di una moto con i tasselli. «Non è il loro sport. Per noi è più facile. È più facile per noi andare sull’asfalto che per loro andare sulla terra. Ma so che a molti di loro piace più il cross dell’asfalto. Con tanti di loro ho cominciato a fare i campionati italiani di minicross, molti correvano con me all’inizio». Ti sei fatto male, molto, una prima volta nel 2008 e poi l’anno scorso. Pensi mai alla possibilità di farti male sul serio? «È una paura che c’è sempre, fin da bambini. Ma dura solo finché dura il dolore, appena passa non ci pensi più e non vedi l’ora di tornare in sella». Tu sorridi sempre. «Sì». Sei anche un duro, in pista. Vedendoti correre si direbbe che tu sia pieno di cattiveria. Ci vuole cattiveria, per vincere? «È fondamentale. Nel motocross l’infortunio, anche piccolo, è sempre dietro l’angolo, quindi alla fine devi imparare a convivere col dolore. Lo impari fin da piccolo, dalle prime volte che cadi. Adesso, per esempio, ho due costole incrinate e una rotta, e poi ho uno stiramento del nervo cervicale, che mi dà addirittura più problemi delle costole. Nel cross, se hai un dolorino lo senti, perché è uno sport che coinvolge tutti i muscoli. Convivere col dolore ti fortifica. E ti rende un po’ cattivo, sì». Spiega cosa intendi per cattivo. «Ci sono dei piloti mediocri che stanno a metà classifica. Ce ne sono altri che vogliono arrivare sul podio, vincere, e vogliono sempre migliorare per riuscirci. Questi piloti sono quelli che io dico che hanno cattiveria dentro, cioè la voglia di riuscire. Se sei troppo buono, nel cross non funzioni. L’ambizione di essere il migliore del mondo la covi da quando sei piccolo e giri con le minimoto intorno a casa». Che animale si avvicina di più, a un campione di motocross? «Un leopardo (sorride, ndr). Come velocità, come potenza esplosiva, come agilità. Un felino. Non un leone, che è un po’ troppo grosso, goffo in certi momenti. Un leopardo, sì. Cattivo quanto serve». La fotografa è già un paio di minuti che si è avvicinata, reclama Tony per concludere la galleria dei ritratti. Jill, consultato freneticamente il telefono, ora osserva Tony mettersi in posa. Cosa significa stare con un pilota così famoso? «Non ci penso» risponde lei in inglese. «Sono la ragazza di Tony, non di Antonio Cairoli. Non avrei vita, altrimenti. Ormai sono nove anni che stiamo assieme. Siamo diventati grandi lentamente. Non sono finita all’improvviso nella vita di un campione. Siamo stati amici a lungo, prima. Mio papà e mia mamma mi dicevano: “Non metterti con un pilota di motocross”. Siamo stati amici per un bel po’, volevo capire piano piano (in italiano, ndr) quali fossero le sue intenzioni. Poi ci siamo fidanzati, perché eravamo innamorati, o almeno, io ero già innamorata. Sono olandese, con me niente avviene per caso, ragiono molto sulle cose. In Olanda è così. Prima di fidanzarmi con Tony ho dovuto capire quali fossero le sue vere intenzioni. Sai, lui era italiano e io molto bionda, allora... per fortuna le sue intenzioni erano buone». Avrete una vita piena, c’è da supporre? «Non ci annoiamo mai. O viaggiamo o facciamo cose. All’inizio ho dovuto abituarmi, perché io sono una che pianifica molto, lui invece dice sempre “vediamo” (in italiano, ndr). Fa le cose perché in quel momento vuole farle. Io invece vorrei sempre sapere che cosa sta succedendo, che cosa dobbiamo fare. La sua attitudine è questa: lui è sempre contento, solare. È un tipo easy, che trascina tutti con il suo entusiasmo, sa creare la giusta atmosfera». Cosa provi durante le corse? «Sono molto nervosa, ma cerco di non mostrarlo, perché so che la gente mi guarda. Cerco di sorridere. Sorrido sempre, e più le cose in pista sono difficili, più sorrido. Magari dentro sono preoccupata, sto male, ma non lo do a vedere. E quando passa davanti ai box o vince, non urlo mai. Mi limito agli applausi. Penso che le fidanzate dei piloti non debbano esagerare in queste cose». Hai qualche paura legata al mestiere di pilota di Tony? «Sono fortunata perché lui non rischia mai più del dovuto. È così bravo che non ne ha la necessità. Sa sempre quello che fa. So che ciò che lui decide è la cosa migliore e lo seguo ciecamente. Sono tranquilla (in italiano, ndr) con lui». Ha compiuto 30 anni, è diventato maturo. Com’è cambiato? «Era maturo già a 15: viveva già da solo, correva. Non penso che sia cambiato davvero, in questo senso. Ora è più organizzato, ma questo è merito mio perché io sono organizzatissima e lui è stato costretto a diventarlo. Così come io sono diventata un po’ più positiva di prima, perché noi olandesi siamo inclini alla tristezza a causa del clima, del cibo, lui invece è siciliano vero (in italiano, ndr) ed è sempre su col morale. È diventato anche più attento al business, al lato commerciale delle corse. Lui non ci penserebbe mai, corre ed è felice, ha cibo per mangiare e il sole splende. Non dà valore alle cose materiali. Questo suo aspetto è molto bello». Quanto è felice Tony sulla moto? «Quando l’anno scorso si è fatto male, ho visto quanto la moto gli mancasse: è diventato triste, perché non poteva salirci e correre. Ho capito quanto la moto gli piaccia davvero». Puoi immaginarlo fuori dalle corse? «Nelle corse di moto sì, ma nelle corse in generale no. L’hai visto al rally di Monza, no? Per lui le corse non sono un lavoro (in italiano, ndr), sono la sua felicità». Tony ha finito con le foto, e s’è messo ad ascoltare. Jill: «Tony, se smetti con le moto, smetti di correre?». Lui, categorico: «No!». È strano per una donna essere così coinvolta in un mondo maschile come quello delle corse? «Forse, ma ormai non mi vedono più come una donna, mi vedono come Jill. Sono parte del sistema e dell’ambiente. Sono sempre molto girly, bionda e col trucco, ma alle corse sono parte della squadra. “Velocità fango e gloria” è il motto di Tony. Il mio invece è: “Velocità fango e rimmel”!».